Alto Adige, Friuli e Cadore

Esplorazione cicloalpinistica nelle Alpi Orientali - estate 2004

di Alberto Pedrotti, albertopedrotti (at) gmail.com

Alto Adige (24 luglio - 3 agosto)

Friuli (16-24 agosto)

Cadore (3-8 settembre)

[In corsivo passi e altri arrivi in salita; in colore gli inserti escursionistici; in grassetto le cime]

Sintesi        gg      km    metri     passi   cime

Alto Adige     11     832    31200        18     11
Friuli          9     803    25900        17     12
Cadore          6     385    15200         9      7 
Totale         26    2020    72300        44     30 

Postilla a «Cadore» (10-12 settembre)

Un mattino imprecisato dell'estate 2004 carico la bici e decido di partire per quella che dovrebbe essere l'avventura di una vita, la Marter-Marrakech che ho in mente ormai da tempo. Una mezza borsa è affastellata di carte geografiche: Alpi, Provenza, Pirenei, e poi Spagna, tanta Spagna, e per finire Portogallo e Marocco... In fondo alla mia strada incontro la Fiat delle Poste: «Ciao Alberto, mi riconosci?» «Aspetta un attimo, sí cosa diavolo combini?» Capperi, è la Danila Agostini di Caldonazzo, fu la guida turistica del mio primo grande viaggio, la Sicilia in pullman quando avevo sedici anni. Ora avendo messo su famiglia ha deciso appunto di entrare nelle poste, e questa settimana è supplente qui da noi. «Dove vai cosí conciato?» «Ho deciso stamattina alle otto di partire per Marrakech, ormai io faccio cosí... riconosci la scuola? diciamo che, come mia prima maestra di viaggio, hai seminato bene» A Caldonazzo, però, mi vengono i classici dubbi se ho chiuso bene il gas e se ho tutti i documenti. Frugo fra gli incartamenti, e il passaporto non c'è. Dietrofront. Scoperta che il passaporto è scaduto. La Marter-Marrakech è dunque finita in riva al lago di Caldonazzo.

Qualche giorno dopo sono ancora in attesa che mi piova addosso qualche idea, ed ecco che mi telefonano due aitanti giovani, Giacomo Voltolini e Marco Giovinazzo, i quali partono domani stesso a caccia di passi alpini, cominciando dal Manghen. Riconosco la scuola... anch'io a mia volta ho seminato bene, e ora raccolgo i frutti, sotto forma nientepopodimeno che dell'idea che cercavo. Tuttavia la vanità del maestro in pectore esige il suo tributo, e cosí d'imperio aggiungo: «Però lasciamo stare il Manghen. Domattina si prende il treno per Vipiteno, portatevi anche gli scarponi, e per il resto fidatevi di me». La mia mente, orfana di Marrakech, si sta ormai raffigurando un nuovo progetto; sarà questo l'argomento di quanto segue.

Alto Adige

01. Vipiteno - Passo della Mendola (96 km, 2500 m)

La ferrovia del Brennero ci scodella a Vipiteno, sotto un tempo piovigginoso. Due würstel al chiosco, e poi via verso la salita di Passo Pennes. La parte alta, caratterizzata da uno scabro pendio dominato dall'ingombrante sagoma del rifugio, ha tutto il respiro della grande salita alpina, modello Gavia oppure Alpi Francesi. Abituato a viaggiare da solo, in cima capisco cosa significhi partire in compagnia: dopo 1h40 di salita, deve attendere per 1h20 i compagni che non capisco bene dove si siano imboscati: forse a ripararsi dalla pioggia ormai battente. Per ammazzare il tempo salgo sotto l'acqua alla vicina cimetta del Ganskragen. Quando la comitiva si ricompone, il gestore ci solleva alquanto l'umore con un acconcio monticello di pastasciutta. Note ben piú dolenti ci attendono fuori: una discesa quasi surreale per la Val Sarentina, 60 km fino a Bolzano sotto la pioggia insistente. Triste ed uggiosa anche la successiva salita al Passo della Mendola, dove i miei compagni professionalmente piantano una tenda, mentre io che ormai non mi vergogno di nulla mi accontento di srotolare il sacco a pelo sulla soglia di un negozio di calzature.

02. Passo della Mendola - Lago di Fontana Bianca (63 km, 2300 m)

Graditissimo il sole che troviamo al risveglio; con la biancheria stesa sulla bici, scendiamo a Fondo e, al ponte sulla Novella, attacciamo nell'afa i ripidi strappi della Forcella di Brez. Duecento metri oltre il valico, si stacca sulla destra una forestale che percorre in ideale mezzacosta tutto il versante orientale della Valle di Proves. Come ben visibile sulla carta Tabacco, foglio 042, si segue il segnavia 28 toccando una quota massima di 1650 metri; dal bivio per Malga Lauregno, denominato Vollgatter, si scende ripidamente al fondovalle donde, con brusca risalita, si guadagna la nuova strada che congiunge quest'isola tedesca piantata nella Val di Non con la «madrepatria» altoatesina. All'ingresso del tunnel sommitale conviene lasciare la bici per una puntatina ai bei prati di Malga Castrin, posti proprio sopra. La discesa è senza storia, anche paesaggisticamente; unico motivo di interesse la scoperta, per me, di avere un raggio spezzato. La successiva risalita della Val d'Ultimo propone un acuto proprio nel finale allorché, dall'ultimo ameno ripiano sopra Santa Gertrude, la strada opera uno spettacolare decollo con pendenze mozzafiato. Arrivo tutto solo a Fontana Bianca mentre i miei compagni indulgono in mollezze quali un bagno nel Lago di Zoccolo; nell'attesa completo la passeggiata ad anello che porta al Fischersee e alla Fiechtalm, con bella vista su tutte le cime del circondario. Riunitasi la comitiva, piantiamo le tende poco distante dal lago: lí rimarranno per tre notti.

03. Traversata Gioveretto - Orecchia di Lepre (2600 m)

Partiamo alle sette in direzione del Rif. Canziani dove ci appare la nostra meta, il Gioveretto, la quale espone un pendio di neve il cui superamento senza attrezzatura appare per nulla scontato. Fortunatamente, giunti sul luogo, scopriamo che le adiacenti roccette propiziano la progressione. Pochi metri sulla Vedretta del Gioveretto danno accesso all'edificio sommitale; alle 10.15 sono in cima e attendo fiducioso i colleghi. In questa mezz'ora di panoramica attesa prende corpo l'idea della giornata: compiere la traversata per creste all'Orecchia di Lepre, 7.5 km in linea d'aria! Detto fatto: le uniche difficoltà sono date dal passaggio all'anticima 3380, dove alcuni tratti in neve sono al limite per le nostre possibilità di alpinisti privi di attrezzatura. Nel seguito, ci abbassiamo di rilievo in rilievo; alcune paretine all'apparenza ostili si rivelano poi percorribili. Un'esile crestina friabile ci regala un momento di apprensione allorché un immenso blocco se ne stacca con grande fragore poco prima del nostro passaggio. Nel seguito, per comodi pendii scendiamo alla Soi-Scharte dove Giacomo in considerazione dell'ora rinuncia: in effetti, sono le 15.30 e in linea d'aria siamo a un terzo della traversata. Mentre il compagno si incammina giú per il sentiero 142, Marco ed io ci incamminiamo con rinnovato vigore su per le creste ormai facili. Il paesaggio è molto scabro, ma non mancano le sorprese, come il bell'occhio azzurro di un laghetto al margine del nevaio che porta al Flimjoch. Abbiamo la cattiva idea di aggirare la Piccola Orecchia di Lepre a sud, seguendo uno strano sistema di trincee naturali, profonde pochi metri. Girata la cresta, tuttavia, ci attende un antipatico mezzacosta su terreno ripido e friabile. Quasi di corsa ci fiondiamo verso la grande croce alla sommità dell'Orecchia di Lepre, che raggiungiamo alle 18.30. Discesa a rotta di collo alla forcella 3010 e, di lí, per l'itinerario scialpinistico, alla Obere Flaschbergalm, m. 2110, dove comincia il lungo traverso per sentiero che ci riporterà alla base. Viviamo dei momenti bellissimi nelle ultime luci della sera, passando per malghe quali la Tufer Alm e la Hintere Pilsbergalm ci affidiamo alla luce della pila, che ci trae d'impaccio in diversi passaggi viscidi e pietrosi. Alle 22.30 usciamo sui prati di Fontana Bianca; prima la fontanella per lavarsi i denti, indi la tenda.

Credo che entrambi ricorderemo questa giornata, come giorno sia di una traversata che, ancor piú, di una scoperta. Per me, infatti, è una importante scoperta quella di un compagno capace di camminare 15 ore ininterrotte su un percorso completamente «senza gloria», sotto il solo impulso della passione e della dedizione. Marco mi è stato presentato da Giacomo solo a Pasquetta, in una memorabile gita sul Cimon del Lasteolo; abbiamo concluso assieme la stagione scialpinistica con una ancor piú memorabile gita al Palon della Mare. Ed oggi eccoci ancora qui. In futuro dalle cime di casa nostra ci capiterà spesso di dire: ecco lí il Gioveretto... ed ecco lí, non proprio appiccicata, l'Orecchia - e ancora una volta degusteremo con gli occhi, lí in mezzo, tutto il bel pezzo di cresta che oggi abbiamo cavalcato.

04. Collecchio e Cima Rossa di Saent (2700 m)

L'indomani, i miei amici rientrano causa impegni. Anch'io avrei due buoni pretesti per scendere: una soprano che ho accompagnato per un certo tempo al pianoforte canta in un Gianni Schicchi a Vipiteno; e poi ci sarebbe il raggio rotto da riparare. La giornata radiosa che troviamo fuori dalla tenda, tuttavia, mi distoglie dall'usare qualsivoglia pretesto. L'ora, a dire il vero, è scandalosa: abbiamo dormito sulle fatiche di ieri fin le 10 ma, salutati gli amici, mi addentro per la lunga e amena valle che, di laghetto in laghetto, porta sul Collecchio, pilastro d'angolo fra la Val d'Ultimo, la Valle di Rabbi e la zona del Lago Corvo. Nel mezzo del vasto panorama, una cima mi attira in particolare: quella che scoprirò in seguito (la cartina che ho con me non copre la zona) essere la Cima Rossa di Saent, al margine della Vedretta del Careser. Decido di puntarla, scendendo nella testata della Valle di Rabbi, valle che per me, assiduo frequentatore della vicina Val di Peio, costituisce per contrasto una sorta di «hic sunt leones». Piccolo dettaglio tecnico: la carta Tabacco, dalla forcella quotata 2825 metri sotto il Collecchio, propone un traverso in cresta verso il Giogo Nero, al quale punta anche una traccia segnata dal Lago Nero. Il Giogo Nero è invece molto scomodo, e il sentiero segnato dalla detta forcella perde subito quota. Passato di slancio il Rifugio Dorigoni, arrivo al punto di dover prendere una decisione: salire per il Passo di Saent e la susseguente cresta, oppure puntare diritto alla cima per il suo fianco occidentale? Siccome il pendio sotto il passo appare sempre piú ripido via via che mi avvicino, opto per la seconda ipotesi, che si rivela fortunata. Seguo nella parte bassa il sentiero 104, dal quale mi stacco in corrispondenza di un bel laghetto proglaciale; di qui una morena mi permette di guadagnare velocemente quota; poche e facili roccette danno accesso alla piramide sommitale.

Sono le 15.30, la visibilitè è quella meravigliosa di un pomeriggio quasi autunnale; sotto di me, la Vedretta del Careser ormai ridotta a mal partito e tutta erosa da rivoli di fusione; verso ovest, la maestà della triade Cevedale - Palone - Vioz, dietro i quali fa capolino pure il San Matteo. Le montagne di casa sembrano a due passi: distinguo chiaramente non solo il Gronlait e il Fravort, ma anche la Panarotta e perfino il crinale di Cima d'Orno. La quantità di massi instabili che dovrei attraversare per salire la vicina Cima Martello, di pochi metri piú alta, mi sembra poco invitante, ragion per cui mi accingo alla discesa per la cresta che, traversata la bonaria Cima Mezzena, mi porta al grosso palo che segnala il congiungimento con il sentiero 104. Guadagnato il fondovalle, trovo tutte le condizioni propizie per un bel bagno nel torrente Rabbies; alle 19 sono al Dorigoni. Il gestore, alle prese con una schiamazzante comitiva, mi informa di non avere posto per me, ma non mi nega una bella piramide di pasta al ragú, che mi permette di ripartire con rinnovata energia verso il Collecchio. Per scrupolo risalgo alla cima, dalla quale percorro un pezzo di cresta verso il Giogo di Montechiesa; quando anche l'ultimo sole scompare, scendo al fondovalle e sono alla base alle 22.15.

05. Fontana Bianca - Lazinser Alm (125 km, 2900 m)

Disfatta la tenda e caricata la bici, mi incammino giú per la valle. A Pracupola nascondo i bagagli in un bosco onde salire scarico al Lago di Quaira: strada asfaltata fino alla Kuppelwieser Alm, 1975 metri, sotto la diga, dove in corrispondenza di una stanga comincia lo sterrato che, dopo tre tornanti in una valle laterale, ritorna con tracciato scavato nella roccia al vallone principale ormai in prossimità della diga. Questa è transitabile, con grande effetto panoramico; la luce è cosí netta che tutto il paesaggio sembra passato in un filtro di quelli che aumentano la definizione. Direbbe Heine che sembra di vedere in cielo il buon Dio con seduti ai suoi piedi gli angeli che studiano la pratica del basso continuo. Scendendo, in località Waldschenke m. 1520, dove si trova un albergo dall'intrigante nome Frauenparadies, ossia paradiso delle donne, (studieranno anche loro il basso continuo?), salgo una ripida china che porta al panoramico dosso dove sorge la chiesa di San Maurizio, m. 1635. Splendida la discesa al fondovalle, in realtà un lungo traverso per prati terrazzati e fra balconi geraniati, fino al paese di San Nicolò. Di nuovo a Pracupola, salgo qualche metro a recuperare il bagaglio, prima di infrattarmi giú verso l'afa di Merano. Fatto riparare il raggio, dirigo verso la Val Passiria; sono le 16 e invero non ho idee su come concludere la giornata. Il Rombo è troppo, Moso è troppo poco. Alle porte di San Martino in Passiria, dove sarei stato caldamente consigliato di fermarmi a mangiare da un tale Königsreiner (è bello seguire i consigli dei locali, ci si sente piú in sintonia con il territorio, ma non sempre in un viaggio si riescono a far tornare tutti i tasselli...), arriva l'idea risolutrice: dovrebbe esserci, da queste parti, la Valle di Plan, quella dell'Altissima. Un controllo alla carta, la quale conferma, ed eccomi ben presto scendere, da Moso e dalla strada del Rombo, al ponte sul torrente dove comincia l'ultima salita: gradevole fino al tornante di Plata, poi irta di rampe piuttosto impegnative. Dopo una breve contropendenza, inizia il rilassato tratto finale che porta al paese di Plan; lo scavalco proseguendo per sterrata fino alla testata della valle, dove una luce isolata segnala la presenza della Lazinser Alm. Mentre la luna sbuca dal vallone che scende dalla giogaia di Tessa, mi accampo in uno slargo fra cataste di legna.

