Mediterraneo

di Alberto Pedrotti

albertopedrotti (at) gmail (dot) com

«Mediterraneo» è una crociera ciclistica, ossia un viaggio compiuto interamente in nave piú bici, con una licenza che verrà spiegata a suo tempo.

Il presente racconto va letto facendo riferimento, tramite i numeri fra parentesi quadre, all'album fotografico

http://picasaweb.google.it/ape277/Mediterraneo

Le immagini sono 360; la numero 352 mostra la carta del percorso. Il formato è 1600x1200, e quindi la maniera piú vantaggiosa di visualizzare l'album è a schermo intero (pulsante slideshow piú eventualmente tasto F11); in tal caso però, a meno di non avere due schermi, per poter seguire il testo si sarà costretti a stamparlo.

1. Corsica

Il viaggio inizia a Livorno, con l'imbarco per la Corsica. Qui è subito salita, per raggiungere la Serra di Pigno, 960 m, modesta «cima delle antenne» della città di Bastia, cima però dalla quale si gode un ampio panorama, specialmente in una giornata ben spazzata dal vento [001]. Il primo posto-tappa è il santuario di Nôtre Dame de la Serra, dal quale vediamo la Calvi con la Citadelle, in versione sia serale che mattutina [002-003].

Inizia a Calvi un tratto di strada forse unico: un centinaio di km di saliscendi nella macchia, in vista di una costa colorita e frastagliata [004]. Verso la fine viene il meglio, ossia le spettacolari Calanches di Piana [005-007]. Da queste salgo, in ambiente sempre molto caratteristico [008], a Capu d'Ortu [009], 1294 m, che domina quasi a picco il Golfo di Porto [010].

Oltre le Calanches incontro Cargèse, primo presagio d'Oriente: la cittadina è stata infatti fondata da emigranti provenienti dal Peloponneso, esiliatisi volontariamente per sfuggire al dominio ottomano; particolarmente suggestiva la chiesa ortodossa [011]. Il successivo appuntamento interessante è con la Pointe de Parata, il promontorio appena fuori Ajaccio [012], prolungato dalle îles Sanguinaires, il cui nome è spiegato dall'immagine seguente, scattata dall'altro lato del Golfo [013].

Un episodio notevole della costa occidentale corsa è dato da Capo di Muro, uno dei piú sporgenti; qui si arriva attraverso una sterrata via via piú sconnessa, e da ultimo con un sentiero ad anello che permette di esplorare in perfetta solitudine il faro e la zona di A Madonnuccia, piccola cappella edificata su una spiaggia selvaggia. Qui si possono scalare queste «flammes de pierre» [014] oppure ci si può godere un «bagno di schiuma» appostandosi dietro uno dei tanti scogli che rompono le onde [015].

Doverosa la visita ai sito preistorico dei Megaliti di Cauria, luogo che non può non ricordare Obelix, come mostrano il dolmen di Fontanaccia [016] (chiamato dai Còrsi «a stazzona di u diavulu») oppure l'allineamento di menhirs di Stantari [017].

A proposito, ricordate gli onnipresenti vecchietti di Asterix in Corsica? Eccone un saggio [018] a Sartène, «la plus corse des villes corses» secondo la definizione di Prosper Mérimée, qui inquadrata sullo sfondo delle Aiguilles de Bavella [019]. Qui l'isola è quasi al termine; mancano soltanto le ultime bizzarrie delle rocce corse, capitanate dal celebre Omo di Cagna; qui vediamo il Lion de Roccapina, con la sua criniera folta di ometti [020]. A Bonifacio mi imbarco per la Sardegna; ma questo sarà oggetto del prossimo episodio.

2. Sardegna

Con un'ora di navigazione arrivo a Santa Teresa di Gallura; qui, se è cambiata l'isola, non sono cambiate le rocce, come ben si vede a Capo Testa [021-022] e non sono cambiati nemmeno i loro capricci, come mostra l'Elefante [023] posto presso Castelsardo, che mi appare in controluce [024] e nei cui vicoli gli anziani intrecciano ceste di vimini [025]. Doverosa una puntata verso l'interno per visitare la magnifica chiesa di Nostra Signora di Tergu [026].

L'estremo lembo nord-occidentale della Sardegna propone due magnifici promontori. Il primo è quello di Stintino, proteso verso l'Asinara, con le saline [027] e le trasparenti acque di Capo Falcone [028]. L'altro è Capo Caccia [029] con l'impressionante «tenaglia sul mare» di Cala Inferno, impreziosita anche dall'isoletta della Foradada [030].

Qui, arrivato giusto per il tramonto [031], trovo una cengia-rampa che - dotata, come tutte le cenge che si rispettino, di un qualche «passo del gatto» [032] - mi permette di scendere a mare. Posso dunque dedicarmi a una piacevole occupazione: sistemarmi sul pelo dell'acqua sotto la volta di una grotta marina rivolta verso il tramonto, e qui aspettare che il sole affondi definitivamente. Sopra di me, al concerto ampio e disteso dei gabbiani, la cui solennità è sancita dall'eco grandiosa di tutte le scogliere, fa da contrappunto, da dentro gli antri, il concerto piccino e un poco isterico dei pipistrelli. Il sole stesso sembra gradire e, per un effetto ottico, l'ultimissimo lembo, ormai approssimato da una serie di scalini, si ferma sopra la linea dell'acqua per due o forse tre lunghi minuti durante i quali il tempo sembra assolutamente sospeso.

Quando il flusso degli istanti riprende, raggiungo a nuoto l'antistante isolotto della Foradada, ed è ormai notte quanto risalgo la rampa [033]. All'alba [034] riparto a nuoto; alla visita dell'isola aggiungo stavolta quella alla Grotta del Nettuno, alla quale ritorno poi via terra per l'Escala del Cabirol, con 700 gradini intagliati nella roccia [035]. Attraverso il Nuraghe Palmavera [036] raggiungo Alghero, città dall'atmosfera originalissima, con il suo lungomare [037] praticamente rivolto verso le Baleari e la Spagna, ragion per cui in questa zona si parla un vecchio dialetto catalano. Alghero costituisce una finestra aperta sull'Occidente in questo viaggio altrimenti destinato a prendere le rotte dell'Oriente.

Una nuova litoranea che sale e scende come un otto volante su per la costa deserta [038] conduce a Bosa, città ricca di monumenti quali la chiesa romanica di San Pietro Extramuros di cui, per una volta, oltre alla navata [039], è interessante mostrare anche la sacrestana che la custodisce [040].

Attraverso gli stagni di Oristano [041], fra cui il Sale Porcus [042], raggiungo la penisola di Tharros dove le onde [043] non si placano nemmeno al mattino [044]. Il promontorio ospita le rovine di una città fenicia [045], una torre di epoca rinascimentale [046] e un faro [047].

Non siamo lontani dalla città di Oristano, legata alla memoria della giudicessa Eleonora d'Arborèa, l'illuminata legislatrice che redasse la «Carta de logu» [048]. È appunto attraversando la fertile Arborea [049] e, successivamente, il Campidano, che arrivo a Cagliari: in maniera alquanto frettolosa, poiché sono atteso da un nuovo imbarco. Ma questo sarà oggetto del prossimo episodio.

3. Sicilia

Con una notte di navigazione raggiungo Trapani; ecco qui alcuni mestieri fotografati intorno al porto: un apprendista ormeggiatore [050] un fruttivendolo [051] e due pescatori intenti al rammendo delle reti [052].

Dal Trapanese, contrada meravigliosa dove ci sarebbe di che trascorrere tutto il tempo rimanente, per non farmi tentare «fuggo» rapidamente verso il Lilibeo e la costa sud, costeggiando le saline, qui fotografate sullo sfondo del Monte Èrice [053] e delle isole Ègadi [054]; ecco poi anche il restaurato mulino della salina-museo Ettore e Infersa [055].

Attraverso Marsala e Mazara del Vallo, luoghi di chiese [056] e di vigneti [057] raggiungo contrade dal fascino un po' misterioso, quali le Rocche di Cusa dove vennero cavati [058] i materiali necessari per l'edificazione dei grandi templi di Selinunte, prima della sua tragica distruzione nel 409 a.C.

J'ai longtemps habité sous de vastes portiques
Que les soleils marins teignaient de mille feux,

[059: tempio E di Selinunte]
Et que leurs grands piliers, droits et majestueux,
Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques.

[060: grotta di Nettuno, Capo Caccia, Sardegna]

(Ch. Baudelaire, La Vie Antérieure)

La prossima tappa di rilievo è Caltabellotta: raggiungibile con una salita di 20 km in mezzo al paesaggio riarso [061] questa cittadina strettamente aggrappata a un monte di quasi mille metri [062] («Die wunderliche Felsenlage von Calata Bellotta!» scrive Goethe vedendola dal basso) torreggia sopra millenni di storia - dai Sicani ai Greci ai Vespri Siciliani - non meno che sulla porzione sudoccidentale dell'isola [063] e sul Canale di Sicilia [064].

A Eraclea Minoa, dove i Selinuntini scelsero un luogo davvero piacevole per fondare una colonia [065], segue Agrigento, con la Valle dei Templi [066], dove c'è di tutto, dal piccolo dei vasi [067]. all'immensità dei «telamoni lugubri, riversi sopra l'erba» [068].

Poco oltre, la cittadina di Palma di Montechiaro ha una duplice fama: se, da una parte, si dice che essa sia il secondo luogo in Italia per densità mafiosa (cosí almeno affermano i giornali), dall'altra essa è pure la Donnafugata del Gattopardo, e idealmente palazzo Tomasi [069] è il luogo del memorabile ballo, degli interminabili «inseguimenti» di Angelica e Tancredi, e dei lunghi intrattenimenti propiziati dai brillanti motteggi di quest'ultimo. Ad esempio quelli riguardanti le avventure dei Mille in Aspromonte dove, come noto, Garibaldi fu ferito: fu ferito a una gamba, come ricorda questo cippo presso Gambàrie d'Aspromonte [070]. A Palma la cattedrale [071] espone un organo magnificamente decorato [072] da «don» Calogero Provenzano, e il sacrestano si compiace notevolmente nel calcare questo titolo di «don». Sotto il castello si cela invece una magnifica spiaggetta [073].

Dopo un ultimo bagno al castello di Falconara [074], da Gela inizia un taglio all'interno verso Caltagirone «regina dei monti», la città della ceramica e della terracotta, materiale di cui è fatto ad esempio questo presepe meccanico [075]; celebre la scalinata [076] che sale a Santa Maria del Monte [077]; il complesso guadagna ulteriormente in suggestione la notte [078].

Al di là della piana di Catania mi attende l'Etna, di cui attacco le prime rampe verso sera, dalla parte di Belpasso. È già buio quando raggiungo il Rifugio Sapienza, dove vengo accolto senza particolare cordialità né tanto meno prodigalità di informazioni, ragion per cui decido di proseguire su per le sabbie della sterrata. Sono incuriosito anche dalle voci che giravano in questi ultimi giorni, secondo le quali il vulcano sarebbe in eruzione. La conferma, in effetti, mi viene dai curiosi che scendono con la frontale: essi mi informano che l'attività esplosiva è improvvisamente cessata alle 21; resta comunque la colata, come dimostra l'indistinto bagliore rossastro che sale dalla Valle del Bove [079].

Superata la quota della Montagnola [080] riesco a individuare una labile traccia che conduce sull'orlo della vallata, fino a giungere in vista della lava, di cui non riesco a valutare la distanza. Con l'ausilio di qualche precario appoggio riesco a racimolare qualche scatto [081] e poi tento, con scarso successo, di proseguire sullo sconvolto fondo lavico. Guardo l'orologio, che segna ormai le due e mezzo: sono ormai da tempo solo sulla montagna, la frontale illumina una specie di nevicata secca - è la cenere, discreta e silenziosa come la neve vera - e i crepitii sinistri che salgono dalla colata non mi incoraggiano certo a proseguire, ragion per cui decido di rientrare alla mia postazione presso la Torre del Filosofo e di chiudermi nel sacco a pelo.

L'indomani mi viene incontro l'alba [082] ben prima che inizi il regolare afflusso dei turisti paganti [083] portati fin quassú dalle jeeps in cambio di 40 euro. Lasciata la bici al punto piú alto raggiunto dalla della sterrata prima di scendere verso nord (la carta indica 3104 metri), salgo ai crateri sommitali [084] e cosí, a due anni di distanza, mi trovo di nuovo in cima all'Etna... Etna: ma quanto meglio chiamarlo col suo piú suggestivo nome di Mongibello: «mons jebel», il «monte monte»: uno di quei nomi ai quali davvero non occorre aggiungere nulla.

Scendendo dall'inanimato mondo dei crateri [085] comincio a trovare le prime, colorite forme di vita [086-087] ben prima di arrivare a Piano Provenzana e alla strada Mareneve. La lunga sortita dal vulcano è coronata dal classico bagno rinfrescante nelle Gole dell'Alcantara [088] in attesa di quello in mare attorno all'Isola Bella [089], proprio sotto Taormina [090], la città dove ritrovo ancora una volta l'ostentato ed estenuato ciabattare delle masse. A sovrastare questa roccaforte del turismo cosmopolita [091] vi è l'amabile paesino di Castelmola, belvedere ideale per ammirare ancora una volta la colata dell'Etna [092], nonché punto di partenza naturale per l'escursione al monte Veneretta, alto appena 884 metri, quanto basta però per offrire una spettacolare visione aerea della costa [093].

Avendo tirato tardi in tutte le maniere immaginabili - cosa peraltro comprensibile in questi luoghi cosí generosamente dotati dalla natura - è già sera quando lascio il mare alla volta della militare dei Peloritani, che dunque mi trovo a percorrere di notte, e in senso inverso rispetto a quanto feci pochi mesi addietro. Era il mattino di Pasqua, luminosissimo, e dalle corte vallette che rigano le pendici della montagna mi salivano scampanii festosi che non potevano non richiamare alla mente la Cavalleria Rusticana. Ora l'ambiente è molto piú raccolto ma, nonostante l'ora, non manca la compagnia [094]. È circa mezzanotte quando sbuco sul cocuzzolo che ospita il santuario di Maria Santissima di Dinnammare, 1127 metri, belvedere eletto sopra lo stretto di Messina. Ecco un'immagine notturna con Capo Peloro, il porto di Messina, Villa San Giovanni, la massa scura del Sant'Elia, e le luci lontane del porto di Gioia Tauro. [095]; segue lo stesso in versione mattutina [096]. Similmente, nelle due versioni ecco anche l'immensa massa dell'Aspromonte [097-098].

L'indomani a Messina mi imbarco per il continente: ma questo sarà oggetto del prossimo episodio.

4. Italia

Appena giunto in Calabria vivo un esemplare pomeriggio mare-monti: dopo aver pranzato a Bagnara ascoltando un anziano marinaio raccontare le avventure del padre, comandante di un MAS nella Beffa di Buccari [099], passando attraverso l'atmosfera rarefatta e un poco misteriosa dei Piani d'Aspromonte [100], prima di sera raggiungo la sommità boscosa del massiccio [101].

L'indomani, se la cima del Montalto, 1955 m, dominata dalla statua del Redentore, non ha alcuna intenzione di uscire dalla nebbia [102], magnifica è invece la discesa sul Santuario di Polsi [103] profondamente annidato fra le pieghe della montagna. La cosa che colpisce, qui a Polsi, è come l'estraneo venga veramente fatto sentire tale: non vi è persona che si degni di salutarlo, o che anche solo alzi gli occhi per incrociarne lo sguardo. In questo non fanno eccezione nemmeno i sacerdoti, forse una dozzina, qui convenuti per concelebrare la messa: rigorosamente in fuoristrada o 4x4, causa la natura rocambolesca della «via normale» che sale a Polsi dal basso, combattendo una battaglia impossibile contro un'interminabile sequela di fiumare [104].

Passando in mezzo a una zona di bizzarre formazioni rocciose, fra le quali spicca la Pietra di Febo [105], raggiungo San Luca, paese dalla duplice fama: da una parte, esso è la patria di una delle faide fra cosche oggi piú attive in Italia, come apprendiamo fin troppo spesso dai telegiornali; dall'altra, è anche la patria di Corrado Alvaro, l'autore di «Gente d'Aspromonte» [106].