06. Altissima e Tschigot (2700 m)

Alle 8.20 saluto i conigli che razzolano dietro la Lazinser Alm e comincio a salire per i tornanti della militare che porta al Passo del Lago Gelato, e che scopro essere una Mecca delle mountain-bikes. Fatico a capire quale sia l'emozione provata nel sobbalzare sulle aguzze traversine di pietra di cui il percorso è disseminato, ma senza pormi troppe domande mi faccio da parte al passaggio di questi invasati e salgo al ripiano sotto il passo, occupato da vasti campi di neve. Poco dopo la prima corsa della teleferica, eccomi al rifugio Petrarca, un posto splendido del quale però mi sfugge il nesso con il poeta per il quale sono passati esattamente 700 anni e 9 giorni «da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno». Diciamo pure che vaut mieux la classica denominazione di Stettiner Hütte; socio del Club alpino che edificò la capanna era anche il signor Hans Grützmacher che sulla nera parete retrostante, a dispetto dell'aria apparentemente proibitiva, riuscí a individuare un tracciato che irride ogni difficoltà. Vi è sempre un po' di esposizione, è vero, tuttavia in compenso i pericoli oggettivi non sembrano eccessivi, anche in vistoso regime di disgelo. Una successione di colatoi porta nei pressi di una strapiombante cornice presso la quale si mette piedi per qualche metro sul Langtaler Ferner, che di qui defluisce verso l'Austria; per roccette si raggiunge la vetta.

L'Altissima è un vero pilastro d'angolo della cresta di confine. La sua elevazione sembra quasi irridere quella sconvolta successione di creste e di valli che le si para davanti, e che va sotto il nome di Trentino - Alto Adige. È uno di quei punti dai quali si può guardare a tutto quell'affannoso streben della Creazione come si guarda il mare tempesta da un tranquillo molo sopraelevato. Forse sulla vetta del Finsteraarhorn, guardando verso oriente, avevo avvertito nella stessa misura questa sensazione, ma qui il risultato è ottenuto con maggiore economia di mezzi, senza un tale schiacciante predominio di quota. Questa sí che potrebbe chiamarsi Cima Petrarca... qui sí che il salitore del Ventoux, molto meglio che sul Monginevro, potrebbe prorompere in un accorato «Salve, cara Deo tellus sanctissima.» Da questo remoto nido d'aquila, infatti, forte della quota e della latitudine, la vista trascina seco, nel suo largo spaziare, anche l'immaginazione, la quale già si raffigura quel mare in tempesta acquietarsi nella Pianura Padana, per risorgere piú mite e piú docile al di là; qui su questa cima, circondato da tedeschi ed austriaci che mangiano papaya e carote, ho la sensazione di indovinare, ordinatamente disposto attorno alla propria lunga ossatura, tutto «il bel paese / ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe».

La sosta è lunga, l'analisi avida. Quanto tempo dovrà passare prima di rivedere un panorama simile? Una punta d'orgoglio è dovuta al fatto che la montagna di gran lunga piú innevata dell'intero circondario è la nostra Cimadasta, ben visibile dietro il Corno Bianco di Fiemme. Questo a testimonianza del fatto che l'inverno appena passato ha scaricato generosamente soprattutto sulle Prealpi. In primo piano, invece, impressionano le stratificazioni e striature di roccia chiara sul severo e ben costruito versante in ombra della Cima Bianca Grande. Dietro la schiena, invece, campeggia per contrasto l'esile e sconnesso gendarme di roccia marcia dell'anticima settentrionale. Verso nord est impressiona la muraglia che scende dal Gurglekamm, fino alla Cima delle Anime la cui croce metallica spicca col suo riflesso al sole.

Al rifugio trovo un piatto di patate, uova e speck acconcio al fabbisogno calorico. Cosí ristorato, concepisco l'idea di una traversata che mi riporti alla bici passando per il cuore della Giogaia di Tessa. Calcolo sei ore di cammino solo per la porzione di percorso che vedo sulla carta appesa al muro; ma il tracciato deborda in parte da essa. Mi serve al tavolo una ragazza di Schio, venuta a lavorare quassú tre settimane con il marito; mi racconta di come loro, in cucina, siano considerati, e non non sempre in serena fraternità, «die Italiener». Saluto con quel calore umano benedicente che si sprigiona dalla pancia subitaneamente transíta dalla luce rossa della riserva a un quanto meno decoroso stato di benessere; traversato il vicino passo scendo per pietraie alla Vedretta di Fosse. Siamo alla testata dell'omonima valle, la cui conoscenza si limita per me a Casere di Fuori, base per l'avventurosa salita in sci al Similaun. Avrei però in serbo degli ulteriori progetti ciclistici, in quanto la strada arriva fino ai 2070 metri di Maso Gelato, da dove numerose soluzioni - non da ultimo la stessa Altissima - sono agevolmente praticabili. Nel ripido pendio verso la Forcella di San Giovanni supero una comitiva di tedeschi tartassati da pesantissimi zaini; vedo in loro l'immagine del mio fosco passato di alpinista coscienzioso e, per nulla rimpiangendo quei tempi «quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono» (il rifugio Petrarca è pur sempre dietro l'angolo...) li supero con agile sollievo. Spettacolare la discesa per le ripide roccette (qualche cavo) del couloir che scende verso quel meraviglioso catino rinchiuso tra le cime di Tessa, nel quale sorge il Rifugio Cima Fiammante. Probabilmente se fossimo in Himalaya questo luogo sarebbe chiamato «santuario», ma da noi abbiamo un'attitudine piú laica. Supero una segnalazione che sconsiglia l'ascesa al Monterosso, cima principe del gruppo, causa sentiero franato. Sosto un attimo sul terrazzo in legno del rifugio, che espone una parata di bandiere variopinte, ma ben presto mi devo staccare, forzato del «Wandern», dai forzati dell'abbronzatura, per intraprendere l'ultima salita della giornata, il lungo traverso che mi porterà allo Hälsljoch dove mi attende ancora una lunga discesa alla bici. Alto sopra il ripiano della Kuhalm, dietro la quale la montagna precipita misteriosamente verso il fondovalle della Venosta, il sentiero incrocia delle cascatelle ideali per una doccia, la seconda del tour. Le susseguenti operazioni di lucertolatura al sole vengono bruscamente interrotte all'inatteso sopraggiungere di alcuni viandanti attardatisi a godere della tagliente luce pomeridiana; superati i laghetti di Tablà ancora lambiti dal nevato, raggiungo la forcella. Qui ancora una volta debbo scegliere. A sinistra, la facile cima Rosa, un tremila di ovvio accesso, sormontato da una croce luccicante; a destra, il piú laborioso Tschigot, oasi di granito chiaro protesa sopra la piana di Merano, che per pochissimo manca la fatidica quota. Per la sua eccentricità, scelgo quest'ultima meta, scoprendo che sono necessari non meno di quaranta minuti di laboriose salite, traversi e discese su placche per coprire il misero dislivello dalla forcella alla cima. Alle 18 sono in vetta, a godermi la totale solitudine, paradossalmente acuita, non già mitigata, dai belati che salgono distintamente dagli alpeggi, e financo dal rumore di fondo proveniente nientemeno che dalla vallata, 2700 metri piú sotto. «Distinct, but distant - clear - but, oh how cold» direbbe Byron.

Ripenso all'interrogativo del mattino: quanto tempo prima di rivedere un panorama pari a quello dell'Altissima? La risposta sta qui: solo poche ore. Mi rendo infatti conto che lo Tschigot dispensa in sostanza il medesimo menú dell'Altissima, porgendolo però in un'ambientazione piú familiare, data dal sentiersi immersi nel tutto anziché sospesi un una trionfale ma asettica posizione dominante. È come vedere la stessa opera dalla platea di un accogliente teatrino di provincia anziché dalle gradinate di un grande auditorium. Come bonus, anche il totale controllo sul largo nastro pianeggiante della val Venosta, poggiata di traverso con una prospettiva accorciata da Cristo morto, tanto da far sembrare illusoriamente vicina e presente la cortina dei Lagorai, che chiude inappellabilmente l'orizzonte. D'altronde, basta sfogliare il libro di vetta per capire quanto questa cimetta sia frequentata ed amata: soprattutto dai locali, ovviamente, ma non solo da loro.

Alla forcella spunta ancora una famigliola di tedeschi attardati, provenienti dal vicino bivacco Lammer; è una giornata infinita, questa, per me, ma evidentemente non solo per me... Lascio a loro l'incarico di decifrare i chiari lamenti di un animale abbarbicato su un pendio della cima Rosa, animale che però la mia vista tutt'altro che da lince non riesce ad individuare. Sciando allegramente sulla neve dura, arrivo a un lungo altopiano prativo che mi porta all'ultima calata sulla Valle di Plan. Alla malga posta al limitare del grande ripiano trovo due solitari che, con le loro facce seminascoste dietro fluenti ondulazioni di capelli grigi, mi consigliano di traversare alle comode serpentine del Rifugio Petrarca. Sono le 21.20 quando, a conclusione di questa nuova memorabile giornata fra i monti, arrivo alla tenda sulla soglia delle 13 ore di cammino. Con l'aiuto della luna, sposto l'accampamento nei pressi della teleferica, posizione piú adatta a recepire il gradito buongiorno e soprattutto il tepore asciugante del primo sole.

07. Lazinser Alm - Càlice (100 km, 3000 m)

Quando ci si affeziona oltre modo a un luogo tutte le scuse sono buone per non ripartire. Basta cominciare a dire: cosí non si può andare avanti; bisogna fare ordine. E, fatto l'ordine, constatare: cosí non va, tutto da rifare. Oppure rivoluzionare e razionalizzare radicalmente il bagaglio; sperimentare nuove collocazioni dello zaino e del materassino, e cosí via. Con questo spirito indugio sul pratone dell'accampamento fin quasi a mezzogiorno. Da Plan, poi, per scendere a Moso scelgo una ripidissima stradina sul versante nord della valle, ben visibile dalla salita per Plata; si consigliano caldamente freni in buono stato. Poco fuori Moso imbosco il bagaglio fra il fogliame e prendo a salire per la strada del Rombo. L'anno scorso passai di qui tornando da Praga e dallo Harz, e mi ripromisi di tornare al piú presto, per salire dal versante italiano, piú concentrato e spettacolare dell'interminabile salita di oltre 60 km lungo l'Ötztal. Ecco, una buona volta, una promessa mantenuta, addirittura entro un anno di distanza!

Il tracciato sul versante nostrano è da manuale. Cinque ampie zeta che si dispiegano largamente sull'aperto costone che decolla subito sopra Belprato-Schönau. Si scopre poi che una di queste cinque - invisibile all'inizio in quanto infrattata dietro un costone - è in realtà formata da altre cinque poste in stretta sequenza: quasi l'accenno di un frattale. Ma il vero coup de theatre si ha allorquando la strada, al sommo del costone, scompare entro una serie di gallerie e, come se dovesse seminare un qualche importuno inseguitore, cambia totalmente gioco per addentrarsi verso il valico. Trattandosi di un'attraversata turistica di prim'ordine, e per giunta a pedaggio (quel che si paga, si sa, è sempre piú bello), la strada del Rombo è anche un osservatorio privilegiato su tutta una varietà di tipi umani. Gli sciami di moto tedesche che passano come un'incursione di cacciabombardieri, e ci vuole sempre un bel po' prima che il velo del silenzio si richiuda sopra il loro fragore. Il vecchio porco da decapotabile che con il capello grigio sciolto al vento guida e insieme pontifica, una mano gesticolante nei dintorni del volante e l'altra fissa sulla coscia di una qualche bellezza bionda trincerata dietro occhialoni scuri quasi da fiamma ossidrica. All'altro estremo dello spettro umano, il ciclista - tipicamente germanico oppure olandese - che sale trafelato, il casco ben allacciato per cuocersi meglio le cervella, una scia di sudore lasciata sulla strada per meglio indicare la strada alla masnada di marmocchi al seguito. Uno di questi si sfila dalla combriccola per sprintarmi dietro prima di accasciarsi incolore su un prato - maledetta la voglia di gareggiare, che si insinua cosí presto, ma pur benedetta l'età che concede di improvvisare queste fresconate senza che saltino le coronarie come succederebbe a noialtri!

Raggiungo le gallerie e la piazzola che mi diede ricetto 360 giorni addietro; al passo poi il vento decisamente freddo mi consiglia una pronta ritirata. Recuperato il bagaglio, calo a San Leonardo sul cui ponte di legno mi imbandisco una merenda prima di ripartire per i 20 km di salita del Passo di Monte Giovo. Dopo il primo tratto di noia nel bosco, ecco il bel mezzacosta fra i prati di Veltina. Qui la cura del verde è spinta all'estremo. Il filo del telefono che corre lungo la strada, ad esempio, è curiosamente corazzato dello sterco sparato dalle macchine spargiletame. Chissà che non funga anche da valido isolante per il segnale; la cosa sarebbe da studiare. Oppure a un certo punto mi sento sopra la testa uno strano fruscio metallico che certo non è un battito d'ali: si tratta in effetti di un carrello pieno di fieno richiamato in teleferica verso l'alto, dove stanno la casa madre e la stalla.

Un gentiluomo si offre di issare il mio carico sul suo trattore. Suvvia, però, anche noi viandanti abbiamo una nostra etica professionale. Nell'epoca del falso in bilancio, gente come me invece che approfittarsene reagisce appigliandosi alle poche certezze che ci rimangono, e la gravità, col suo roccioso e ineluttabile inverso del quadrato, è una di queste. Ogni joule di energia frodato alla sfida contro la sacra forza che sprigiona da Nostra Madre Terra potrebbe tradursi in un macigno in piú sulle ignote e perigliose rampe del Purgatorio.

Verso le 19.30 trovo un bel ruscelletto nel quale fare il bagno. Piú in alto, su aperti prati protetti da paravalanghe, si snodano gli ultimi tornanti del valico. Sopra di me, invitante nell'ultima luce del sole, la Punta di Monte Giovo, che però la logistica mi consiglia di sacrificare al progetto sorto nel frattempo: si tratterebbe di risalire, l'indomani, la Val di Vizze con lo scopo di scalare il Gran Pilastro. Mi accampo sotto il paesino di Càlice, quasi artificioso nella perfezione dei suoi balconi fioriti. Dopo una cena resa lungagginosa dall'agonia della bombola, mi adagio nella tenda; domani dovrò ritrovare il decoro nell'ora della sveglia.

08. Càlice - Passo Vizze (41 km, 3250 m)

La val di Vizze ha un attacco piuttosto anonimo, prima di una forte rampa che porta al lungo ripiano mediano, sui 1300 metri di quota. Appaiono in fondo le sagome possenti dello Schrammacher e di Cima Grava, con la severa e un poco misteriosa parete nord. La mattinata è di quelle sfolgoranti che mettono un sorriso sulle labbra a chiunque si affatichi sulla strada o nei campi. Mi fermo a un alberghetto dove due ciclisti provenienti dall'Austria stanno facendo colazione. Partiti da Mayrhofen, la prima cittadina che si incontra sull'altro versante, sono diretti verso lo Stelvio, il Bernina e il lago di Como. Li interrogo perché una delle possibilità, per me, sarebbe quella di sconfinare in Austria e di lí proseguire verso Vienna, cosí da trasformare la gita di serrati su e giu in una tranquilla passeggiata sulle lunghe distanze. Vengo rassicurato che basterebbe un breve tratto a spinta per scendere di là.