Scendo allo Ionio, che costeggio per un tratto, passando sotto la rocca di Gerace [107], prima di iniziare la salita verso il secondo massiccio della Calabria, quello delle Serre. Il percorso è ricco di attrattive, la cittadina di Stilo della quale è celebre soprattutto la bizantina Cattolica [108] e, poco oltre, l'inusuale grotta-eremo di Santa Maria della Stella [109] appeso sulla montagna in vista del mare [110].

Superata la sorgente Mangiatorella, l'acqua piú amata in Calabria, raggiungo il passo di Pietra Spada, toccato dall'ultimo Giro [111]; poco oltre si stacca una sterrata che percorre il crinale delle Serre, nei cui boschi si fa fatica a credere di essere a due passi dal Mediterraneo, anziché nella Selva Boema o sui Krkonose [112]. La strada mi porta prima a lambire la sommità piú alta, il Monte Pecoraro, 1423 m, indi a perdermi piú volte nelle indecifrabili foreste che circondano Serra San Bruno e il lungo perimetro della sua misteriosa certosa.

Segue un nuovo intermezzo marino, con un bagno nelle trasparenti acque di Soverato [113] prima di cominciare, dalle parti di Cròpani [114], la salita alla Sila.

Il bagno successivo è dunque d'acqua dolce, nel lago Ampollino [115] dove inizia una giornata di vagabondaggio per le vastità della Sila. Qui tutto congiura contro l'avanzare del contachilometri [116]; qui non c'è bisogno dei servigi di Sant'Orsola, TN [117], e qui la trasparenza dell'aria è proporzionale alla sua purezza, come sembra attestare anche la longevità degli abitanti [118]. Dopo aver raggiunto monte Botte Donato, 1928 m, culmine del massiccio e dal quale si domina l'altro grande lago, l'Arvo [119], scendo in direzione del Lago di Cecita [120] ormai alle porte della cosiddetta Sila Greca, dove albergano candidi paesini quali San Giorgio Albanese, un posto dove al bar una birra da 33 si paga 80 centesimi, e dove traggo nuove anticipazioni d'Oriente [121].

Un breve intermezzo marittimo sulle rive di Sibari, l'antica città dell'abbondanza, separa la Sila dalla salita al Pollino, che prendo dalla parte di Cerchiara dove attendo che svapori una delle varie piogge avute sui monti della Calabria [122], ma che sono solo un pallido ricordo della solenne lavata che alle vacanze di Pasqua vi presi per quattro giorni di seguito. Poi salgo al santuario di Santa Maria delle Armi, rannicchiato [123] in posizione panoramica sotto l'isolato corno di monte Sèllaro: monte al quale salgo in compagnia di uno sfortunato cane abbandonato proprio la sera prima nei pressi del santuario [124], cosicché suonano beffardi gli inviti, diramati dalla radio accesa dentro il bar, a non disfarsi degli animali domestici in vista delle imminenti vacanze... Il monte, dalla sua posizione un po' decentrata, offre un'eccezionale panoramica sul massiccio del Pollino [125]: in primo piano le Gole del Raganello, strette fra le nude pareti della Timpa di Porace e della Timpa di San Lorenzo; dietro, i «duemila» capitanati dalla Serra Dolcedorme, massima elevazione del Mezzogiorno fra la Maiella e l'Etna.

Dal remoto paese di San Lorenzo Bellizzi [126] mi immetto nell'intrico di sterrate che solcano il Pollino, rasentando le pareti striate della Timpa della Falconara, cuore segreto del massiccio, e antico crocevia di bande di briganti [127]. Qui, dove si incontra solo qualche fontana avara d'acqua [128], navigando un poco a vista raggiungo il Casino del Toscano, dal quale si stacca il sentiero per la Grande Porta del Pollino, accesso privilegiato al mondo fatato dei Piani Alti, luogo difficile da circoscrivere in parole oppure immagini. Sotto lo sguardo dei cavalli che pascolano in libertà [129] salgo alla Serra delle Ciàvole, 2127 m, punteggiata dalle sagome stralunate dei loricati [130].

Il nuovo ritorno al mare si compie lungo la Valle del Sinni [131] con splendide masserie [132] e calanchi che ospitano curiose formazioni quali questi piccoli funghi d'argilla protetti da frammenti di conchiglie [133]. Questa zona di sbocco delle grandi vallate lucane sarebbe davvero ideale per la pratica di un cicloturismo rilassato, e in tal senso meriterebbe probabilmente di essere valorizzata.

Qui, posta sopra un bucolico crinale in un paesaggio quasi toscano, la chiesa di Santa Maria d'Anglona [134] ha la peculiarità di far convivere, ai lati di una stessa navata, santi del calendario occidentale e di quello orientale [135]. Salgo poi verso la Puglia, dove cominciano, nella luce della sera, a comparire trulli [136] e città bianche, tra cui la piú illustre è Martina Franca, i cui vicoli vedono accresciuta a notte la loro suggestione [137]. Il giorno seguente la luce mattutina matura ancora una volta sui trulli [138] per prepararsi a illuminare al meglio la città bianca di Ostuni [139] ormai alle porte di Brindisi - che non è l'oraziana «longae finis chartaeque viaeque», bensí un nuovo punto d'imbarco; ma questo sarà oggetto del prossimo episodio.

5. Turchia

Con trentasei ore di navigazione raggiungo il porto turco di Cesme, dove mi attende una giornata in buona parte lungo il mare [140-141] per raggiungere le rovine di Efeso [142] dove turisti di ogni nazionalità ingaggiano strenue lotte contro il sole a picco [143-144]. Protette da un immenso tetto costruito nel 1999 dagli austriaci sono invece le preziose case a terrazzo romane che, eccezionalmente conservate [145] sono seconde solo a quelle di Pompei. Al contrario, per ironia della sorte, ad Efeso non rimane quasi nulla del Tempio di Artemide, che ne era il vanto, ed era annoverato fra le sette meraviglie dell'antichità.

«Donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco tua madre... E da quel giorno il discepolo la prese con sé nella sua casa»
[146: affresco in una chiesa rupestre di Göreme, Cappadocia].

Meryemana, la Casa di Maria [147], alta su una collina che domina Efeso, è il luogo dove secondo la tradizione ella avrebbe trascorso i suoi ultimi anni prima di morire o, per gli ortodossi, di addormentarsi definitivamente [148: Dormitio Virginis nella Cattolica di Stilo, Calabria], cosicché questo «mucchio di pietre» attira ogni anno piú di un milione di visitatori sia cristiani che musulmani.

Sembra che Maria fosse con Giovanni già alla prima venuta di questi a Efeso, fra l'anno 37 e il 48. L'evangelista poi fu in esilio a Patmos, dove scrisse l'Apocalisse, di cui Efeso è una delle sette chiese. Soltanto al suo ritorno a Efeso, ormai quasi centenario, scrisse il quarto Vangelo, sulla collina di Ayasuluk dove l'imperatore Giustiniano fece erigere una cattedrale di dimensioni grandiose. Oggi le colonne che ne rimangono si confondono quasi [149] con quelle della sottostante, scintillante moschea di Isa Bey [150-151].

«E li avresti creduti svegli, mentre invece dormivano, e li voltavamo sul lato destro e sul sinistro, mentre il loro cane era accucciato con le zampe distese, sulla soglia. Rimasero dunque nella loro caverna trecento anni»

Cosí recita la sura 18 del Corano, ma la storia dovrebbe suonare familiare anche, ad esempio, ai lettori del Cane di Terracotta di Camilleri... Proprio a Efeso si trova anche la Grotta dei Sette Dormienti [152]; io me ne vado invece a dormire fra le rovine di Nissa, a un'ottantina di km di distanza nella valle del Meandro [153]: siamo sulla via di Pamukkale, il «castello di cotone» costituito da bianche vasche calcaree, in gran parte piene d'acqua, che digradano dalla collina [154-160].

Proprio sopra le vasche di travertino stanno le rovine di Hierapolis di Frigia, dove particolarmente impressionante è il teatro [161] e particolarmente suggestivo il sacello ottagonale detto Martirio di San Filippo Apostolo [162] dove, causa la posizione isolata, abbondano le cicale ma non arrivano i giapponesi. I grandiosi scavi di Hierapolis sono condotti da una missione italiana; vi collaborano però anche questi tedeschi che vanno intorno sotto il sole a fare rilievi con un magnetometro del peso di 24 kg [163].

Da perfetto clandestino mi infilo poi nelle terme antiche; l'immagine seguente costituisce un notevole raggiungimento dal punto di vista del fai-da-te fotografico [164]; il lettore a cui tuttavia essa destasse un non ingiustificato orrore può rimettersi in sesto con quest'altra [165].

«Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me».
A Laodicea, una delle sette chiese dell'Apocalisse, sazio di capitelli e peristili, mi limito a prendere il tè con gli operai degli scavi e ad abbozzare qualche sperimentazione di ciclismo su pavimentazione antica [166]. Poi me ne vado a prendere il fresco sotto le volte di Akhan, il «caravanserraglio bianco», costruzione selgiuchide del 1251 [167].

Nella vicina città di Denizli scatta la licenza di cui dicevo all'inizio: avendo tagliato la traversata dell'Epiro e della Macedonia con la quale, secondo il programma originario, avrei dovuto raggiungere la Turchia, ho a disposizione qualche giorno di margine che vorrei investire in una breve scappata in Cappadocia. D'altronde, la «paucitas dierum» che pur sempre ci perseguita fa sí che il margine non sia tale da potervi andare in bici, per giunta sfidando il vento che soffia sempre inesausto dal cuore dell'Anatolia. Per una volta farò dunque ricorso a un comodo autobus notturno: la Turchia ha anche questo di bello, un efficientissimo sistema di trasporto pubblico.

Appena giunto a destinazione a Nevsehir, mentre gli altri turisti si stanno ancora raccapezzando fra taxi e dolmus (i caratteristici minibus turchi) io già mi trovo - in questo la bici è veramente favolosa - nel vivo della faccenda, a camminare nella fantastica Valle Bianca [168-170] dove trovo anche questo calco del Gran Zebrú [171] e dove di tanto in tanto il sentiero si infila entro passaggi sotterranei [172]. A Cavusin rimangono le forme, solo si cambia colore [173-174]; ecco invece le tonalità che queste rocce assumono a sera [175-177].

La Cappadocia è anche e soprattutto un luogo bizzarro. Vi si può ad esempio trovare, a fianco di una chiesa rupestre [178], un camino (delle fate) con tanto di masso incastrato [179]. Oppure, dal proprio giaciglio su una rupe, al mattino nel dormiveglia si possono percepire degli strani sbuffi: al che si aprono gli occhi e ci si rende conto che il cielo è punteggiato di mongolfiere, come talora il mare di meduse [180]. Non sono pochi in effetti i turisti che investono 150 euro e 40 minuti della loro vita per un volo sopra i camini delle fate [181].

A Göreme vi sono da visitare 365 chiese rupestri, la maggior parte riccamente affrescate [182] tranne quelle del periodo iconoclasta, nel quale, come si può vedere, le capacità grafiche erano alquanto decadute [183]. Detto per inciso, io ascolto a scrocco i ciceroni di tutte le comitive: se per uno questo gallo è simbolo di Cristo che sveglia l'umanità, per il successivo ricorda invece i rinnegamenti di Pietro.

Nel pomeriggio vado a prendere il fresco fra le mura di Sarihan, il «caravanserraglio giallo», costruzione selgiuchide del 1249 [184-186]. Sono solo sei i km per arrivarvi, ma questa vera e propria autostrada nel deserto, che fila dritto verso Oriente, è per me una vera folgorazione: una volta tanto, a Dio piacendo mi affaccerò alla nuova estate con le idee chiare su dove andare...

Nel mio costante pendolare fra luoghi fuori mano e becere mete turistiche, mi trovo a sera nel luogo battezzato Sunset Point [187] nome coniato ad uso soprattutto dei giapponesi armati di cannoni. Fra di essi, però, si nasconde inattesa anche una coppia di motociclisti trentini [188] che poi ritroverò per caso sulle coste del Mediterraneo: benché il mondo sia grande, per i pochi turisti indipendenti che ancora sopravvivono esso a volte si fa piccolo. Da Sunset Point lancio anche un ideale saluto al leggendario Monte Argeo, 3917 m [189]: l'appuntamento, se tutto va bene, è fissato a fra un anno, quando sperabilmente arriverò qui «by fair means», ed allora avrà senso tentarne l'ascensione.

In Cappadocia si scavavano buchi per tutto. Non solo per le chiese rupestri, ma anche per fare delle piccionaie, e da questi uccelli che portavano concime naturale prende nome appunto la Valle dei Piccioni, [190], primo argomento del mio terzo e ultimo giorno. In caso di attacco nemico, erano invece pronte delle città sotterranee disposte su 8-12 piani attorno ai pozzi di ventilazione: come questa di Kaimakli [191], visitata la quale è tempo di tornare per campagne e paesini [192-193] all'autobus che mi porta via dalla Cappadocia.

Ripreso il giro principale, scopro per caso fra le montagne una nuova meraviglia ignorata da tutte le guide turistiche: il Salda Gölü [194], adagiato in un antico cratere spento; qui - facendo attenzione alle sabbie mobili che hanno ingoiato piú di un bagnante - si può nuotare fra isolette e trasparenze degne di mari da cartolina [195].

Dopo il bagno riprende la mia marcia di paesino in paesino [196] finché la sera stessa nel paesino di Karamanli [197] chiedendo di un ristorante mi trovo coinvolto in un matrimonio turco. Siamo alla prima delle tre giornate che esso dura, e le energie sono molte. Cosí, oltre alla sposa, anche l'anziana «mama» balla vivacemente per lungo tempo su musiche anatoliche [198] prima di concedersi un riposo [199].

L'indomani, invece, con i servigi di interprete forniti da un pensionato rientrato dalla Germania (è questa spesso l'unica ancora di salvezza dal punto di vista della comunicazione, qui in Turchia) mi lancio negli acquisti al mercato di Tefenni [200], per poi partire verso il valico di Ali Beli, 1560 metri, [201], fra paesaggi desolati solo in apparenza; in realtà l'acqua e con essa non mancano le fontane, talora dimesse ed improvvisate [202] e talora opulente come questa [203]. Notare, in cima all'inquadratura, la targhetta luccicante che reca l'analisi chimica dell'acqua!

Avvicinandosi al mare si entra invece nelle foreste di pini d'Aleppo del Parco Nazionale dei monti Bey [204]; qui salgo al sito archeologico di Termessos, forse la piú «alpinistica» delle città antiche, che dalla sua posizione sopra i 1000 metri ha resistito sia ad Alessandro Magno che ai Romani. Qui i marmi sono avvinghiati dalla vegetazione, proprio come sarebbe piaciuto ai pittori e incisori di rovine del primo Ottocento. Ecco una panoramica del teatro, con il monte che gli fa da sfondo [205]; il taglio un po' primitivo dell'inquadratura mi sembrava in armonia con la poetica del luogo. Nel raggiungere il teatro oppure le necropoli può capitare, facendosi strada tra le frasche, di calpestare inavvertitamente un «sasso» di questa fatta [206]. Il giorno seguente salgo (un po' arrampicando e un po' come si dice da noi «a strazabosco») sulla cima del monte-sfondo, giusto per raccogliere il «viceversa» dell'immagine di sopra [207].

Dopo Termessos è la volta della Licia: la «terra della luce», dove il visitatore si trova in continuo conflitto di interessi fra mare, montagna e storia. Molti si godono lo straordinario tratto di costa da una «crociera blu» su una goletta turca di legno: se ne vedono praticamente di ancorate in ogni caletta [208]. Oggi però va prendendo piede anche la Via Licia: sentiero di 509 km che, fortemente voluto e realizzato dall'«esploratrice» Kate Clow, ha acquistato fama dopo essere stato classificato dal Sunday Times fra i 10 migliori trekking al mondo. In effetti il percorso, per quel che ho potuto vedere, è ottimamente segnalato [209].