Dopo il paese di Sasso, l'ultimo in fondo alla spianata, la militare di Passo Vizze diventa sterrata; sono le 11.10 quando lascio la bici parcheggiata al tornante dal quale si stacca il sentiero per il rifugio del Gran Pilastro. L'inizio è simile a come mi aspetterei un trekking equatoriale, la traccia del sentiero scavata entro una vegetazione che arriva fino alle spalle. Segue un lungo traverso sul versante meridionale della montagna, con alcuni tratti esposti, alti sopra il sottostante ghiacciaio. In fondo alla valle campeggia l'elegante mole dell'Hoher Weisszint, che ho conosciuto per la prima volta a Pasqua, salendo con gli sci al Möseler. È una di quelle sagome che diventano inconfondibili già al primo incontro. Sul terrazzo del rifugio tiro fuori pane e salame, ma una comitiva di alpinisti lombardi mi spaventa con l'ipotesi che, facendo tardi, la neve della crestina sommitale possa rigelare. Mi catapulto verso l'alto: un tratto ripido attrezzato, e poi una lungo tratto obliquo che presenta un'orginale dualità crestina-cengia, e sale verso l'elegante cono nevoso della cima. In tedesco Hoch-feiler (Alta Lima) improvvidamente tradotto come se fosse Hoch-pfeiler: Alto Pilastro, appunto. Da noi in Val dei Mocheni hanno fatto di meglio traducendo Kaser-wiesen (Prati delle casère, delle baite) come Kaiser-wiesen: Prati Imperiali. In cima, ore 14.25, trovo un solitario che senza alcun patema si sta crogiolando al sole e beando della forte inversione termica - altro che rigelo.

In montagna gli incontri che si fanno quando si è fuori tempo massimo sono spesso e volentieri di prim'ordine; è con tale consapevolezza che mi accingo all'esplorazione del solitario indugiatore di vetta. A dire il vero, è però l'uomo che mi interpella per primo in un dialetto tedesco per me quasi incomprensibile. Fortunatamente, salta fuori che l'uomo è di Bolzano, e la conversazione può proseguire in italiano. Il mio interlocutore si chiama Martin Meier, pensionato, in passato direttore di banca a Fié allo Sciliar. Uno che ha salito 60 volte il Similaun e che, ai tempi d'oro, saliva sul Catinaccio o sul Latemar dopo il lavoro. La tempra la riconosco anche dal piglio col quale affronta la discesa; dopo avermi prestato la piccozza per la crestina sommitale, mi conduce in cerca di nevai, per i quali riusciamo a scendere fin cento metri piú in basso del rifugio. Con personaggi simili c'è sempre da imparare: ecco allora che, mentre io mi porto in giro l'inutile peso delle ghette, lui mi insegna che è piú efficace ripiegare, semplicemente, il calzino sopra lo scarpone. Quando ci sdraiamo su un sasso a fare merenda, mi accorgo di non avere con me il coltello. Ho dimenticato il sacchetto degli accessori - frontale, creme, etc. - da qualche parte: in cima o, sperabilmente, al rifugio. Sospinto dall'ansia da cui si viene assaliti in questi casi, risalgo di corsa un centinaio di metri di dislivello fino a quest'ultimo, dove arrivo appena in tempo per fermare un gruppo di tedeschi i quali - con beneplacito del gestore - stavano insaccando tutta la mia roba, dimenticata nell'istante stesso in cui i lombardi mi avevano messo fretta addosso. Riesco a recuperare tutto, tranne il fido Opinel che, evidentemente, è già stato insaccato in precedenza; come diceva Perrault, v'è ben dei lupi in questo mondo ma, aggiungo io, v'è ben anche degli scemi, che partono come dei caccia solo perché altri scemi li mettono in apprensione. La chiacchierata con Martin, comunque, mi rimette subito di buon umore e, quando arriviamo al tornante, ricevo in offerta anche qualche grappolo della sua uva precoce.

Martin è un personaggio memorabile, ma di quelli che non lasciano indirizzi; forse è troppo saggio e troppo realista per questo tipo di ipocrisie. A suo modo ha ragione da vendere: se tutti fossero come lui, che bisogno ci sarebbe di indirizzo? gli incontri come quello odierno sarebbero semplicemente prassi quotidiana. Però si vede che nessuno dei due vuole staccarsi dall'altro, e passano ancora un po' di chiacchiere prima che le nostre strade si dividano: lui verso casa, io su per la salita di Passo Vizze. Sostanzialmente, questa consiste di un unico gigantesco tornante sotto l'incombente parete di Cima Grava, in mezzo a rocce montonate coperte da una bassa vegetazione pioniera. Probabilmente qui le valanghe batteranno assai forte. Qualche anno dopo l'amico Gino Odorizzi, il Martin di casa nostra, mi racconterà di aver dovuto qui chiamare uno spartineve per liberargli la macchina intrappolata a monte di una grande valanga scesa durante la giornata... Anche oggi, come già ieri, ricevo un'offerta di trasporto del bagaglio, che stavolta mi viene da un isolato motociclista. Ovviamente le considerazioni in proposito sono le stesse di ieri - se così non fosse vi sarebbe molto da eccepire sulla coerenza del sottoscritto - ragion per cui le risparmio al lettore.

Al valico, tra laghetti ed opere militari, si erge un cocuzzolo sormontato dal rifugio illuminato dove, fortunatamente, il servizio di self service non ha ancora chiuso. Prendo un'immensa porzione di lasagne della quale, con meraviglia del personale, faccio anche il bis. Fuori il tempo si sta marcatamente rannuvolando, e tira un vento gelido. Il rifugio è al completo a causa di una gita del CAI di Mirano; io mi sistemerò sulle panchine di fuori con il sacco a pelo. Converso con i veneti sui loro piani di salita allo Schrammacher, che Martin mi ha rivelato essere infido a causa della particolare configurazione dei crepacci. Appena si ritirano mi addormento.

09. Passo Vizze - Antermoia (125 km, 2650 m)

Cambio di guardia al mattino. Mentre i miranesi si dileguano, arriva a grandi falcate la SAT di Pressano. Chiedo notizie su di una mia conoscente che ultimamente si aggrega sovente a quel gruppo; manca però all'appello. Dopo un poco, mi trovo a essere l'unico che punta verso il basso. Durante la notte ho perfezionato l'idea di lasciar perdere lo sconfinamento in Austria. Martin mi ha dato troppe idee sull'Alto Adige per staccarmene. Scendo a Bressanone, dove mi trovo in piazza davanti alla cattedrale a staccare - orfano dell'Opinel vittima della foga di salire al Gran Pilastro - il salame a morsi. L'afa mi opprime e decido di affrettare la partenza per la cima della Plose, un balzo di 2000 metri che sulla carta dovrebbe essere senza alcuna interruzione. Attacco sotto il sole di mezzogiorno. A quota mille mi fermo ad asciugare la tenda ancora dall'umida notte di Calice. Un collega in mountain-bike che avevo superato strada facendo si ferma anche lui brevemente per medicare una puntura di vespa. Mi caldeggia l'anello Passo Stalle - Passo della Gola; anche quest'informazione avrà la sua rilevanza nel seguito. Poi lui riparte; lo riprenderò solo al termine del bel tratto nel bosco, dove comincia l'ancora piú bel tratto fra i prati di Eores, balcone che sembra progettato apposta per l'osservazione delle Odle. A tempo debito, occulto come ormai d'abitudine il bagaglio, e svolto per la salita finale alla Plose. Quel che piú mi manca è un filo d'acqua; lo trovo non prima dei duemila metri. È pazzesco, se penso che siamo in Alto Adige; mai patito altrettanto la sete nemmeno in Sicilia. Poco oltre, il bosco lascia definitivamente spazio ai prati sommitali, solcati da passeggiatori di ogni età ma con preferenza per quelle piú avanzate; in cima, dove sorge un rifugio del CAI, finalmente qualche boccata di vento fresco. Mi siedo dietro i vetroni che proteggono il terrazzo all'aperto per mangiarmi, al cospetto del Sass de Putia, un piatto di uova, speck e patate, emulo di quello del rifugio Petrarca.

Vi è qualche ricordo a farmi compagnia a tavola. L'anno scorso, sul Putia, raggiunsi la SAT di Borgo, arrivando in bici dal Cadore attraverso Forcella Staulanza, Passo Giau, l'altopiano di Fanes con le cime della Varella e delle Conturines, e infine il Passo delle Erbe. Sulla decantata cima panoramica la nebbia non ci concesse nulla: le grandi cavalcate hanno sempre un degno finale! Qui sulla Plose potrei rifarmi, ma il panorama è tronco, e di questo è colpevole proprio la stessa mole del piú elevato dirimpettaio.

Meglio allora muovere sulla vicina sommità del Monte Telegrafo, caratterizzata da una superficie spianata cosí ampia che poco ci mancherebbe per farne un aeroporto. Nell'angolino a nord-ovest - direzione verso la quale la veduta, non impedita, è eccelsa - è installata una tavola panoramica: un mirino girevole posto al centro di un disco metallico recante i nomi incisi. Ritrovato il bagaglio, mi impegno sui numerosi saliscendi che conducono al Col Rodella, antipasto del Passo delle Erbe. Meraviglioso nella luce serale il pratone denominato Cialciagn, proprio sotto il paretone del Putia. Oltre il passo comincio a cercare un posto da bivacco; lo trovo in cima alla risalita che segue il paese di Antermoia, proprio nel punto in cui si stacca la sterrata con indicazioni per Prati del Putia. Attendamento fra i piú originali: in cima a un cocuzzolo sorvegliato da un crocifisso di legno, con il telo che non riesce nemmeno a toccare terra, poiché un morbido tappeto di cespugli lo impedisce.

10. Antermoia - Passo della Gola (85 km, 3450 m)

Per risparmiare freni scendo, anziché dalla terribile rampa di Rina, dalla parte di San Martino in Badia, che viene annunciato dal suo scenografico castello. Fatta una colazione volante raggiungo Longega e salgo a San Vigilio di Marebbe. Sopra il paese, a un certo punto, la strada si stringe e iniziano rampe che vantano fresca celebrità, per aver di fatto deciso l'ultimo Giro d'Italia. Nel tratto piú duro raggiungo una comitiva di cechi che avevo visto uscire da un garage di San Vigilio; mi superano in discesa, mentre tento di tirare un raggio della ruota posteriore minacciosamente ondeggiante. Tempo appena di toccare il fondovalle della Pusteria, ed ecco che subito è tempo di attaccare la salita di Anterselva. Dopo uno spuntino in paese, trovo il cimento peggiore: un pratone inclinato che espone senza pietà la sua serie di erte serpentine. Meglio distrarsi guardando l'elegante sagoma del Collalto, che troneggia sulla sinistra. Nel seguito le cose vanno meglio; superati il centro di biathlon e il lago, giungo al semaforo che, fra le 5.30 e le 21.45, impone il senso unico alternato nell'ultimo tratto strettissimo verso Passo Stalle. Dall'Italia ci si può mettere in moto tra i minuti 30 e 45 di ogni ora, dall'Austria invece tra i minuti 00 e 15. In cima, mi fermo a mangiare presso le acque del tranquillo laghetto, tentate perfino da qualche stoico bagnante. Pochi minuti di calata per la Defereggental, e a quota 1500 inizia l'ultima ascesa della giornata, quella per il Passo della Gola. L'accesso alla vallata, che è protetta come parco, è regolato da una stanga, ma la quantità di veicoli in circolazione fa sospettare ampie deroghe, non diversamente dalla prassi italica. A dispetto degli eloquenti gesti dell'addetto alla stanga, non trovo la salita particolarmente severa, fatta eccezione per una breve schermaglia di tornantini piccanti appena prima dell'Oberhaus Alm.

Da qui in poi la strada si fa sterrata e l'occupazione precipua è quella di aprire e chiudere una dozzina di cancelli di quelli che delimitano i pascoli, aggeggiando coi vari paletti o fildiferri. Per il ciclista carico, che non può passare conducendo il mezzo con una sola mano, si tratta di appoggiare la bici fuori dal raggio del portello, fermare il ritorno elastico di quest'ultimo, sollevare il mezzo, farlo attraversare, riappoggiarlo di là, disincagliare il portello, sferragliare per richiuderlo, rialzare la bici e ripartire. Neanche quei classici quesiti di logica, i cosiddetti problemi di attraversamento, dove si deve passare un fiume andando e venendo con una barchetta, e salvaguardando nel contempo l'onore di tutte le donzelle etc., richiedono protocolli altrettanto complessi. In compenso, presso qualcuno di questi passaggi può capitare di trovare una fontana con in fresca delle bottiglie di latte e di quella che qui chiamano di «Fruchtmolke»: latte arricchito di succo di frutta. Nel qual caso, nella tipica configurazione, nei pressi vi saranno anche una pila di bicchierini di plastica, dei cucchiaini e un vasetto penzolante da un fil di ferro, adibito a cassa fai-da-te.

Avanzando nella vallata, l'«hochalpines Charakter» si accentua. Il secondo insediamento (Seebach) è talmente amabile che vi si desidererebbero ancora piú cancelli da aprire e da chiudere. Stupefacente il terzo (Jagdhaus Alm), posto a 2000 metri a guardia dell'ampio vallone che si approfondisce in direzione del Pizzo Rosso di Predoi, montagna dalle fattezze superbe. Per raggiungerlo i trattori debbono fare un ampio giro verso monte, poiché solo lí si trova un ponticello; quivi mi calo in acqua per un bagno, noncurante dell'impressione destata su alcuni ciclisti di passaggio - gli unici di tutta la giornata, ma si sa come vanno le cose in questi casi. Noto che i trattori prendono tutti la via dell'Italia: come apprenderò, pur essendo oltre confine, questi pascoli storicamente appartengono alla comunità di Tures. Con un improvviso gomito, la strada lascia il vallone e conduce in breve all'impercettibile insellatura del passo, con quel che resta del posto di dogana. Una comitiva di austriaci in mountain-bike, di quelli con la tutina tecnica, guarda al mio bagaglio e farfuglia qualche ironia del tipo: Ah però questi pigroni degli italiani! Ottimo posto, lo spartiacque alpino, per riconoscere come non tutti i luoghi comuni su chi sta dall'altra parte siano da prendere come oro colato.

Oltre il passo appare un laghetto e, nei pressi, un'isolata costruzione in cemento che, fatta salva la bruttura, quanto meno ha il pregio di avere una comoda terrazza, che voto a maggioranza come posto da bivacco. Prima però voglio salire una qualche cimetta, e il vicino e innocuo Triangolo di Riva potrebbe fare al caso mio. Si tratta di un vero e proprio vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro, fra i quali nientemeno che il Collalto e il Pizzo Rosso di Predoi, ma io per stasera non chiedo di meglio. La salita inizia con una bella scalinata di sassi, probabilmente costruita per facilitare i movimenti delle guardie di frontiera, ma poi si deteriora in uno sgradevole pendio di sassi mobili. Ciononostante, il libro di vetta testimonia una discreta frequentazione. Verso sud mi si parano davanti i versanti settentrionali ghiacciati del Collalto, del Monte Magro del Monte Nevoso. A nord le nubi caoticamente ammassate sopra le Alpi Aurine lasciano individuare distintamente solo la piramide del Monte Fumo. In discesa, saltando fra i massi instabili della pietraia, sento acutizzarsi la punta di male al ginocchio che mi ha accompagna fin dalla discesa a rotta di collo dall'Orecchia di Lepre - indigesta per me e parecchio dannosa, come apprenderò nel seguito, anche per per Marco. È un segno: mettendo assieme il dolorino, il tempo che sembra cambiare, e anche una certa sensazione di sazietà, scendendo per la pietraia del Triangolo concepisco il piano per l'indomani: un tappone dolomitico che dal confine mi riporti direttamente a casa.