Con il buio arrivo alla Chimera, in turco Yanartas, la «montagna che arde»: il gas che qui si incendia al solo contatto con l'aria [210] facendo brillare la collina di fiamme che nell'antichità erano chiaramente discernibili dai naviganti. Oggi sono indebolite ed è relativamente poco quel che rimane [211] del respiro di Chimera, dopo che questa (la quale aveva testa di leone, corpo di capra e coda di drago) fu uccisa da Bellerofonte. Chimera era figlia di Tifeo, il quale era a sua volta figlio di Gaia, la Madre Terra. Tifeo era un essere talmente riprovevole che Zeus decise di legarlo vivo sotto la Trinacria, l'isola «dai tre angoli», con i piedi ancorati a Capo Lilibeo e le mani agli altri due: onde dalla bocca egli ancor oggi (vedi sopra) vomita fuoco nei pressi di Catania.

Nel tratto di costa tra Finike e Demre si fatica a credere di essere in Turchia e non in Dalmazia [212-213]. Pure a Demre, quando si apprende di essere nella terra natale di San Nicola e se ne trova la basilica [214] si fatica a credere di essere in riva al Mediterraneo. Ma non ci si sbaglia, San Nicola è originario proprio di qui, solo che tutti poi gliene hanno combinato una: quelli di Bari (Repubblica del Sud) ne hanno trafugato le ossa a scopo di lucro; quelli delle Repubbliche del Nord ne hanno storpiato il nome e gli hanno attribuito slitte e renne. Forse ha avuto maggior fortuna con le Repubbliche dell'Est: la basilica è stata infatti restaurata nell'Ottocento con una donazione dello Zar, ed è a tutt'oggi stracolma di visitatori russi.

Nei dintorni si visitano le rovine della città licia di Myra, con suggestive tombe rupestri [215] e innumerevoli reperti [216]. Ad Andriake invece piú che i reperti balzano all'occhio i cantieri dove fra l'altro si recuperano vecchie barche [217] le quali sembrano quasi dipinte come queste di Bosa [218]. Non a caso siamo alle porte dell'arcipelago di Kekova, dove quasi tutti arrivano in barca; sono ben pochi gli avventurieri e i pullman che affrontano il laborioso avvicinamento via terra. Quando l'isola appare, di nuovo si fatica - complice forse anche il nome - a credere di non essere sulle rive della Dalmazia [219].

Appena le mie ruote sfiorano il molo vengo preso in consegna da un barcaiolo che mi porta all'isola, dove resistono i resti di una città bizantina [220] in parte sommersa dai terremoti che hanno ripetutamente sconvolto la regione [221]. Ne esce un bel giro serale in barca [222] che tento di ripetere il giorno dopo a nuoto, venendo però dissuaso dalla pericolosa corrente del canale. Allora ho l'idea di noleggiare una piccola canoa, che mi permette di esplorare ampiamente l'arcipelago, di cui farebbe curiosamente parte, piú in là, anche l'isola greca di Kastellorizo, la quale acquisì una certa fama qualche lustro addietro, ai tempi del film «Mediterraneo».

Punto di partenza della mia uscita a remi è Kaleköy, che da terra si può raggiungere solo a piedi, passando per il castello [223], situato in magnifica posizione sul canale di Kekova, che qui vediamo in due diverse luci [224-225]. La collina del castello è punteggiata di sarcofagi lici con la tipica copertura «a chiglia rovesciata»; vale la pena di vedere anche questi in due luci diverse [226-227].

Simbolo di Kaleköy - l'antica Simena - è tuttavia il sarcofago sommerso dai terremoti [228]; il suo destino non è dissimile dal destino di questa tomba di Hierapolis, a poco a poco sommersa dal calcio [229]. Nei paesini intorno a Kekova, poi, c'è di che consolarsi dell'impossibilità di portare la fotocamera sulla canoa [230-232].

Al solito, da un alveare turistico basta allontanarsi una decina di km per trovare scene di tutt'altro tipo, come davanti a questa moschea di Bogazcik [233], sperduto paese erede delle sperdute rovine di Apollonia [234] fra le quali ancora una volta srotolo il mio sacco a pelo: la suggestione del campeggio in mezzo ai marmi dei siti archeologici è stata una delle più piacevoli scoperte del viaggio.

Rovine classiche: questo è il consiglio che dal Mediterraneo riporto ad uso del campeggiatore libero esigente.

L'indomani di primo mattino faccio un incontro destinato a sconvolgere il mio itinerario che sembrava ormai tranquillamente incanalato fra calette trasparenti e sarcofagi lici. È l'incontro con un lontano profilo di montagne dal colore lattiginoso [235]; di esse conosco solo il nome (Akdag, ossia Monte Bianco), la quota e poco piú. Sento tuttavia che è lí che devo andare. Questo comporta lo scavalcamento di diverse creste e valloni, attraversando paesaggi rurali scarsamente popolati [236-237].

È sempre in questi luoghi improbabili che avvengono gli incontri piú memorabili, come quello con Joan ed Elisenda [238], personaggi che sfiorano l'epico: già buoni conoscitori della Turchia, con il loro mezzo intendono di qui ritornare a casa, a Barcellona, risalendo i Balcani.

Anche con loro avrò un nuovo incontro, a sera, sotto un ultimo isolato ristorante che scelgo come base per attaccare l'Akdag [239]. Con la prima luce [240] parto alla ricerca dello Yesilgöl, il «lago verde» [241] sbarrato da una morena al di là della quale scaturisce la cascata di Ucarsu [242]. Una strada bianca conduce alla sublime spianata di Subaziyaylasi [243] dove le pecore stanno per lo piú lungo il rigagnolo [244], producendosi di tanto in tanto in qualche attraversamento [245] mentre i pastori mangiano kebab, e io sono invitato a fare lo stesso [246]. Dalla spianata una traccia sale per un desolato vallone a quelle che fortunatamente ho indovinato nel giudicare le cime piú alte [247].

Nella foto si intravede una delle residue chiazze di neve; è l'occasione giusta per fare una retrospettiva sulle nevi (!!) del Mediterraneo: ecco allora Akdag, 15 agosto [248]; Etna, 20 luglio [249]; Corsica, 5 luglio [250].

A mezzogiorno di Ferragosto sono dunque presso l'ometto dell'Uyluk Tepe [251], 3016 metri, culmine dell'Akdag - Monte Bianco di Licia - e seconda vetta dell'Anatolia Occientale dopo la piramide del Kizlarsivrisi, 3070 metri, il quale invece è il culmine dei monti Bey - che sono poi nient'altro che i dirimpettai. Frugo nel libro di vetta in cerca di ascensioni «esotiche», ricordando che l'uguale stavo facendo l'anno scorso - stesso giorno, stessa ora - sulla cima del Rysy, in Polonia. Nel libro, datato 2006, trovo un argentino, un belga, due scozzesi, un ceco e l'immancabile austriaco, salito a novembre con i ramponi. Relativamente numerosi gli alpinisti locali, i quali tipicamente inneggiano al Galatasaray o al Fenerbahce piú che non alle meraviglie del creato - o forse inneggeranno anche a quelle, ma se lo fanno lo fanno in turco, lingua della quale per ora io possiedo solo la terminologia minima attinente al nutrimento del corpo, non già a quello dello spirito. Scendo per un'altra via, tra cuscini di fiori [252], e comincio a trovare i primi insediamenti intorno ai 2500 metri [253-254].

Qui arriva una sterrata [255] che a sera risalgo in bici [256] prima di riscendere verso Subaziyaylasi [257] e verso la base [258]. Presso il ristorante, tra l'altro, sotterro la tenda, praticamente inutilizzata in questo viaggio di notti sotto le stelle, in attesa di recuperarla magari l'anno prossimo - a meno che non me la recuperi gentilmente qualche ripetitore del percorso.

L'indomani scendo a fondovalle intenzionato a chiudere la parentesi montana, ma poi subito cambio idea: riattacco il massiccio da un altro lato, con l'intenzione di trovare il Girdev Gölü di cui mi hanno parlato Joan ed Elisenda. Il lago, cui si accede attraverso un valico di circa 2000 metri, in estate diventa un'ampia spianata coltivata; la si intravede dietro questa falange di pecore intente a ripararsi reciprocamente dal sole, con regolari cambi ai bordi [259]. Esco da Girdev dalla parte opposta per una sterrata a saliscendi che attraversa un altro valico di duemila metri, e di lí comincio a scendere verso spianata posta dall'altra parte del massiccio. Di nuovo però ho dei ripensamenti; a metà discesa giro la bici e torno in alto a fare ricerche, trovando il modo di salire l'Eren Dag, 2677 m, dal quale Girdev ha un qualcosa del nostro piano di Castelluccio [260].

La notte, mentre sono nel sacco a pelo, disteso a poca distanza dalla strada, nel dormiveglia vedo sfilare la silhouette di un pastore, ed approfitto del fatto di essere desto per scattare qualche foto: tuttavia, benché la luna sia salita e non vi sia nessuna nube a oscurare il cielo, la luminosità è calata. Metto gli occhiali e mi accorgo che vi è in corso una piccola eclissi [261]. Quando questa si risolve, riesco a scattare delle foto [262] comparabili con quelle del giorno [263].

Da notare il veicolo nell'ultima immagine, poiché la sua presenza si rivela per me provvidenziale: rimasto accidentalmente senza provviste, non mangio infatti da 24 ore, e i due ragazzi che lo occupano acconsentono a farmi partecipe della loro colazione. Questo mi permette di resistere ancora un giorno e di dirigere, non senza qualche ulteriore tè con i pastori [264] verso il massiccio e trapezoidale Yumru Dag, seconda vetta della regione, dai pendii levigati [265] che mi esercito a pensare coperti di neve. Dalla cima, se riesco a rivedere Yesilgöl [266], devo però rinunciare, causa la luce sfavorevole, a raccogliere quella documentazione fotografica sull'Akdag che avevo sperato.

Finalmente, dopo gli ultimi incontri della giornata [267-268] valico il passo di Kilincli [269] dal quale comincio a scendere, e stavolta non per finta, perché cosí impone la fame.

«Quasi cedrus exaltata sum in Libano, et quasi cypressus in monte Sion...» Il versante nord-ovest del massiccio dell'Akdag è tutto ammantato di questi alberi [270] che qui possono raggiungere 2.45 metri di raggio e 26 di altezza. La mia «Map of Ancient Lycia» rimediata in un bazar riporta questi dati con piú solerzia di quanto non faccia con le strade. Un paragone si impone fra i cedri dell'Akdag [271-272] e i loricati del Pollino [273-274].

Si fa ormai sera [275] e poi notte, ma gli incontri non si diradano [276-277]; riesco a raggiungere un paesino dove, se ancora non vi è ombra di cibo, quanto meno trovo una moschea [278] presso la quale poggiare il sacco a pelo.

Solo il mattino seguente, ormai in riva al mare ritornerò a toccare del cibo. Avviene a Fethiye, poco prima di dare corso a un nuovo esperimento; ma questo sarà oggetto del prossimo episodio.

6. Rodi

L'esperimento consiste nel montare la bici sull'aliscafo [279] che in un paio di ore mi permette di raggiungere Rodi; mi trovo cosí sbalzato in breve tempo da un giaciglio presso una moschea di un ignoto paesino su una montagna turca [280] a questa specie di Miami Beach [281] che però è buona per un bagno prima di cominciare il periplo dell'isola.

In questa occasione il vento, contrario lungo tutto il tragitto turco, come lamentavano anche gli amici motociclisti, compie il suo capolavoro: durante la notte prima che inizi la mia risalita dell'isola, si inverte e mi si dispone in maniera avversa anche per il ritorno. Scattata a Rodi, questa potrebbe essere la foto simbolo dell'intero viaggio [282].

Dall'alba [283] al tramonto [284]: tanto dura l'avventura sul brullo monte Ataviros [285] la cui cima è occupata da una selva di ometti [286]. Oltre 3000 metri di salita per arrivare su una cima che di metri ne fa 1216. Le cose vanno cosí: giro 180 gradi attorno alla montagna per imboccare il sentiero che permette di salire a piedi, ma sul crinale scopro una sterrata proveniente non so da dove. Scendo intenzionato a trovarne l'imbocco; trovo prima delle gole scavate con chissà quanta furia da chissà quali acque [287], ma devo poi completare altri 180 gradi di saliscendi per scoprire che la sterrata partiva dall'incrocio che al mattino avevo tagliato per risparmiare qualche centinaio di metri...

Il voltafaccia del vento porta su Rodi un'umidità anomala [288] e nella parte piú meridionale [289] mi pare di essere tornato fra le dune di Sylt dove mi trovavo l'anno scorso.

All'estremo sud dell'isola vi è il paese di Katavia; da questa simpatica chiesetta [290] si stacca la strada per la penisoletta di Prassonissi, dove uso gli ultimi scogli sotto il faro [291] per un nuovo bagno fra le schiume. Segue la risalita a ritmo un po' forzato per tornare al capoluogo. Qui, dove una volta sorgeva il Colosso, una delle sette meraviglie dell'antichità, oggi rimane solo la cittadella veneziana con i suoi bastioni [292] fra i quali, a sera, si riversa in strada il torrente dei vacanzieri [293] e si leva altissimo il frastuono della nostra civiltà fondata sullo stordimento. A mezzanotte la bici, che in giornata ha appena compiuto i 50 mila km, si trova di nuovo imbarcata: ma questo sarà oggetto del prossimo episodio.

7. Creta

Con una dozzina di ore di navigazione, comprendenti scali a Karpathos e Kassos, raggiungo Sitia, nella zona nordorientale dell'isola di Creta. Le avventure cretesi cominciano dal monastero di Toplou [294-295] dove assisto anche a una messa ortodossa [296]. Intanto scende il buio [297], cosicché rimando all'indomani il raggiungimento di capo Sideros, estremità orientale dell'isola [298].

Questa zona è una vera miniera di calette sia verso nord [299] che verso sud [300] La baia di Vai, poi, è una specie di fiera dell'esotico, con una piantagione di banane [301] e con la celebre «palm beach» [302] che, posta in fondo all'unica «palmeraie» d'Europa, è un vero paradiso per i turisti [303].

Tutt'altra musica nella Baia di Karoumes [304]: per accedervi serve qualche km a piedi nella gola di Chochlakies [305]; ma alla fine della gola si è ricompensati dallo schiudersi di diversi km di costa tutta per sé [306].

In un magico pomeriggio isolano [307-308] raggiungo Xerokambos, di fronte agli isolotti Kavalli [309] dei quali l'indomani faccio il giro a nuoto. Il mio campo base è presso una graziosa chiesetta che, come esercizio di fotografia, riprendo in tutte le luci possibili [310-314].

Da Xerokambos si esce solo salendo per una di quelle portentose stradine che ci sono ancora a Creta [315], ma bisogna affrettarsi perché le scavatrici sono ovunque al lavoro [316] e fra poco avremo anche qui dovizia di larghi stradoni contornati da strisce di bandone: anche questa capra sembra guardare disorientata a un tale futuro [317].

Girando per gli incantati e quasi sospesi paesini di Creta [318-322] arrivo ai piedi dello Psilorits, l'antico Monte Ida dove in una grotta Rea partorì Zeus, e lo protesse dalla furia di Crono. Dalla vallata che si stende ai suoi piedi, e che assomiglia alquanto al nostro Vallone del Vasto, trovo una sterrata che sale molto in alto; dal suo termine mi è facile salire la cima dell'Agathias, dalla quale appare Timios Stavros [323], che con i suoi 2456 m è la vetta piú alta dello Psiloritis e dell'isola di Creta; essa ospita anche una simpatica chiesetta di sassi [324]. Tornato al parcheggio [325] ho cura di cambiare i pattini dei freni, molto temendo la discesa di 1300 metri in 13 km, con particolare riguardo al finale asfaltato, 400 m in 2.8 km.

Nell'eterno andirivieni delle strade dell'isola scendo al mare, risalgo e, passato Spili, con la sua versione cretese delle nostre 99 cannelle [326], mi infilo nella gola del Kourtaliotiko [327], dove trovo ricetto presso una bella chiesetta aggrappata alla roccia [328-329].