11. Passo della Gola - Marter (197 km, 3150 m)

Alle sei del mattino ricomincia il viavai dei trattori dall'alpeggio, ed anch'io mi metto al lavoro. I freni resistono stoicamente alla picchiata sterrata sopra Riva di Tures e anche a quella, asfaltata ma ancora piú ripida, sotto il paese. Fare il Passo della Gola da questo lato deve essere impresa ragguardevole. Colazione a Brunico, e poi su per la Val Badia, dove bisogna mettere in conto di respirare un bel po' di polvere, causa i lunghi lavori di ampliamento della carreggiata a valle di Longega. A Pedraces, mentre sono fermo a una fontana, cominciano ad apparire dei veri «romani de Roma», di quelli che parlano solo di ministeri e brandiscono come minimo un telefono per mano. Mi viene in mente il mio risveglio alle sei fra i trattori già in moto. Seduto a gambe accavallate sul bordo della fontana, senza un'imbottitura di tritolo, mi sento del tutto inutile alla società. Sulle rampe del Passo Gardena, per stare in compagnia di un plotone di ciclisti mantovani mi presto a un gioco per me insolito, ossia forzare l'andatura. Solo per constatare che il loro fine ultimo era quello di scattarmi in faccia gli ultimi cento metri, senza considerare però che la mia meta non è un furgone parcheggiato al passo, bensí la Valsugana. Rimangono a loro volta con un palmo di naso quando tiro a diritto senza fare una piega, perché il mio programma prevede di scendere di sella solo a Campitello e all'attacco del Manghen. A Telve avrei maturato l'ultima pensata: lasciare ancora una volta il bagaglio e salire alla malga di Prima Busa, dove si trova Giacomo con gli scouts, in maniera da concludere il giro circolarmente con la stessa compagnia con la quale era iniziato. Poi però, fra le considerazioni estetiche e l'impazienza di sedersi finalmente a un tavolo per una cena come si deve, ha il sopravvento quest'ultima.

Friuli

01. Marter - Monte Rite (159 km, 5200 m)

Molto raramente mi capita di risalire la Val Calamento verso il Manghen con il bagaglio delle grandi occasioni. Accadde ad esempio l'anno scorso, 2003, quando passai di qui diretto a Jihlava dove Joan Metelli, insegnante di canto della Indiana University, mi voleva come accompagnatore dei suoi allievi. Poi quel giro assunse dimensioni piú ampie: si spinse piú a nord fino ai monti dello Harz, di lí ricadde in picchiata verso casa, dove non s'arrestò e per inerzia proseguí fino al Peloponneso. Strada facendo non mi dimenticai della vocazione montanara, spingendo la geografia delle mie salite ciclo-alpinistiche verso est fino al Lovcen e al Parnaso. Sull'arco alpino, tuttavia, il fronte orientale dell'esplorazione è tuttora fermo all'Antelao. È proprio per tappare questa falla che mi trovo qui, diretto verso il Friuli. A Ziano il cartello del gemellaggio con Nove Mesto na Moravi, dove quest'anno Joan ha spostato la sua master class, mi ricorda perfidamente del nuovo suo invito declinato per uno strano cocktail di motivi, cocktail che basta la sola visione del cartello, con tutti i relativi rimorsi, a farmi maledire.

Pazienza, penso, i passi dolomitici mi daranno la carica. Invece cosí non è. A Passo Valles lo spleen raggiunge il culmine: sono già le 15.30 poiché ho lasciato casa solo alle 9.30, causa la solita omissione, per pigrizia, di preparare il bagaglio la sera prima. Il sonno arretrato mi fa quasi addormentare sul muretto di fronte alla Madonnina del valico. Stridente contrasto con l'unica altra occasione nella quale passai per di qui: un giro ad anello da casa a casa, con Cinque Croci, Costazza, Valles, San Pellegrino, Manghen. Altri tempi, altre dosi di entusiasmo. Salito ancora il Passo Duran tra sbadigli, vengo svegliato dalla successiva discesa, stretta e tortuosa, ma non abbastanza per accorgermi che sarebbe anche tempo di mangiare. Sono scoperte, queste, che sono terribili, che sono terribili se fatte in ritardo: il conto salato del pasto non fatto arriva sull'ultima salita, quella di passo Cibiana, allorché sopra Fornesighe (o, secondo i cartelli locali, Fornegise) sento improvvisamente le gambe girare a vuoto. Rimedio per quanto possibile, e con forza di volontà e pazienza riesco a venire a capo della sterrata finale per il Monte Rite. Mi trovo in mezzo a un nebbione, di quelli caldi e tristi e uggiosi e appicicaticci di mezza estate, che mi rispedisce fastidiosamente negli occhi la luce della frontale, quasi una luna nemica incollata ai margini del campo visivo. Un assiduo ripasso mentale del primo tempo del concerto KV 467 di Mozart funge da ultimo propellente; sono propenso a credere che a questi personaggi, talora, dobbiamo la la stessa sopravvivenza. Passo un tunnel, al di là del quale cominciano delle fortificazioni. Finalmente da entro la nebbia fitta, continuamente rimescolata dal vento in fantasiosi intrugli, sbuca con effetto liberatorio la debole luce del rifugio sommitale. Sono quasi le dieci, e srotolo il sacco a pelo sotto un tendone sul piazzale antistante. Semiaddormentato in barba all'umidità e all'involucro di untume che mi sento addosso, riesco appena a captare i mormorii di disappunto di quelli che sarebbero venuti a chiudere le porte, e sono impediti dalla presenza dell'intruso.

02. Monte Rite - Mione (98 km, 2600 m)

Al risveglio inorridisco nuovamente del mio stato; del resto anche il nuovo giorno si preannuncia umido ed afoso. Parto ancora una volta tardi, mentre già la strada brulica delle jeep-navetta del museo della montagna che ieri sera aveva cosí ben onorato il suo appellativo di «museo nelle nuvole». Il business è operosissimo; fortunatamente va detto che sono numerosi pure coloro che salgono a piedi. Scendo al ponte sul Boite con la sua sempre sgradita risalita alla statale di Alemagna. Riesco a mancare la nuova bella ciclabile ricavata dalla dismessa ferrovia. In mezzo al traffico e ad amenità varie quali due Centri di Ricerca e Sviluppo per la Fabbricazione di Astucci da Occhiali (sono le stesse leggi del mercato e della concorrenza ad imporre che ve ne sia piú d'uno) approdo a Lozzo, dove finalmente si inizia a salire. Raggiungo il vivace e soleggiato paese di Laggio, che fra mercato, negozietti e vicoli odorosi di bucato mi dà una strana sensazione di entroterra mediterraneo. La strada sale poi a Forcella Ciampigotto: «chi percorre questa via / si ricordi di Gesú e Maria», ammonisce una scritta sul muro di una baita. Gli ultimi tornanti sono pittorescamente in piedi; l'ambiente mi rimanda per certi versi - freschi ricordi - al versante italiano di Passo Stalle.

Mi fermo a pranzo al Rifugio Tenente Fabbro, brulicante di vita e di voci, il tutto condensato in pochi metri quadri - dettaglio questo che fa la differenza con i moderni saloni sconfinati ed asettici. Non passano inosservate, né da me né da altrui, le tre giovani cameriere; d'altronde, stando alla narrazione del libro del rifugio, la loro generosità non si ferma a uno spigliato servizio al tavolo: parola di un gruppo di sedicenti «Torelli di Razzo», che ringraziano del trattamento di assoluto favore goduto, stando alle loro affermazioni, nell'intero arco delle ventiquattro ore. Passata Casera Razzo, e lasciata a sinistra la discesa verso Forcella Lavardêt, la strada sale fino a 1800 metri prima di iniziare la picchiata verso l'alta valle di Sauris. Impressionante la ripidezza di alcuni tornanti scavati nel versante friabilissimo: trattasi non a caso di una delle strade piú frequentemente interrotte. Lo scenario ricorda molto da vicino la Casse Désérte dell'Izoard.

«Quanto è diversa la practica dalla teorica» scriveva lo storico Guicciardini, e il traverso nel quale mi imbarco a Sauris di Sopra sembra fatto apposta per illustrare tale concetto. Apparentemente parallela, sulla carta, alle curve di livello, si risolve sul campo in un susseguirsi di strappi indiavolati e cementati che mi consegnano all'asfalto che sale da Sauris di Sotto con le gambe ormai a pezzi. Terrorizzato da brutti ricordi di catene rotte, risalenti a solo due anni prima, sul Cammino di Santiago, non faccio economia di tratti a spinta. Al bivio Casera Piéltinis - Casera Losa nascondo i bagagli dietro un abete; sulla successiva rampa cementata le gambe prontamente ringraziano. Pendenze piú miti portano poi, per bellissimi prati aperti, fino a Casera Piéltinis. Nonostante la nebbia fitta, decido di andare a inzupparmi le gambe fra le erbe di Cima Piéltinis, raggiungibile con breve camminata dal sommo della strada. Torno al bagaglio e comincio di già a tirare qualche raggio: ho infatti sottovalutato le temibile traverse di scolo che solcano il cemento friulano, prive di alcuna protezione e d'una larghezza che sembra studiata appositamente per massimizzare l'impatto sulle ruote.

Durissima la ripartenza cementata verso Casera Losa; fatiche che poi però sono premiate da un tratto quasi orizzontale; l'atmosfera qui mi ricorda alcuni passaggi della Strada del Sale tra Liguria e Colle di Tenda. Dopo la Casera il fondo peggiora sensibilmente, per diventare quasi proibitivo nella breve discesa su Casera Forchia e nella successiva risalita a Passo Forchia dove, sotto un telone, due pastori e un ragazzo cenano tenendo d'occhio le greggi. Essi mi offrono l'uso delle loro taniche d'acqua per cucinare, e sarebbe forte la tentazione di accettare, se questo non pregiudicasse la possibilità di salire, domattina di buon'ora, lo Zoncolan. Comincio dunque la piú repulsiva discesa della mia esistenza ciclistica: 9 km per 1100 metri di dislivello, il fondo sassoso rigato da solchi di ogni profondità e direzione, i tratti cementati terminati all'improvviso da salti di mezza ruota. Cosa sarà mai, in confronto, il dirimpettaio dall'altra parte della valle, il temuto Zoncolan? Resta la curiosità di tornare un giorno o l'altro a provare questo inferno in salita.

A quota 1100 trovo delle baite e mi fermo: dietro una trovo infatti un lavabo con un rubinetto che butta un'acqua bianchissima, che mi fido a consumare solo bollita, cosicché la mia cena consiste in una pasta senza condimento accompagnata da acqua calda addizionata di Isostad - si tratta del tormentone dell'estate, quegli integratori salini che non avevo mai usato prima che Giacomo e Marco mi inducessero a provarli, e che non userò mai piú in seguito.

03. Mione - Sorgenti del Piave (138 km, 4800 m)

Sveglia di buon'ora, come si conviene a chi sia diretto alla «salita piú dura delle Alpi», onde non correre il rischio di trovarmi nel bel mezzo di quella ben nota fauna di ciclisti bardati che con aria sorniona e con calcolato understatement dicono di andare a provare la gamba, laddove nella realtà stanno facendo la grande impresa alla quale si sono preparati per mesi. E io senza tutine e con il mio cancello come sono arrivato qui? Tutto parte dal Corriere della Sera, che spesso e volentieri allega anche la Gazzetta. Il piú delle volte quei fogli rosa finiscono diritti nell'anticamera del bruciatore senza aver subito alcuna lettura; dieci giorni fa, tuttavia, per caso li sfogliai e vi trovai un articolo che narrava di un'epica impresa. Tre noti personaggi dello sport italiano - Franco Ballerini, Davide Cassani e Francesco Guidolin - si erano ritrovati per effettuare una ricognizione della salita, non da ultimo per un auspicato passaggio del Giro. I toni erano epici, da guerra punica o da campagna napoleonica. Basta, mi ero detto: se parto per il Friuli voglio andare a vedere.

Mi libero del bagaglio nel bosco vicino alla chiesetta di San Martino, nel fondovalle giusto sotto Ovaro. Non vedo funghi nei dintorni, ma non so se questo sia un bene o un male per le mie borse. La psicologia del cercatore che non trova è sempre pericolosa e imprevedibile. Sulle prime rampe verso Liariis tento di figurarmi come potrebbe essere la telecronaca dell'auspicato Giro. La salita già tira, e mi par gia di sentire i telecronisti duettanti alzare il loro dito ammonitore: E non è ancora il vero Zoncolan. In paese comincia uno strano e illusorio traverso orizzontale, se non in leggera discesa, che porta al vero attacco. Sembra un po' quando gli aerei scorrazzano apparentemente a vuoto in giro per l'aeroporto. L'attacco consiste in uno stretto camino al 22%. Qui mi par già sentire il tono di telecronisti tingersi di una drammaticità quasi funerea. Il seguito è meno spaventevole, piú per assuefazione che non per vero cedimento delle difficoltà. Tuttavia, con una pendenza cosí costante la vita del ciclista occasionale è alquanto facile: basta trovare il rapporto giusto, che per me è il terzultimo disponibile, e andare su con costanza. Serve solo saldezza di nervi in fondo ai lunghi rettilinei, capaci di proporre all'occhio fino a mezzo km di tenace arrampicata, poiché la peculiarità del percorso è quella di non avere dei veri tornanti, bensí dei lievi ondeggiamenti che sembrano fatti quasi piú per nascondere al viandante la dura verità che non per vere esigenze di percorso. Le 4x4 dei cercatori di funghi sono posteggiate rigorosamente ortogonali al percorso. La temibilità del temibile Zoncolan si esaurisce ai 1577 metri del bivio per Malga Pozôf: nel seguito, infatti, il ripido cede e lascia decisamente spazio al pittoresco: un esposto traverso che - dati i trascorsi - sembra quasi orizzontale. Il finale riserva delle gallerie buie e dal fondo sconnesso (giudicate dal terzetto l'unico serio ostacolo al passaggio del Giro) e una serie di sacrificati tornantini che scodellano sul piazzalone in prossimità dell'appena abbozzata cima, la quale altro non è che una gibbosità della cresta del monte Arvenis.

Erano le sette quando nascosi il bagaglio; sono le otto e mezza quando mi siedo sul prato sommitale a guardarmi intorno. Verso oriente, solo le vette rocciose piú aguzze riescono a perforare il lucente scudo di foschia. Verso nord individuo invece un aperto costone sul quale è steso, quasi a ferro di cavallo, un percorso che, visto da qui, sembra una passeggiata digestiva ad uso degli dei dell'Olimpo. Cosa sarà mai? Consulto la carta e apprendo trattarsi della cosiddetta Panoramica delle Vette, sopra Ravascletto. Istantanea la decisione: sarà quella la prossima meta. Comincio a scendere verso Sutrio, curioso di conoscere quei celebri tre km sommitali dei quali, nel Giro del 2002, Gilberto Simoni disse, con splendida modestia, «sono troppo duri anche per me». Sotto quota 1350, invece, la strada si allarga la pendenza si normalizza. Cominciano anche a comparire i ciclisti; qualcuno mi ferma a cenni e mi prega di informarlo sui supplizi che l'attendono. Da Sutrio alla Sella di Valcalda la strada non regala particolari emozioni. Entrando a Ravascletto in cerca di rifornimenti trovo lo striscione «Benvenuto Palermo». Si tratta proprio della strada allenata dal friulano Francesco Guidolin: comincio a capire. È alla Conca d'Oro che si deve dirigere il mio grazie per essere qui sullo Zoncolan e sulla Panoramica.