L'indomani dirigo verso quella specie di «land's end» che è la parte sudoccidentale di Creta, dove Frangokastello somiglia a una specie di caravanserraglio in versione nostrana, per l'esattezza veneziana [330]. A Chora Sfakion la strada costiera termina, sbarrata dalla muraglia dei Lefka Ori, i «Monti Bianchi» di Creta, che qui vediamo fare da sfondo a questa magnifica chiesetta semidiruta [331]. Per non cadere di nuovo nella tentazione di andar per «crozzi», sarebbe mia intenzione salire sulla barca che supplisce via mare alla strada mancante, aggirando cosí il massiccio. Tuttavia, mentre mi attardo a collezionare nuove foto [332-333] scopro che la barca - che avevo visto arrivare - a tempo di record si è girata ed è ripartita, lasciandomi a guardare dall'alto la sua scia.

Poco male: andando a nuotare, per consolarmi, lungo la costa dirupata, scopro che essa è bucherellata da una serie di profonde grotte marine, dove improvvise iridescenze rivelano la presenza di cunicoli segreti, creando una sorta di Cappadocia a pelo d'acqua. Peccato che, quando cerco via terra di carpire con l'obiettivo una vaga idea degli incanti che ho visto dal mare [334-335], mi trovo a «disarrampicare» in mezzo - tutto il mondo è paese - a una discarica a cielo aperto [336].

Salgo ad Anopolis, paesino a mezza altezza dal quale scopro che una sterrata si addentra nel cuore dei Lefka Ori. La barca persa, la sterrata: sono inequivocabili segni del destino, i «crozzi» mi rivogliono e il loro desiderio va assecondato... Funziona cosí: a venti, massimo trent'anni ancora si è pieni di buoni propositi - diventare migliori e piú aperti di mente e combattere senza quartiere le proprie fissazioni, ivi compresi i crozzi. Piú tardi ci si accorge che si trattava di una battaglia persa e ci si accetta cosí come si è - come si suol dire, fregandosene - e questo non sempre è un male. Eccomi dunque l'indomani a fare esplorazioni nel bel mezzo del massiccio e a salire - quindici anni dopo il Gingilos che, situato in posizione periferica, può essere ben piú comodamente salito dall'imbocco delle Gole di Samaria - lo splendido cono del Troharis [337], 2410 m e, con breve traversata per creste, il Pachnes [338], 2453 m, il quale per soli tre metri è la seconda vetta dell'isola. Tanto che un tempo il club alpino di Creta occidentale vi eresse un ometto di altezza bastevole per non dover soffrire complessi di inferiorità nei confronti dei cugini di Creta centrale.

Al loro interno i Lefka Ori sono tutt'altro che bianchi [339-340], e le loro tranquille e seducenti sagome coniche inviterebbero a seguire le tracce di Michel Parmentier, il quale nel suo libro «Les grands raids a ski - Montagnes de la Mediterranée» descrive un'insolita traversata scialpinistica del massiccio.

Scendendo per la sterrata, nera nella parte alta [341], rossa nella intermedia [342] e in fondo bianca come, finalmente, anche le montagne [343], devo convenire che, in definitiva, la salita «indesiderata» ai Lefka Ori - i Monti Bianchi di Creta - si è rivelata uno dei capitoli piú belli di Mediterraneo, che già di per sé è stato un viaggio intorno/attraverso la bellezza: con tutto ciò che essa ha di entusiasmante; con tutto ciò che essa anche ha di morboso ed inquietante, quando sembra oltrepassare e quasi irridere il nostro talora angusto e un poco filisteo «senso della misura».

A 200 metri dal termine dei 19 km di discesa a fondo naturale incappo in una foratura, il che rende ancora piú delicata la «cronometro» di 90 km che mi attende dopo pranzo: riscendere alla costa sud, passare lo spartiacque dell'isola intorno ai 900 metri del plateau di Imbrios, e fiondarmi dove a sera mi attende la prima delle due navi già prenotate che dovranno riportarmi a casa. Fortunatamente nulla piú va per traverso, e riesco senza affanno ad imbarcarmi: ma questo sarà oggetto del prossimo episodio, al quale però spetta piuttosto, per la sua natura, il nome di «esodo».

Esodo

Con una notte di navigazione raggiungo il porto del Pireo, dove dirigo verso il Canale di Corinto [344] vale a dire verso il Peloponneso. Qui, nella penultima sera in terra di Grecia [345] cerco di strappare al vento, sempre ostinatamente contrario, il maggior quantitativo possibile di strada; è infatti mia intenzione partire l'indomani all'alba [346] alla volta del monte Helmos, raggiungibile con breve camminata dall'omonimo Ski Center, raggiungibile a sua volta dalla costa con 48 km di salita magnifica, ancorché spezzata nel mezzo da una fastidiosa perdita di 400 m di quota.

Nascondo il bagaglio presso il monumento che ricorda l'eccidio nazista di Kalavrita, che è un po' la Sant'Anna di Stazzema del Peloponneso [347], e per la prima volta mi godo dunque qualche km scarico. A cinque anni esatti di distanza dal 29 agosto 2003 in cui scoprii questa affascinante montagna, mi ritrovo dunque a calcare i 2341 metri del monte Helmos o Aroania [348], terza vetta della penisola dopo il Taigeto e il Cillene. Quest'ultimo è vicino e ben visibile, con il suo ampio costone sul quale Ercole si sedette a suonare le nacchere di bronzo per scacciare gli uccelli della palude Stimfalia... Quella fatica - la sesta - fu anche l'ultima che l'eroe portò a termine nel «piccolo mondo» del Peloponneso; per le altre sei avrebbe dovuto aprirsi al «grande mondo» - il Mediterraneo e anche oltre - spaziando dal Caucaso, dove si impadroní della cintura di Ippolita, fino là dove il Sole va ogni giorno con il suo cocchio a riposare, sul lontano Atlante marocchino, dove colse i pomi delle Espèridi.

Recuperato il bagaglio, manca solo un'ultima «cronometro» lungo la strada che, a suon di volute e saliscendi, riesce a trovarsi un passaggio fra l'Erimanto e il Panacaico e a scendere a Patrasso, dove è doverosa un'ultima cena a base di - detto alla greca - «sardelle» e «kalamaraki» [349]. Con trentadue ore di navigazione arrivo a Venezia [350] da dove non restano che gli sgoccioli, ossia l'ultima giornata: qualche km finalmente in piano e senza vento, indi la Valsugana e, da ultimo, Passo Cinque Croci.

Finisce qui, in un'atmosfera invero poco mediterranea [351], la narrazione di Mediterraneo, crociera ciclistica - con una licenza - in sette episodi e un esodo, il cui quadro d'insieme è dato dalla seguente carta [352]. Per gli amanti dei numeri, sono stati circa 3300 km di nave e 5703 km di bici, cosí ripartiti: Corsica 544, Sardegna 612, Sicilia 809, Italia 950, Turchia 1355, Rodi 304, Creta 611, rientro 518.

Altri dati, sempre per gli amanti dei numeri: 56 fra tappe e semitappe in bici; 2 giorni di pura navigazione; 21 cime, 49 bagni per lo piú in mare, ma anche in laghi di montagna oppure in vasche termali; una stima di 300 litri di liquidi consumati, oltre il quadruplo del peso corporeo, conteggiando una media di 5-6 litri al giorno, ma con punte anche di 8-9 nelle giornate piú torride. E ancora: 8 forature, il telefonino rubato già allo sbarco in Sardegna (ragion per cui il viaggio è proseguito alla vecchia, andando per cabine), il registratore digitale che mi ero portato per prendere appunti volanti rubato già in Sicilia (ragion per cui il viaggio è proseguito alla vecchia, prendendo annotazioni con carta e penna), la costosa frontale, che aveva sempre funzionato, «impazzita» a metà percorso, quella turca di rimpiazzo impazzita pure lei. Per quanto riguarda la macchina fotografica, già al primo scatto agli scogli della Meloria, fuori Livorno, mi ero accorto che aveva un lieve infortunio, ma questo non ha impedito di raccogliere, seppure con qualche piccolo incomodo, 5000 scatti: ragion per cui il presente racconto costituisce solo un primo tentativo di sistemare una mole di materiale che, ora come ora, conosco solo vagamente. D'altronde, come noto, si fa presto a fare un viaggio; si fa meno presto, poi, a decifrare e assimilare tutto ciò che si è visto o anche solo intuito. Siccome però la ragion d'essere del nostro girare risiede anche e soprattutto nel ricordo, questa non è certo una circostanza della quale lagnarsi.