La strada sale nel bosco fino a quota 1500, dove si gira uno spigolo oltre il quale, all'improvviso, la vegetazione si dirada. Comincia un tratto esposto protetto da un massiccio parapetto di legno. M'inganno tuttavia nel credere di essere sul traverso sommitale: la strada è destinata a guadagnare altri 200 metri buoni di quota ritornando su se stessa con un ampio giro. Solo a quota 1871, in corrispondenza di un fontanile dove piú di un ciclista sta rimpinguando le borracce, inizia la «traversata degli Dei», da subito sterrata, anche se le sue condizione non sono affatto scoraggianti, come prova anche l'incontro con delle bici da corsa.

Siccome la felicità totale non esiste, il percorso di questo tratto mi viene rovianato dalle perfide nebbie che si sono radunate nel frattempo lungo i fianchi della montagna, e che continuano a salire con quella inesauribilità che solo il vento e i fenomeni che da esso procedono sembrano possedere. Mi viene concesso solo qualche squarcio verso le malghe immediatamente sottostanti. Girato uno sperone, la strada sembra perdere lievemente quota, ma si tratta solo del preludio all'impennata finale, dove torna un misto di asfalto e di cemento, che conduce alla quota piú alta, presso Casera Crostis la cui presenza è rivelata dal rombo del generatore elettrico. Il nome è ereditato della montagna soprastante, dalla quale con traversata di cresta non eccessivamente lunga si potrebbero raggiungere il Rifugio Marinellie il Coglians, la vetta piú alta del Friuli. Ma non certo con queste condizioni.

Dato che le nebbie continuano a salire implacabili, comincio la discesa assieme ai ciclisti della fonte, che si buttano a uovo lanciandosi una sfida di velocità. Non so per certo chi di loro abbia vinto; in compenso so per certo chi di loro non ha vinto: trattasi dei due che trovo a metà strada, intenti a contrattare con un automobilista cui hanno ammaccato un fanale, e neanche quello che sta dalla parte della mezzeria!!

Attraverso Tualis e Comeglians, rientro al mio campo base sotto Ovaro, dove con un certo sollievo ritrovo il bagaglio. L'ora è di quelle sfigatissime: abbastanza presto da avere, nell'afa del fondovalle, un sole devastante; abbastanza tardi da trovare i ristoranti chiusi, in particolare uno a Comeglians che mi aveva tanto attratto con l'allegro tintinnio di forchette che usciva dalle imposte semichiuse, e con le sue tovaglie di tela cerata a scacconi bianchi e rossi. Purtroppo le cucine avevano già chiuso. Mezz'ora di pausa di riflessione prima di cominciare a risalire la Val Pesarina. Quello che è il terzo atto di questa densa giornata origina da un servizio apparso diversi anni addietro su Bell'Italia. A quei tempi ero molto fedele alle riviste di carta patinata, prima di capire che poi la realtà non può stare dietro alla molteplicità delle loro proposte. Come spesso accade con le aspettative a lungo cullate, anche questa risalita in un fondovalle oppresso dall'afa e circondato da montagne dimidiate dalle nebbie si risolve in un fiasco. Si sta un po' meglio nei boschi sommitali, dove ricevo l'annuncio di essere tornato ai confini fra Friuli e Cadore da uno di quegli stupidi cartelli che anche solo con la loro vacua prosopopea deturpano il paesaggio italiano: Comune di Vigo di Cadore - inizio territorio geografico: ci sarà mai uno che possa credere di essere, lí in mezzo alla vegetazione, davanti alla fine di un'epoca storica?

A Forcella Lavardêt colpo di scena: la strada che scende nell'alta valle del Piave è segnalata come interrotta. Questo coglie alla sprovvista diversi automobilisti e ancor piú motociclisti. Alcuni vanno in esplorazione, e si vedono tornare indietro di lí a poco. Andando a curiosare, capisco in breve come stia la questione: dopo un centinaio di metri, la strada si fa sterrata, alternando tratti ghiaiosi ad accenni di selciato. A velocità molto contenuta, riesco comunque a passare. La contemplazione, fra un ciottolo e l'altro, delle belle forme dell'incombente Terza Grande è un passatempo bastevole. A un certo punto, i rottami di cemento di un ponte schiantato dall'alluvione fanno pensare al peggio; con tracciato sostitutivo, fortunatamente, la strada prosegue. Sopra un tratto in piano la strada riacquista l'asfalto e, poco dopo, con una serpentina regolarissima affronta una scarpata che, cosí ornata, dal basso sembra quasi di una di quelle scenografiche scalinate delle ville barocche.

Giungo senza ulteriori intoppi al fondovalle del Piave, dove comincia il quarto atto della giornata: la risalita fino alle fonti del fiume. salita della giornata. Da queste parti, le attrattive sono due: la Val Visdende, e la val Sesis, quella che, sopra Sappada, vanta le sorgenti del Piave. Anche se ho sentito, tempo addietro, qualche Veneto particolarmente ben informato malignare che il vero Piave sia quello di Visdende, e che l'«assegnazione» delle fonti a Val Sesis sia solo una trovata per accrescere il flusso turistico a Sappada. Nonostante al bivio per la Val Visdende un cartello arrugginito la magnifichi quale «tempio di Dio - inno al Creatore», io scelgo di tirare a diritto, in quanto la successiva valle offre un piú comodo accesso a quella che potrebbe essere na buona idea per la prima mattinata di domani: il monte Peralba.

La strada si fa ripida in corrispondenza di un orrido con cascata, ammirabile da un ponticello di legno; spiana invece al momento di attraversare la borgata, divisa in tante piccole frazioni che, come già a Sauris, portano in maggioranza nomi tedeschi. Il luogo è all'apparenza molto elitario; aristocratico il passeggio; adeguati a un tale ambiente i prezzi che sperimento facendo provvista. A Cima Sappada svolto per la stradina che promette un guadagno di 500 metri in otto km. Ma è ben strano il modo in cui questo guadagno viene realizzato: lunghi tratti pianeggianti intercalati da strappi estremi a tornantini, magari seguiti da una lieve discesa, prima di spianare nuovamente. Solo nel tratto finale la salita, pur incostante, prende il deciso sopravvento; si arriva al bivio con la strada di servizio del Rifugio Calvi, rivelato su tra le rocce dalle luci ormai accese, prima di un ultimo tratto pianeggiante che conduce al Rifugio delle Sorgenti.

Qui ormai si sta finendo di rigovernare; partito un ultimo trattore, il luogo rimane deserto, e si spegne anche l'ultimo lume. Per la cena, dovrò dunque provvedere da solo, aiutato dall'acqua che esce a sbuffi dalla fontana. Poco sotto, la polla recintata da cui origina il fiume. Mi corico nella tenda, accompagnato dall'estroso rumoreggiare della fonte. Mentre mi assopisco quasi ipnotizzato intuisco un bel verbo: ciangottare; ecco quel che sta facendo la fontana! L'ho letto di recente in un qualche racconto di un qualche giovane autore cui probabilmente, a qualche master di scrittura creativa, era stato insegnato di tenere assieme la narrazione con qualche elemento unificante. Ed ecco allora uscire ogni due pagine, maldestramente, la fontana ciangottante. Siamo cosí in Italia: la meritocrazia è sostituita dalla master-crazia. Master o non master, comunque, il luogo è intrinsecamente unificante. Lo è il fiume nascente: l'unico nell'Italia una e indivisibile, ha scritto Enzo Biagi qualche settimana fa sul Corriere, ad avere il diritto di essere chiamato sacro, e io sono orgoglioso di aver riempito alla sua polla le mie sacre notturne ampolle. Lo è il mormorio stesso di quella sorgente, che unifica i quattro atti della mia giornata in un indivisibile e pesante sonno.

04. Sorgenti del Piave - Piani del Montasio (104 km, 2700 m)

Parto con la prima luce, e mi impegno sui primi salti della cresta ovest, dove i mughi e le radici aiutano la progressione sui ripidi scalini levigati dall'uso. Nel seguito la cresta evolve verso un ampio dorso cosparso di detriti, e come tale sèguita fino alla vetta, preannunciata dal perimetro sassoso di un ricovero di guerra, e da una striscia di fitto reticolato. Condivido la sosta sommitale con un'allegra compagnia di veneti che avevo visto partire a razzo dalla macchina, quasi fossero sospinti da un sacro furore, e che avevo poi superato nel corso della salita. C'è una campanella che si può suonare a distesa a gloria dell'Alpe, copiando l'idea suggerita dal Berti per il Campanile di Val Montanaia. Ma la miglior occupazione è guardarsi intorno: il panorama è superbo e composto in maniera originalissima. A est, come già sullo Zoncolan, uno scudo di nuvole, dalle quali spuntano solo le cime maggiori fra le quali spicca la stretta lama del Montasio. A ovest, i colori delle Dolomiti, la cui schiera di qui è capitanata dal vicino e corpulento gruppo di Sesto. E se a nord, a parte le nevi del Grossglockner, dominano delicate ondulazioni verdi, è invece a sud che si vede quasi compiersi il miracolo: una schiera di valli longitudinali divise da catene parallele di montagne tutte irte di ricami e calcarei pinnacoli. Uno scenario cosí finalmente cesellato, cosí aereo, da puro gotico flamboyant, segna una netta vittoria della periferia sul centralismo dei massicci dolomitici maggiori, quelli che despoticamente calamitano su di loro tutta l'attenzione e la notorietà.

Dopo aver concesso a un simile spettacolo il giusto tempo di decantazione, mi incammino giú per la via normale. A un certo punto incontro una lapide:

Forza! Là sulla cima c'è la croce.
Lassú io ora devo andare.

Giovanni Paolo II, 1988 -

Successivamente, la via si incassa a nord in un ripido camino di detrito nero, prima di uscire sui ridenti prati alle porte della Forcella di Sesis. È ancora presto e non ho nessuna voglia di scendere; decido quindi di traversare alla base della parete nord del Chiadenis, dove due rocciatori stanno imbastendo una scalata, per raggiungere la Forcella dei Cacciatori e di lí salire al monte Avanza.

La normale dell'Avanza è molto piú articolata di quella al Peralba: si deve salire alla Forcella delle Genziane, in vista degli omonimi campanili, e di lí con un traverso esposto, molto aiutato dalle opere di guerra (nei tratti scabrosi vi sono ancora dei muretti perfettamente integri), guadagnare i gradoni finali, dove già ritrovo le usate nebbie. Di conseguenza, al termine della salita non ho altra occupazione che trastullarmi con il libro di vetta: un'agenda risalente ancora - a testimonianza della scarsa frequentazione del luogo - al lontano 1999 nella quale gli interventi sono disposti totalmente alla rinfusa. Davvero il Monte Avanza fa perdere il senso del tempo, a giudicare dal libro, annota ironica una Salitrice. Con efferato delitto strappo una della decina o poco piú di pagine bianche rimanenti, al fine di annotarmi una piccola antologia, poiché nel caos di questo anarchico commentario si cela proprio di tutto: da un reggimento di militari inglesi, che occupa diverse pagine, a un plotone di «alpieri» che dichiarano a tutta pagina: domina la vetta, otterrai la vittoria. E ancora: un gruppo salito per l'eclisse del 99; un altro, arrivato nel 2000 dalla Carinzia, la cui prima preoccupazione è di proclamare a lettere cubitali: Haider raus - Nazis raus.

Instauratosi il consueto regime meteorologico, temo di non avere, per oggi, piú nulla da chiedere alla montagna, e scelgo quindi il sentiero che perde rapidamente quota verso Casera di Casa Vecchia; da ultimo riesco anche a perdermi e ad arrivare all'asfalto tutto ornato di ragnatele e di aghi. Su agli ultimi parcheggi stento alquanto a riconoscere i luoghi conosciuti nell'atmosfera rarefatta della sera precedente, e lasciati di buon'ora. La quantità di veicoli che vedo arrivare quassú - e siamo di giorno feriale - imporrebbe al buon senso, quanto meno, di occultare pietosamente i cartelli che prescrivono il divieto di transito a qualunque mezzo motorizzato. Il ridicolo dell'Italia contemporanea assedia da vicino anche le sponde del fiume caro alla memoria. I prati tutt'intorno sono colonizzati da sciami di gitanti dotati di fornelli, cesti, panieri, materassini. Oggi perfino la fontana si rifiuta sdegnosamente non solo di ciangottare - che in mezzo a tanto chiasso sarebbe fatica sprecata - ma perfino di buttare acqua. Per rifornirmi devo scendere alle fonti qualche ripiano piú sotto, generosamente riempite di bottiglie di Montalcino e di Valdobbiadene messe in fresca.

Fatto un bagno nel sacro fiume, mi avvio di gran carriera giú per Val Degano, nella speranza di arrivare in tempo per il pranzo alla mia locanda degli scacchi bianchi e rossi. Purtroppo ancora una volta sono fuori tempo, e devo ripiegare su dei prosaici panini. Nel frattempo avverto la percezione di essermi stufato di questo regime che già a metà mattina mi fa trovare in mezzo a nebbie indissolubili. Lascerò perdere la lunga sequenza di forcelle in programma lungo lo spartiacque alpino, e punterò per rapide vie di fondovalle verso le Alpi Giulie. Potrei ambire a posizionarmi già stasera all'attacco del Montasio.

Detto fatto. Soffro per qualche decina di km nell'afa delle basse quote, ma non manca mai la consolazione del paesaggio, sempre vario e originale: i fianchi ben scolpiti delle montagne calcaree, i greti beffardamente larghi del Tagliamento e Fella cosí a corto d'acqua sono solo alcuni esempi. Ma anche l'ingegno umano ci mette del suo. Resiutta, all'imbocco della valle Resia, è il primo comune che vedo esporre l'altitudine con due cifre dopo la virgola. La base è di 316 metri, peccato che non siano 314, altrimenti si potrebbe ipotizzare un testa a testa con lo sviluppo decimale di pi greco. E, per rimanere in tema, mi chiedo se, con la lotta fra la crescita degli Oceani e l'orogenesi alpina ancora in atto, l'Amministrazione Comunale di questo luogo possa dormire sonni tranquilli.

Nel tardo pomeriggio, ho finalmente il privilegio di risalire una valle, il Canale di Raccolana, riuscendo a spingere lo sguardo fino alle cime. Le nebbie infatti si sono dissolte, lasciando campo libero a un piacevole sole: quel solo che non fa soffrire né sudare, ma è pur sufficiente a indorare i torrenti in controluce e a donare alle pareti calcaree tutta la loro lucentezza. La vallata propone anche degli ameni paesini; in uno sosto per visitare la chiesa e mi soffermo nella luce vivida che entra a sera da un rosone ben orientato ad ammirare i ceri colorati posti in corrispondenza biunivoca con gli attributi dello Spirito: ecco allora Pietà, Fortezza, Consiglio, Intelligenza, Scienza, Sapienza, Timor di Dio. Segue la sequenza di tornanti, in parte scavati in galleria, che superano il salto conclusivo. Poche decine di metri sotto il valico trovo l'ultima acqua della quale ho la fortunata intuizione di fare incetta.

Da Sella Nevea, infatti - infame agglomerato di mostruosità alberghiere - fuggo subito per la stradina che s'inerpica verso l'altopiano del Montasio. Nella mia immaginazione il luogo doveva essere un unico grande prato folto di mucche intente a produrre latte per l'omonimo formaggio. Nella realtà invece la strada corre nel fitto del bosco, cominciando con rampe al limite della sopportazione, per poi farsi piú docile, e concludere con un rettilineo ondulato che conduce al termine del bosco. L'immaginazione ha finalmente la sua ricompensa, col comparire di pratoni affollati di malghe. A un crocevia qualche decina di metri sopra il parcheggio trovo un buon posto tenda, mentre un pastore, nell'incipiente oscurità, sta cercando di radunare con richiami assai rudi le ultime bestie recalcitranti.

05. Piani del Montasio - Rif. Mangart (28 km, 3400 m)

Parto con le prime luci e finalmente scopro la posizione del rifugio Di Brazzà, che finora non si era tradito con alcuna luce: solo con una jeep transitata alle tre di notte. L'umore si fa subito nero per la difficoltà a individuare l'attacco del sentiero: e sí che non siamo sull'ultimo e sul piú ignoto dei gruppi alpini. Penso alla nostra SAT di Borgo che marca con tanto puntiglio i sentieri; al Mariano che urla e si agita finché tutta la segnaletica non è approntata ad arte. Impreco contro il CAI e a tutte le sue Commissioni e Sottocommissioni, centrali e periferiche, che a fronte di questa incuria sanno tanto di Azione Parallela alla Musil.

Alla fine, comunque, un filo di sentiero lo si trova; dopo lungo e malagevole traverso, esso comincia a salire alla forcella che segna il confine tra gli ultimi prati e l'edificio roccioso finale. Su dei contrafforti laterali, un branco di camosci si esercita a provocare frane, con un certo disappunto delle marmotte che protestano piú sotto. Ogni branco ha il suo comportamento: ne sfioro uno di una ventina di unità, che non si smuove minimamente; passo distante da un altro, appena un poco meno numeroso, e qui a un fischio del capobranco tutti fuggono a gambe levate.

Arrivo a quello che mi parrebbe essere il bivio tra la via normale e la Grande Cengia che conduce al Bivacco Suringar. Fortunatamente, sulla cengia i bollini di vernice rossa sono stati rinnovati, e questo mi aiuta non poco in mezzo alle nebbie che, ormai s'è capito, per oggi non hanno intenzione di concedere nulla. Con percorso sempre esposto e di soddisfazione arrivo alla stretta piazzola dove, al riparo di un roccione, è piazzato il bivacco, lungo il cui fianco chi volesse scendere verso nord sarebbe costretto a strisciare. Ora si tratta di trovare la via di salita alla cima. Seguo una falsa pista che porta a una grande caverna e poi, non sapendo che pesci pigliare, comincio a ripercorrere la cengia all'indietro.

A un certo punto, individuo fuori dal sentiero un bollo di vernice molto dilavato, del tutto invisibile nell'altro senso di marcia: non mi sbaglio a interpretare che quello sia l'inizio dell'ascensione. La quale somiglia parecchio alla direttissima del Corno Grande, sul Gran Sasso: dopo un primo complesso vagabondare per roccette, la via si incanala in uno stretto vallone, che pare seriamente sbarrato in alto da pareti rocciose dove, contrariamente alle aspettative, si riesce a passare senza particolari impedimenti.

In cima vi è una specie di paiolo rovesciato che protegge la campana, e due utili ripari in pietra: io sfrutto quello per il vento da sud, che nella fattispecie è assai freddo e porta con sé anche qualche sporadico fiocco di nevischio. Constatata l'assiduità con la quale le nebbie seguitano a salire, mi incammino giú per la cresta della via normale, seguendo gli ometti. Ad un certo punto, mi appare nella nebbia una scala, che vedo inarcarsi sopra una placca per poi scomparire nel vuoto. L'attrezzo può essere aggirato, sebbene in maniera non proprio indolore, in particolare per l'atto di fede imposto da un mauvais pas che richiede di abbassare il piedi su una lista di roccia stretta e viscida che traversa tra l'abisso e un misterioso pentolone colmo di nebbia al di là del quale appare di tanto in tanto quella che sembrerebbe essere la vera cresta. Ma allora io dove sono? Solo dal basso scoprirò di essere passato sopra uno spettacolare arco di roccia. Dopo un tratto protetto da fittoni, segue un ripido costone che tanto ricorda i perfidi gerbidi delle Apuane, costone sul quale non si capisce se siano piú viscide la rocce oppure i ciuffi di erba fradicia. In corrispondenza dei piú tranquilli ghiaioni sottostanti incrocio due giovanotti inglesi che, a dispetto di una indubbia stazza, salgono con rimarchevole andatura in direzione della scala. Io invece imbocco a sinistra per il sentiero intitolato ad Alfonso ed Elenita Leva, una sequela di corde fisse tese sopra una paretona inclinata, che mi permettono di tergiversare in quota, onde studiare un eventuale miglioramento del tempo. Il tutto con notevole incomodo degli stambecchi che, con queste condizioni, non avevano preventivato disturbi. Allo stretto intaglio di Forcella del Palone teorizzerei quasi di scendere, se solo vi fosse sentiero. In effetti, la via non termina, inerpicandosi per breve tratto in direzione della comoda mulattiera che dal rifugio sale alla comoda Cima di Terrarossa.

Giusto alla confluenza dei due tracciati incontro un escursionista udinese, Francesco, che mi sarà di compagnia per le successive tre-quattro ore. Dopo aver infatti salito la sommità, e dopo aver rinunciato alla lunga ferrata «Ceria Merlone» che, in caso di temporale, e in assenza di vie di fuga, si potrebbe rivelare una trappola, scendo con lui al rifugio a mangiare polenta e salsicce. Sono quasi le tre quando le nostre lunghe chiacchiere di soggetto alpinistico e ciclistico hanno termine; dopodiché parto in direzione del Passo del Predil. Appena superato questo, attacco la strada militare che conduce, ai piedi del Mangart, fino oltre i 2000 metri di quota. Il suo percorso, sulla carta al 25mila, mi era apparso molto promettente: passaggi arditi, gallerie sopra le quali la strada ritorna piú in alto con tracciato vagamente elicoidale. La realtà non delude, e anzi offre la comodità dell'asfalto laddove la mia carta Tabacco un po' datata parlava di sterrato. Si tratta di un percorso superbo, specie nei due terzi superiori; un percorso che non dovrebbe mancare nel palmarès di nessun serio ciclista alpino. In alto, ormai sopra il rifugio, la strada forma un anello sterrato, molto diverso tuttavia da quello della Bonette, in quanto qui a venir contornata non è una vera cima, bensí un insignificante dosso roccioso. Quando tocco il punto piú alto sono quasi le sei, e il Mangart è avvolto il fitte nebbie. Decido comunque di tentarne l'ascensione, ben sapendo di dover procedere quasi in gara contro il tempo. Mi conforta la presenza di una automobile, che testimonia come qualcuno sia ancora impegnato sulla montagna.

Supero il bivio tra slovenski smer e italienski smer, scegliendo senza esitazione quest'ultima, essendo l'altra una via ferrata che in questo frangente non fa assolutamente al caso mio. L'ascensione è tutta segnata dall'estrema viscidità della roccia, che rende graditi i numerosi cavi di assicurazione, alcuni dei quali con roccia asciutta potrebbero apparire addirittura ridicoli. Dopo una prima rampa ascendente, una lunga cengia traversa tutta l'immensa parete nord; incontro qui i tre della macchina, molto stupiti dai miei propositi. Girato dopo una nuova salita lo spigolo est, si continua nuovamente in cengia sul versante a sud, prima che una decisa salita per un canalone di rocce esageratamente rosse catapulti direttamente a un grosso ometto in vista della grande croce sommitale.

Sono poco piú che le sette, e quindi mi sento ormai al sicuro, avendo tutto il tempo per una discesa sufficientemente oculata. Sulla grande cengia le nebbie si diradano e mi lasciano vedere il salto verticale di oltre mille metri che mi sta sotto. Piú in basso, posso addirittura godere del panorama sui laghi di Fusine: il tutto ha una certa somiglianza con i laghi di Füssen visti dalla Marienbrücke. Beninteso, racconto piú con gli occhi della fantasia che con quelli della realtà; non credo ci sia grande bisogno di soffermarsi su questo. Mettendoci grande impegno, riesco a contenere il tempo di discesa entro quello di salita, cosicché mi resta ancora un poco di luce per raggiungere il rifugio, mentre comincia a piovere.

Davanti alla porta della capanna rischio di venire sbranato da un immenso cane piuttosto stizzito dell'essersi fatto sorprendere dal mezzo silenzioso. Sopravvissuto anche a questo nuovo pericolo, entro nella piccola Stube dove stazionano ancora soltanto i tre della macchina, che il libro di vetta mi ha rivelato provenire da Pola, e due coniugi tedeschi di Colonia che mi vogliono al loro tavolo per chiacchierare di viaggi e avventure di vario genere. Io attendo alla mia zuppa comprensiva di crauti e salsicce. Non mi sfugge il fatto che pago il tutto 4.65 euro, laddove al di là del confine, in un rifugio del CAI del quale sono socio, rifugio peraltro servito da comoda carrozzabile, ho pagato due pallide salsicce e una birra 8 e 4 euro rispettivamente! I tedeschi mi raccontano di tutto ciò che hanno vissuto a bordo della loro fida Toyota: tre viaggi in Algeria, e poi Libia, Marocco, Islanda, Cile... Ora sono di ritorno da Pag e, per rispettare una loro par condicio tra mare e montagna, vogliono salire domattina al Mangart.

La conversazione fiorisce, piú conviviale che mai. Sembra sia cura della signora fare sí che mai una bottiglia si vuoti prima che un'altra abbia posto sul tavolo; cosí però lei stessa finisce per essere isolata da noi due da una fitta muraglia, fatta di colli aguzzi di bottiglia. La temperatura Kelvin del discorso aumenta; il mio compagnone giunge a proclamarsi entusiasta di questa nostra Europa che cresce cosí bene, con il gestore sloveno che parla indifferentemente l'italiano e il tedesco, con me che sto sostenendo cosí brillantemente una conversazione nella sua lingua (questo lo dice lui), e con lui stesso che alla bisogna saprebbe farsi intendere in italiano (questo ancora lo dice lui). Dopo un conclusivo scambio di indirizzi, l'amico recupera la moglie da dietro il muro di Berlino che discorrendo di Europa unita abbiamo edificato, e prende la via della stanza, mentre io prendo quella del piazzale dove mi attende il montaggio della tenda. Verso le undici inizia un violento temporale che si placherà solo verso le cinque di mattina; al risveglio rovescerò fuori dalla mia misera tendina diversi litri di acqua, maledicendo l'integralismo con il quale applico il ragionamento secondo cui, quando una porta la tenda, la deve anche usare il piú possibile.

06. Rif. Mangart - Podkoren (45 km, 300 m)

Al risveglio chiedo al gestore se mai il tempo migliorerà. Non siamo mica in Nuova Guinea, qui!, mi risponde in perfetto italiano. È vero, siamo nella nostra Europa, questa meraviglia, ragiono fra me e me, rievocando i discorsi fatti la sera prima davanti la muraglia. La testa ha già smaltito le birre - probabilmente la buriana di lampi e tuoni ha accelerato il metabolismo. Scendo sotto una leggera pioggerella, godendo soprattutto i passaggi nelle gallerie, regolarmente chiuse all'estremità opposta da un turacciolo di nebbia, pronto a conferire ogni volta l'impressione di un'uscita allo sbaraglio nel vuoto. Se a Predil ricomincia a piovere decisamente, per le vie di Tarvisio inizia un vero diluvio. Fuggi fuggi dei turisti sotto i tendoni dei negozi e nel mercatone coperto che espone vestiario e pelletteria di ogni tipo a beneficio degli acquirenti transfrontalieri. Perfino per comperare un pezzo di prosciutto e un po' di grana devo farmi strada tra giunoniche ed invasate matrone austriache, assai prossime, davanti a questo dispiegamento di made in Italy, a una versione casereccia e da massaie della sindrome di Stendhal.

Passo la prima parte del pomeriggio a guardar piovere sotto i vetroni della moderna stazione di Tarvisio Boscoverde, dove maturo il convincimento che batterò in ritirata. Per scrupolo aspetto a comperare il biglietto, tanto non c'è nessuno in giro. A dieci minuti dalla partenza del treno un impulso inedito mi spinge fuori, sotto la pioggia. L'idea è questa: farò qualche giro in tondo, e poi lascerò scegliere alla ruota anteriore della bici; sarà lei a indicarmi dove dirigere, se verso la biglietteria o verso lo stradone. Quella a un certo punto lancia il suo pronunciamento e parte per la tangente in direzione della Slovenia. Addio stazione coperta, panchina asciutta addio. Poco oltre il confine sento che anche l'ultimo strato di vestiti è inzuppato. Mi fermo sotto una tettoia. Tento di scaldare se non altro la testa riprendendo dei calcoli che mi erano stati commissionati e che avevo lasciato incompiuti alla partenza da casa. Rimango lì per tre ore, a calcolare e tremolare, con una prevalenza via via piú spiccata della seconda attività a scapito della prima. Verso ora di cena la pioggia fortunatamente cessa; avrei necessità di ripartire su una qualche salita, ma sfortunatamente non ve ne sono. Riesco ad arrivare a Podkoren dove mi infilo in una trattoria. Il sole mi regala un suggestivo e anche un po' beffardo colpo di coda, illuminando d'un riflesso languido le scorbutiche cime verso mezzogiorno. A nord, invece, l'alta valle della Sava è fiancheggiata solo da un'esile striscia di colline. Le nubi in ritirata lasciano intravedere delle rocce rivestite di nevischio. Dopo una cena fin troppo abbondante a base di grano saraceno e di pizza, pianto la tenda in un vicino prato, con la bici appoggiata a un muraglione di fieno - o almeno tale appare, poiché l'intelaiatura di legno che lo sorregge non si vede affatto. Sopra, una stretta tettoia il cui ruolo è puramente psicologico in quanto piú bagnato di quel che già sono non potrei in ogni caso diventarlo.

07. Podkoren - Luknja (30 km, 3550 m)

Mi metto in moto soffrendo per l'umidità e per il gelo penetrante fino alla vicina Kraniska Gora, dove finalmente inizia, sebbene un poco in sordina, la scalata al Vrsic. La strada si addentra alquanto nella valle, e a un innocuo ponticello decide - senza bisogno che nessuno le dia istruzioni - di impennarsi. Le pendenze sono tanto dure quanto, nella circostanza, benedette. Un po' alla volta mi levo gli strati fradici. Già il tepore dei primi raggi di sole sulla schiena assuefatta ormai ai brividi mi fa dimenticare tutti i patimenti delle ore passate. La mattinata è di quelle straordinarie e innumerevoli sono le comitive di alpinisti sloveni, intenti nei vari parcheggi ad allacciare scarponi e regolare bastoncini. Sopra di noi incombe una montagna formidabile, una possente e articolata parete calcarea, caratterizzata da un grosso buco appena sotto la cresta sommitale. Le sue dimensioni sono paragonabili a quello di Capo Tafonato, in Corsica. Verso metà salita, una cappella russa che, come mi spiegherà in cima un ciclista locale, ricorda una quindicina di combattenti periti sotto una valanga.