Töne mir in die Seele noch oft, [] und wenn die reißende Zeit mir
Zu gewaltig das Haupt ergreift und die Noth und das Irrsal
Unter Sterblichen mir mein sterblich Leben erschüttert,
Laß der Stille mich dann in deiner Tiefe gedenken.

(Fr. Hölderlin, Der Archipelagus)

[353: alba a Capo Caccia, Sardegna]
[354: caletta presso Stalettí, Calabria]
[355: tramonto a Capu D'Ortu, Corsica]
[356: riflessi ad Alghero]
[357: mattino sul sentiero per Kaleköy, Kekova]
[358: torre di Tharros, Sardegna]
[359: notte a Ucagiz, Kekova]
[360: alba sul Golfo di Corinto]

Dettaglio delle tappe

Il viaggio si è svolto fra il 05 luglio e il 31 agosto 2008.
I dati riportati sono i seguenti:
km: parziale della giornata
Km: parziale del viaggio
M: montagne
B: bagni
F: forature

 01. sab 05: Bastia - Nôtre Dame de la Serra (108 km, 108 Km)
     M01: Serra di Pigno
 02. dom 06: Nôtre Dame de la Serra - Capo d'Ortu (98 km, 206 Km)
     B01: Porto
     M02: Capu d'Ortu
 03. lun 07: Capo d'Ortu - Capo di Muro (152 km, 358 Km)
     B02: Portu Monachi
     B03: Portigliolo
 04. mar 08: Capo di Muro - Cauria (110 km, 468 Km)
     B04: Madonnuccia
 05. mer 09: Cauria - Capo Testa (90 km, 76+14, 558 Km; Corsica: 544)
 06. gio 10: Capo Testa - Tergu (101 km, 659 Km)
     B05: Capo Testa
 07. ven 11: Tergu - Capo Caccia (146 km, 805 Km)
     B06: Platamona
     B07: Stintino Pelosa
     B08: Capo Caccia
 08. sab 12: Capo Caccia - Tentizzos (77 km, 882 Km)
     B09: Capo Caccia
     F01:  Capo Caccia
 09. dom 13: Tentizzos - Tharros (126 km, 1008 Km)
     B10: Tentizzos
     B11: Tharros
 10. lun 14: Tharros - Cagliari (148 km, 1156 Km; Sardegna: 612)
     B12: Tharros
 11. mar 15: Trapani - Selinunte (137 km, 1293 Km)
     B13: Granitola
 12. mer 16: Selinunte - Caltabellotta (83 km, 1376 Km)
     B14: Selinunte
     M03: Caltabellotta
 13. gio 17: Caltabellotta - Marina di Palma (144 km, 1520 Km)
 14. ven 18: Marina di Palma - Caltagirone (142 km, 1662 Km)
     B15: Marina di Palma
     B16: Castello di Falconara
 15. sab 19: Caltagirone - Torre del Filosofo (121 km, 1783 Km)
 16. dom 20: Torre del Filosofo - Castelmola (82 km, 1865 Km)
     M04: Etna
     B17: Alcantara
 17. lun 21: Castelmola - Antennammare (73 km, 1938 Km)
     M05: Monte Venere
     B18: Isola Bella
     M06: Antennammare
 18. mar 22: Antennammare - Aspromonte (90 km, 27+63, 2028 Km; Sicilia: 809)
     B19: Scilla
 19. mer 23: Aspromonte - Marina di Grotteria (87 km, 2115 Km)
     M07: Montalto
     B20: Bovalino
 20. gio 24: Marina di Grotteria - Serra San Bruno (105 km, 2220 Km)
     B21: Marina di Grotteria
     M08: Pecoraro
 21. ven 25: Serra San Bruno - Bivio Spineto (141 km, 2361 Km)
     B22: Soverato
 22. sab 26: Bivio Spineto - Monte Tasso (87 km, 2448 Km)
     B23: Lago Ampollino
     M09: Botte Donato
 23. dom 27: Monte Tasso - Madonna delle Armi (152 km, 2600 Km)
     B24: Marina di Sibari
 24. lun 28: Madonna delle Armi - Terranova del Pollino (56 km, 2656 Km)
     M10: Sellaro
     M11: Serra delle Ciavole
 25. mar 29: Terranova del Pollino - Martina Franca (179 km, 2835 Km)
     B25: Marina di Scanzano
 26. mer 30: Martina Franca - Brindisi (80 km, 2915 Km; Italia: 950)
 27. ven 01: Cesme - Efeso (161 km, 3076 Km)
     B26: Cesme
     B27: Güneslikent Sitesi
 28. sab 02: Efeso - Nissa (114 km, 3190 Km)
 29. dom 03: Nissa - Pamukkale (114 km, 3304 Km)
     B28: Pamukkale
 30. lun 04: Pamukkale - Denizli (32 km, 3336 Km)
     B29: Pamukkale
     B30: Hierapolis
 31. mar 05: Nevsehir - Cavusin (41 km, 3377 Km)
 32. mer 06: Cavusin - Ortahisar (53 km, 3430 Km)
     F02: Cavusin
 33. gio 07: Ortahisar - Göreme (78 km, 3508 Km)
     F03: Ortahisar
 34. ven 08: Denizli - Karamanli (125 km, 3633 Km)
     B31: Salda Gölü
 35. sab 09: Karamanli - Termessos (116 km, 3749 Km)
 36. dom 10: Termessos - Chimera (123 km, 3872 Km)
     M12: Monte Termessos
     F04: Termessos
     B32: Phaselis
 37. lun 11: Chimera - Finike (73 km, 3945 Km)
     B33: Cirali
     B34: Gökliman Koyu
 38. mar 12: Finike - Ucagiz (61 km, 4006 Km)
     B35: Gökliman Koyu
 39. mer 13: Ucagiz - Apollonia (21 km, 4027 Km)
     B36: Kaleköy
 40. gio 14: Apollonia - Cukurbag (78 km, 4105 Km)
     F05: fra Kasaba e Cesme
 41. ven 15: Cukurbag - Cukurbag (26 km, 4131 Km)
     M13: Akdag
 42. sab 16: Cukurbag - Erendag (52 km, 4183 Km)
     M14: Erendag
 43. dom 17: Erendag - Dereköy (42 km, 4225 Km)
     M15: Yumru Dag
 44. lun 18: Dereköy - Mandryko (99 km, 45+54, 4324 Km; Turchia: 1355)
     B37: Rodi
     B38: Kamiros
     F06: Kamiros
 45. mar 19: Mandryko - Siana (89 km, 4413 Km)
     B39: Kamiros Skala
     M16: Ataviros
 46. mer 20: Siana - Rodos (161 km, 4574 Km; Rodi: 304)
     B40: Prassonissi
     B41: Lindos
 47. gio 21: Sitia - Toplou (27 km, 4601 Km)
     B42: Sitia
 48. ven 22: Toplou - Xerokambos (74 km, 4675 Km)
     B43: Daskalio Bay
     B44: Karoumes Bay
     B45: Xerokambos
 49. sab 23: Xerokambos - Myrtos (92 km, 4767 Km)
     B46: Kavalli
 50. dom 24: Myrtos - Agias Marinas (137 km, 4904 Km)
 51. lun 25: Agias Marinas - Kourtaliotiko (89 km, 4993 Km)
     M17: Agathias
     M18: Timios Stavros
 52. mar 26: Kourtaliotiko - Lefka Ori (87 km, 5080 Km)
     F07: Frangokastello
     B47: Sfakion
 53. mer 27: Lefka Ori - Souda (105 km, 5185 Km; Creta: 611)
     M19: Troharis
     M20: Pachnes
     F08: Anopoli
 54. gio 28: Pireo - Paralia Platanos (165 km, 5350 Km)
     B48: Kineta
     B49: Kiaton
 55. ven 29: Paralia Platanos - Patrasso (160 km, 5510 Km)
     M21: Helmos
 56. dom 31: Venezia - Marter (193 km, 5703 Km; Epilogo: 518)