Al valico il primo provvedimento che prendo è quello di correre al chiosco a comperare una carta al 25mila del Triglav. Nel frattempo metto teli e vestiti ad asciugare; ho un bel da fare a collezionare sempre nuovi sassi di ancoraggio, per fronteggiare il vento che via via rinforza. Un signore di Berlino porta a spasso per l'Europa il suo figlioletto mulatto; si stanno scaldando la colazione con un fornello a gas e il bambino gradisce i dolcetti che gli regalo, provenienti ancora dalla grande kermesse di Tarvisio. Verso le dieci mi incammino verso la cima del buco. La carta la chiama Prisojnik, nome che le segnalazioni sui sassi semplificano in Prizank. Si tratta di un'andata e ritorno, poiché raggiungere la cima del Triglav da qui sarebbe follemente lungo e, quel che è peggio, mi costringerebbe a un ritorno per lo stesso itinerario. Per la cima maggiore dovrò dunque inventare qualcosa, ma per intanto non ci penso: per adesso la priorità è quella di godersi la strepitosa mattinata.

La bellezza delle rocce del Prisojnik impone di lasciare la via normale alla discesa, e di optare per il ripido spigolo che sale direttamente al buco, in sloveno okno. Ad esso fa capo la via ferrata, e fa un certo effetto vedere i caschi degli alpinisti sbucarvi da un qualche ignoto e invisibile "sotto". Dietro le loro teste, direttamente i tornanti del passo. La gioia di trovarsi il sole in faccia dopo ore di smanettamento all'ombra e all'umido si legge anche sui loro volti. Con qualche attrezzatura sopra le ultime placche si guadagna la vetta. È mezzogiorno preciso e siamo qui in tanti a spartire la fortuna di ammirare tutta la pianura friulana e l'arco dell'Alto Adriatico: un godimento totale ed effimero, come ammonisce il severo monolito del Triglav che già sta chiamando a raccolta le nubi. Se le condizioni sono perfette, però, bisogna riconoscere che l'artista che ha lavorato qui sul Prisojnik era di levatura inferiore rispetto a quello che ha disegnato il giro d'orizzonte del Peralba: l'equilibrio delle masse e dei volumi non ha qui la medesima perfezione. Ho detto «bisogna riconoscere» - bè, bisogna pure riconoscere che solo nel corso di una abbuffata di cime come questa la mente può essere tanto viziata da muovere un rilievo simile!

Da ammirare tre inglesi impacciatissimi che, per salire fin quassú, hanno ingaggiato una guida alpina con tanto di spezzone di corda, anche se il suo indaffaramento sta piú nel rassicurarli che nell'assicurarli. D'altronde, a ben vedere, la stessa via normale è lievemente speziata da qualche passaggino delicato - oltre che prodiga di suggestioni e interessanti scorci. Alla bici, non tolgo nemmeno lo zaino dalla schiena: conto infatti di scendere solo fino a Trenta, e di lí ripartire a piedi. I tornanti, in questo tratto numerati dal 25 al 49, non presentano il pavè come sul versante nord: questo tratto di strada è stato costruito dai nostri Alpini, al tempo che la valle dell'Isonzo era italiana. Al tornante 48, il penultimo, è d'obbligo una sosta al Monumento a Julius Kugy, Kugyjev spomenik, che ritrae il venerato pioniere delle Giulie rivolto verso la parete dello Jalovec - una delle sue piú illustri realizzazioni. Il «pretesto» con il quale girava era la botanica; la Scabiosa Trenta, fu per lui quasi come il fiore azzurro dei «Wanderer» romantici. (Questo paragone non è farina del mio sacco, l'ho letto da qualche parte ma non ricordo dove). Poi l'illustre professore s'occupava un po' di tutto: Arbeit, Musik und Berg è il titolo di un suo libro, che ben mette in fila le sue diverse passioni. (Io approvo incondizionatamente, salvo forse tagliare una parola - si sa, non siamo piú gli uomini tutti d'un pezzo di una volta).

Il tornante successivo, n. 49, proporrebbe una deviazione verso la vicina sorgente dell'Isonzo, che farebbe degna compagnia, entro il mio itinerario, a quella del Piave. Ma non c'è tempo: c'è il Triglav che aspetta; la montagna e l'orologio hanno la caratteristica comune di fare ben poche concessioni. Qualche minuto di sosta non lo posso tuttavia negare alla deliziosa chiesetta di Santa Maria di Loreto, che s'accompagna alle quattro altrettanto incantevoli casupole di Pri Cerkvi. Fu costruita da un nobile goriziano, tale Von Heiligenkreuz; di qui passavano delle rotte di pellegrinaggio, diretto in particolare al Monte Santo di Lussari, nel Tarvisiano.

Poco sopra Trenta, a un isolato tornante 50, si stacca il vallone della Zadnjica, la valle che forse piú d'ogni altra «avvicina» al Triglav. Le virgolette sono d'obbligo in quanto il termine della strada si trova a una quota di non piú di 700 metri. D'altronde, l'affollamento la dice lunga sul fatto che qui pochi si lasciano spaventare da un dislivello di oltre duemila metri. Sono quasi le quattro quando, dopo aver ottenuto dal mio fornello il conforto di una pasta al pesto, mi incammino per la mulattiera militare alla quale non fa un baffo l'apparentemente problematico balzo verso i 2000 metri degli altipiani sommitali. Nell'aria rilassata del tardo pomeriggio mi godo il graduale mutare della vegetazione con l'altezza. Incrocio un flusso moderato ma costante di reduci dalle alte quote. Passato sotto a una seggiovia, riattata a teleferica di servizio per il rifugio, non ho che da superare gli ultimi 400 metri di sentiero piú ciottoloso, per uscire a una sorgente prima, e al desolato pianoro sotto il rifugio poi. Ho ancora due ore di luce e prendo una decisione coraggiosa: evito decisamente il rifugio e, sotto lo sguardo dubitoso degli alpinisti che ciabattano presso la soglia, punto ai ripiani carsici dietro i quali la nebbia cela la cima del Bovski Gamsovec. Nel seguito apprenderò di essermi evitato, con questa scelta, un rifugio noto per la sua abbondante imbottititura di amianto.

Cerco nella nebbia la vetta del Bovski Gamsovec, e da quella per un'esile cengia attrezzata esco poi al versante sud, dove le rocce lasciano il posto ad ameni ma ripidi prati. Grande il disappunto dei camosci che, stimando ormai conclusa la giornata escursionistica, si erano comodamente distesi nel pronunciato solco del sentiero. E grande anche il mio stupore nel sentire, al di là della profonda insellatura della Luknja, degli echi di voci. Alla forcella, in effetti, mentre ormai si è fatto buio, mi imbatto in due ombre: si tratta di due scalatori, reduci dall'immensa parete nord del Triglav. Hanno salito in giornata l'impressionante salto di 1500 metri! d'altronde per l'alpinismo sloveno le prestazioni superlative sono la regola, quelle ordinarie l'eccezione. Li osservo ammirato scendere leggeri come gazzelle i ghiaioni sotto la forcella, prima che il sipario del buio finisca di chiudersi, portando con sé anche gli ultimi echi.

Poche decine di metri sotto l'intaglio, sul versante est riparato dal vento, trovo un bel pulpito erboso che bipartisce il costone sottostante e sembra fatto a bella posta per il mio pernottamento. Lo spazio è ristretto ma la picchettatura vagamente acrobatica ha successo. Alle nove, mentre sto terminando la mia cena consistente in un pezzo di grana, spuntano dal buio altre due ombre vocianti. Mi informo in inglese dove siano dirette; «Home sweet home: Ljubljana» rispondono quelli con grande naturalezza, come se quel nome non comportasse altri 800 metri da scendere e altri 80 km di macchina.

Però questi sono veramente gli ultimi; dopo di loro, qui sul terrazzino sotto la Luknja rimango solo e ho tutto tempo per accorgermi come, in questa movimentata giornata, per me si sia concluso un ciclo quasi decennale, cosa che l'indaffaramento mi aveva appunto impedito di percepire. Salendo il Vrsic, virtualmente l'ultimo dei grandi passi stradali qualora si segua l'arco alpino in direzione dell'Adriatico, ho virtualmente concluso il lavoro di esplorazione dei passi alpini iniziato nel 1995 con la traversata Aosta-Nizza, quella dei grandi passi del Tour. La notte sulla Luknja, con gli echi degli ultimi ritardatari che scendono dalle pareti, fa da contraltare alla magica notte sul Col de la Bonette dove, uscendo dalla tenda piantata nella nebbia, mi trovai davanti a un nero costone che s'andava a conficcare, mille metri piú in basso, entro un tappeto di nuvole candide e corpose che andavano a sciogliersi solo verso un orizzonte lontano, dove la dolcezza dei colori lasciava intendere senza equivoci la presenza nascosta del mare di Provenza. E io stavo lí tutto solo, alto su quel meraviglioso scenario; e una perfetta notte di luna stava lí, alta sopra di me, e non avevo nessuno con cui fare a metà del peso di quell'emozione. Non ero abituato, all'epoca, a sopportare da solo queste emozioni, rese ancor piú forti dall'ambientazione in un posto solitario e recondito raggiunto unicamente con le proprie forze. Ora a tutto ciò sono abituato e non mi fa né caldo ne freddo: non so se giudicarlo un bene oppure un male, certo è che un tale processo di assuefazione è ineluttabile e irreversibile.

08. Luknja - Sella di Carnizza (48 km, 2600 m)

Alla mattina mi sveglio un po' imbarcato, un cavicchio che non avevo notato mi ha forato una camera d'aria del materassino. Sento un canto melodioso che via via m'avvolge: esco dalla tenda e vedo salire di buon passo una masnada di ragazzini capitanati da una specie di lupo di mare, presumibilmente il loro padre. Smonto la tenda e subito mi trovo sui primi appicchi della cresta di Plemenice, ammansiti da diversi cordini. Sorpassata la melodiosa brigata, mi trovo tutto solo sugli ultimi gendarmi della cresta, dove la natura mi regala uno spettacolare spettro di Brocken. Solo ora, nel raccontare a distanza di anni questi episodi, realizzo tutta la follia e la stupidità che mi hanno permesso di girare per tutto il 2004 e il 2005 senza uno straccio di macchina fotografica. Del Brocken sono un fedelissimo, come, immagino, tutti coloro che frequentino la montagna senza particolare riguardo per il meteo o per l'ora del giorno. Ma questo di Plemenice è un'epifania straordinaria, dai colori brillantissimi, e continuamente rinvigorita dalle rade barbe di vapore che salgono dal versante Trenta e che, nella loro semitrasparenza, lasciano intravedere sullo sfondo una fantasmagoria di torrioni calcarei. Con gli occhi ancor pieni di quella vista attraverso burocraticamente il successivo, lungo ripiano carsico, pieno di fratture piú o meno infarcite di neve vecchia, e dominato a sinistra dalla mole della cima principale. A diritto domina invece il rudere di una caserma di nome Morbegna - di sicuro in relazione con l'omonimo battaglione. è certamente da associare al nome di un glorioso battaglione italico. Il monolito finale, reminiscente della gloriosa Cimadasta, viene attaccato per un camino ascendente in obliquo, il quale porta in vista del versante sud; allo stesso tempo appare la lunga cresta della via normale, già punteggiata delle silhouettes di decine di alpinisti partiti dal vicino Triglavski Dom.

In effetti, alle otto e mezza sulla cima vi è già grande affollamento. Vengo attratto dalla favella di due compagnoni che sembrano parlare con l'accento di casa mia. Sono invece di Capriva del Friuli; loro quassú sono di casa e mi illustrano la funzione dell'originale botte metallica che caratterizza la vetta: è stata eretta nel 1895 e ogni sloveno che si rispetti dovrebbe, almeno una volta nella vita, farsi fotografare davanti alla sua porticina. Non va dimenticato che il Triglav è effigiato anche sulla bandiera nazionale! Per i salitori alla prima esperienza una tradizione non codificata prevederebbe anche delle frustate, ufficio al quale alcune comitive stanno in effetti attendendo. In un momento di bassa marea entro anch'io nel trabiccolo e, anche se mi sento un po' come un cristiano a entrare in una moschea, mi soffermo a consultare il preciso plastico che descrive il panorama a 360 gradi. Riconosco il Glockner, il Venediger e niente meno che il Collalto-Hochgall, di cui a casa misurerò la distanza in 145 km. Inconfondibile il triangolo aguzzo dell'Antelao; la Marmolada invece, distante 155 km, viene rivelata solo dalla caratteristica striscia di bianco sommitale. A nord, come già dal Prisojnik, per un soffio è negata la vista sui grandi laghi della Carinzia, anche se si riesce perfettamente a indovinare le conche nelle quali essi si adagiano. A est il massiccio del Grintavec spunta dai riflessi metallizzati della nuvolaglia che fin dall'alba aveva premuto contro le pendici del mio monte. A sud il grande assente è il mare: chissà quale sarà, all'arrivo, la delusione del corifeo del Plemanice il quale, giú ai torrioni, mi ha rivelato di essersi fiondato quassú, interrompendo le vacanze al mare, per l'aver scorto, ieri, le Dolomiti da una spiaggia dell'Istria. Io mi dolgo invece di due promesse del plastico non mantenute: lo Sneznik, che in passato sono riuscito a fotografare dai monti di casa, e il Velebit, mio fido compagno nella campagna di Dalmazia effettuata nel 2003.

Scendo assieme ai due compari di Capriva fino al rifugio di passo Dolic, dove essi hanno pernottato, stipati avventurosamente nel letto a castello di una dependance di legno. All'insellatura ci salutiamo molto calorosamente, la quantità di chiacchiere che abbiamo sviluppato in questo breve tempo è stata ragguardevole, e senza por tempo in mezzo io attacco la salita delle assolate pietraie del Kanjavec. Dalla vetta mi si apre la vista sulla celebrata valle dei Sette Laghi. Tutta questa parte meridionale del massiccio, con le sue distese desolate di lastroni, ricorda per certi versi i ripiani sommitali dell'Altopiano di Asiago. Nel complesso, comunque, nulla che regga il confronto con il drammatico susseguirsi di torrioni e intagli che ha luogo piú a nord, fra la cima principale e il Prisojnik. Oppure in direzione della Skrlatica che, regina di un suo regno solitario, viene subito inserita con priorità massima nella lista delle mie brame. Scendo ai laghi superiori in compagnia di una comitiva di anziani; mi incuriosiscono dei paletti alti tre metri che segnalano la rotta scialpinistica; il Kanjavec è infatti la meta preferenziale di tutto il circondario, benché non si tratti di una gita breve. Come mi verrà raccontato al rifugio, la base piú vicina dista in linea d'aria 16 km e si trova a 1000 metri di quota; ciononostante quest'anno la gita è stata fattibile - in piena esposizione sud - fino al 15 maggio. Dai laghi superiori, invero piuttosto a corto d'acqua, con breve risalita guadagno il rifugio, posto sullo spartiacque a guardia del ramo meridionale della Zadnjica.

Prima di affrontare la lunga discesa di 1500 metri che le mie gambe temono moltissimo, decido di sostare al rifugio in attesa che la veemenza del sole si acquieti e, visto che ci sono, decido anche di aderire al piatto di «Makkaroni» che il menú propone. Come companatico un litro di birra, tanto in discesa si sa che tutti i santi aiutano. Stupisco dell'inglese perfetto sciorinato dalla ragazza che mi serve: questo d'altronde non è qui un fatto raro fra i giovani (gli individui di una certa età, invece, tipicamente si destreggiano con il tedesco). Penso inevitabilmente all'Italia, e a come gli individui che escono dalla nostra scuola odierna uscirebbero impietosamente stritolati nel confronto. Altro confronto con la madrepatria: con il conto di 9.60 euro che mi viene portato da noi, pur con tessera del CAI, forse avrei rimediato a malapena il bere.

Durante la discesa ho tutto il tempo di ammirare il lungo e dirittissimo couloir innevato che dalla Luknja si trascina fin poco sopra i 1000 metri. Arrivo alla bici un po' sbattuto dalla discesa, e l'aria in effetti dev'essere rivelatrice se due turisti, padre e figlia appena arrivati in camper dalla Francia, mi si fanno incontro con una cassa di albicocche e pomodori di produzione propria, invitandomi ad attingere liberamente. Un bagno nell'acqua limpidissima della Krajcarica, prima del saluto a questo meraviglioso anfiteatro di montagne.

Scendendo per la valle dell'Isonzo, il tanto decantato filo d'acqua verde smeraldo non mi incanta poi tanto quanto le montagne che, volgendosi indietro, si fanno sempre piú imponenti e fulgide nella luce della sera. Il Triglav, ben celato dalle sue guardie del corpo, è l'ultimo a svelarsi. Supero la valle della Koritnica, che scende dal Predil; indi Bovec, donde una funivia sale in tre tronconi, con balzo di 2000 metri, al monte Canin. Secondo le indicazioni di Francesco del Montasio, vi sono progetti di un collegamento con gli impianti di Sella Nevea che, prolungati verso l'alto, aprirebbero anche una possibilità allo sci estivo.

A Zaga lascio l'Isonzo per risalire l'appartata valle dell'Ucja. Non incontrerò piú un'automobile fino al mattino seguente, anche perché la frontiera rimane chiusa dalle 22 alle 8 (e ancor piú fuori dalla stagione estiva). La strada sale molto piú decisa di quanto previsto dai calcoli: questo perché dopo la dogana slovena, arrampicata oltre i 700 metri, vi è una discesa fino ai 562 metri della postazione italiana. Durante la discesa incrocio le ombre di alcuni ciclisti attardati. Segue il paese di Ucja, o Uccea che dir si voglia; unico segno di vita un cane che abbaia. Molto piú popolata di vita selvatica la susseguente fitta boscaglia entro la quale trascorre la salita verso la Sella di Carnizza. Nel buio incipiente, questo tratto mi pare interminabile, ed è con un certo sollievo che vedo aprirsi la prateria sommitale, punteggiata dei caratteristici stavoli, antichi ripari dei pastori che salivano dalla Val Resia del cui territorio la zona fa parte. Ora alcuni stavoli sono stati riattati a fini di villeggiatura. In uno di essi una scala senza cancello conduce a un terrazzo riparato, il che mi evita di piantare la tenda. Qui non c'è nulla dell'animazione notturna della Luknja; solo un nero di pece e il verso della civetta. In questo posto di frontiera che chissà quante storie di contrabbandieri e di disertori e di profughi potrebbe raccontare mi sento lontano anni luce dal mondo.

09. Sella di Carnizza - Trieste (153 km, 750 m)

Come sempre accade nei luoghi conosciuti per la prima volta al buio, la luce viene a banalizzare tutto ciò che era sembrato strano, misterioso, inspiegabile. Si tratta però di una luce malata, il tempo è ritornato uggioso, con le solite nebbie impigrite che tagliano a metà ogni montagna. Visitata la chiesetta di Sant'Anna, ritorno verso un'Ucja ancora lontana dal risveglio, e qui svolto verso il Passo di Tanamea, porta per la discesa nella valle del Torre, che sbuca a Tarcento. A Pradiélis, la prima frazione che si incontra, una probabile retaggio del terremoto: una moderna chiesa in cemento vicino al campanile antico e arditissimo; bizzarrie del destino. A Nimis visito l'antica pieve di San Gervasio e Protasio; dopo la salitina del Monte Croce seguono Attimis e Faédis, dove mi fermo a fare colazione. Mentre addento l'ottima pizza del Forno di Nonno Elio, passa per la piazza un signore con una cassettina piena di ovuli dal gambo dorato; lo prego di lasciarmi ammirare questo splendido fungo che finora ho visto soltanto in fotografia.

Scelgo la strada di Spessa, dove tanti anni fa, in occasione di un San Silvestro in casa di un amico, vidi e conobbi le attitudini dei locali: giro di bianco, poi tutti alla messa mattutina, indi nuovo giro di bianco. Cosí incorniciato con perfetta simmetria, il rito acquista in sacralità. In effetti, mano a mano che passano i km la presenza vitivinicola si fa sempre piú pressante. Passata una frazione dallo strano nome Noax, arriva Corno di Rosazzo, dove ogni via porta, accanto al nome ufficiale (cartello bianco), un nickname (cartello giallo, meno impersonale) in sintonia con la realtà e le aspettative locali. Cosí, laddove il bianco dice Gramsci o Garibaldi, il giallo dice Riesling, o Traminer. Oppure Tocai - come sarà andata a finire poi la vertenza con gli ungheresi per la paternità del nome? A Capriva, patria dei miei amici per due ore, cominciano ad apparire anche le tipiche frasche. Gorizia è ormai alle porte; per arrivarci bisogna attraversare un Isonzo limaccioso e lercio che non sembra nemmeno lontano parente del filo d'acqua freschissimo e purissimo e verdissimo abbandonato 70 km piú a monte.

Seguendo le indicazioni, arrivo alla Piazza Transalpina, divisa in due dal confine di Stato; accanto a un cippo posto in mezzo al rettangolo della piazza, dei bambini hanno dipinto un luminosissimo Sole della Pace. Ai pedoni è comunque concesso di passeggiare liberamente per la piazza, almeno fino all'edificio posto dall'altra parte, che è poi la stazione ferroviaria di Nova Gorica. Uso un po' la piazza come velodromo per assaporare la strana impressione di sentir parlare, lungo metà della circonferenza, praticamente il dialetto di casa mia, e per l'altra metà una lingua del tutto incomprensibile.

Sotto la cappa dell'afa, imbocco la strada del Vallone che percorre, proprio a ridosso del confine, l'arida contrada che, sopra Monfalcone, si apre improvvisamente alla vista del mare. Lungo costa, fra orde di bagnanti in macchina e in motorino che si contendono i singoli metri quadri di spiaggia, arrivo alla sempre amata Trieste, che non frequento piú con l'assiduità dei tempi in cui vi studiava mia sorella. Tra l'altro, senza volerlo né mai averci pensato, in nove giorni ho simbolicamente riempito - forse non proprio per la strada piú diritta - quel buco Marter-Trieste che l'anno prima avevo lasciato nel mio giro d'Europa concedendomi una mattina di treno.

Cadore

01. Monguelfo - Lavaredo (48 km, 2750 m)

In una finestra libera all'inizio di settembre, riparto per le Dolomiti. Obiettivo: calpestare un poco quei monti di Sesto la cui unica conoscenza si limita, da parte mia, a una passeggiatina fatta ancora da bambino sotto le Tre Cime. Raggiungo in treno Monguelfo, per poter attaccare senza indugio la prima salita, quella di Prato Piazza. Se il paese è bello, la cassiera del supermercato vicino alla stazione è spettacolare, una di quelle ragioni per cui si sarebbe disposti a interrompere un viaggio già al chilometro zero - ma cosí non avviene.

Uscendo dal paese, considero come dalla precedente avventura non siano passati che dieci giorni, ma la magica atmosfera di settembre - strade deserte, sole discreto, natura come in attesa dell'attesa - si è già pienamente instaurata. La salita di Prato Piazza non è come la fanno temere i dati riportati sull'Atlante del Touring: essi si riferiscono probabilmente a un tracciato anteriore, ora soppiantato (tranne negli ultimissimi metri) da una tranquilla strada asfaltata a comodi tornanti. Dal pratone sommitale, sul quale si erge il gigantesco hotel «Hohe Gaisl» si sale poi a piedi, con rilassato tracciato turistico, al Picco di Vallandro, dirimpettaio della ben altrimenti imponente Croda Rossa, coi suoi valloni glaciali, bipartiti da uno zoccolo roccioso che sale fino a saldarsi al temibile paretone di roccia marcia, banco di prova per gli amanti della croda «non ripulita».

Il panorama di vetta è all'altezza della sua fama. Il Picco fa parte, del resto, di quella serie di belvederi dolomitici che, tutti protesi verso nord, offrono da una quota relativamente modesta (2800 metri o poco piú) un giro d'orizzonte nettamente bipartito: per metà roccia dolomitica, per metà costoni verdi terminati da cime nevose. Una cornice ideali per godermi il mio pacchetto di sfogliatine protette dal loro esclusivo Coperchio Salvasfoglia, protetto a sua volta da Patente USA n. 6033699. Alla bici, mentre addento un poco di salame privo di qualsivoglia patente vedo sfilare il plotone di militari che già avevo incrociato durante la salita, tutti gravati dal peso di mitragliatori ed apparecchi radio. Poco piú un là, invece, un ragazzo che cammina sulle stampelle, afflitto da una forma di rachitismo, discorre con un uomo che sta raggiungendo in carrozzella una favolosa auto decapotabile. L'uomo gli descrive, con perfetto accento romano, tutto quello che è in grado di fare nonostante il suo handicap: non solo il bolide, ma anche la barca a vela e altro ancora. Il giovane si esalta «mamma, quando potrò avere anch'io una macchina come quella e una barca a vela?»

Senza sussulti la discesa per i tornanti militari verso la valle di Landro; nella metà inferiore, dopo un cancello per il bestiame, la strada diventa in parte asfaltata, e sbuca a poca distanza dalla locanda Ploner di Carbonin. A tratti severa la risalita verso Misurina, serrata tra i gruppi del Cristallo a destra e del Monte Piana a sinistra. Raggiungo il paese all'imbrunire: su una panchina lungo il periplo pedonale del lago spiego tutta l'attrezzatura per la cena e, senza dar tempo alla digestione di iniziare, mi impegno subito sulle ripidissime rampe della strada per il Rifugio Auronzo. Dopo un tratto in contropendenza che porta alla postazione del pedaggio, inizia l'ascesa finale, con pendenze sempre attestate sul 14-15%, finché non ci si trova sulla verticale del Rifugio Auronzo, e dei suoi immensi finestroni illuminati. Dato che le adiacenze del rifugio sono infestate da un cane alquanto tignoso, decido di andarmi ad accampare alla piccola cappella sotto la Cima Grande di Lavaredo.

Pensare «tanto non troverò nessuno» è la maniera migliore per far materializzare le figure piú disparate. Periodicamente si materializza nella nebbia lo sferragliare di una cordata di ritardatari, reduce da una qualsiasi delle tre cime. L'evento però si fa via via piú raro; quando stendo il sacco a pelo davanti alla cappella tutto sembra veramente precipitato in una quiete definitiva ed insindacabile. Tempo di fare questo rilievo ed ecco arrivare con gran fragore un convoglio di camionette coi lampeggianti accesi; di lí a poco la mia cappella è circondata dalla torma vociante del soccorso alpino di Monguelfo e dei carabinieri di Auronzo chiamati a soccorrere due tedeschi rimasti impigliati sulla normale alla Grande. Inoltre c'è una macchina senza padrone su al parcheggio piú altro sopra il rifugio, e non è detto che sia quella dei germanici. La notte si preannuncia movimentata. Il paretone della Grande viene illuminato a giorno dalle fotoelettriche. Si ingaggia una gara a chi urla piú forte il nome «Steinbach»: dovrebbe essere il capocordata. A turno i reduci dall'urlo selvaggio scaricano la gola dalla fatica mormorando sottovoce: mi fa pena quel povero diavolo che dorme sul materassino... ma dormirà poi per davvero?

No che non dorme il povero diavolo. Ma dormirà tra poco, e che bene che dormirà! Merito dell'ingegno del signor Steinbach in persona, che ha l'idea di rispondere ai richiami dei lampi di flash, cosicché ancor prima di mezzanotte la squadra dei quattro è di ritorno con la preda, che permettono ai soccorritori di localizzarlo, ben in alto lungo il tracciato della via normale. Ben presto la variopinta compagnia si dilegua; in questo strano luogo sospeso fra la grande parete scura e le lontane luci di Auronzo rimane solo il materassino con sopra quello che non si sapeva se dormiva, ma ora non ci son dubbi che dorme.

02. Lavaredo - Rif. Berti (ca 2100 m)

Di buon mattino salgo, attraverso i laghetti, alla cresta dove dovrebbe sorgere il rifugio Pian di Cengia, che però non si svela mai. Questa mulattiera è un vero campo di battaglia per ogni tipo di sportivo estremo: vi sono le insegne chilometriche della Drei Zinnen Marathon, vi sono i soliti ciclisti tedeschi che tentano goffamente di scenderla in sella; ma la maggiore ammirazione va al conducente di quel trattorino i cui chiari segni si vedono chiaramente sui tratti di infida ghiaia. Raggiungo la Forcella della Croda dei Toni e di lí scendo a ripide serpentine verso

Mentre su uno spuntone che guarda verso la valle armeggio con il telefono, vedo un'ombra che mi si fa incontro. È il signore di prima che mi vuole regalare un cordino e un moschettone che gli avanzano. Con questi, mi assicura, in quarant'anni ha fatto e rifatto tutte le ferrate. Senza badare a casco, imbragatura, doppio moschettone; per non parlare del dissipatore. Questa lui non l'ha mai capita, per lui si dice dissipatore soltanto colui che dissipa la proprie sostanze.

03. Rif. Berti - Lavaredo (ca 2700 m)

C'è un punto, sulla via Roghel, dove ringrazio il dono della sera prima: è quello in cui tento di forzare un passaggio verticale di sole braccia; mi mancano le forze e devo riscendere. Operazione che si compie con l'animo molto piú tranquillo se si è attaccati da un qualcosa di saldo al filo. Per il resto, in un'ora e venti arrivo alla forcella dalla quale mi si dischiude la vista del recondito Cadin di Stallata, in ombra, con la linea irrequieta delle Marmarole illuminate sullo sfondo. Sceso, ancora lungo un po' di ferraglia, nel catino, sosto lungamente tra luce ed ombra, piú dalla parte di quest'ultima, a fare colazione ed ammirare i raggi che scendono dalle portentose canne d'organo di Cima Bagni. Appare incredibile l'oblio in cui versa questa cima in rapporto alla sua mole, complessità e bellezza. Dietro di me, in pieno sole, la multicolore parete del monte Popera.

Mi siedo per fare colazione poco sotto la linea appena appena sfocata di demarcazione tra luce e ombra, sotto la parete compatta e colorata del Monte Popera, già inondata dal sole. Sotto di me, deserto e uniforme il circo dell'Alto Cadin di Stallata, segnato dal solo punto rosso del bivacco. Qui, per un nonnulla al riparo dalle colonne di luce scoccate dalle canne d'organo di Cima Bagni, per un attimo socchiudo gli occhi e lascio passivamente che il mio essere elabori, ancora una volta, uno di quei momenti strani e indefinibili in cui la sovrabbondanza di grazia cui talora siamo esposti ci porta, per circolarità, o per coincidentia oppositorum, sull'orlo del baratro di interrogativi inquietanti del tipo: che cosa ho fatto io per meritare tutto questo? Durerà? Quanto durerà?

Salgo alla cengia; devo continuamente sostare ad ammirare la mutevolezza del paesaggio; le successive metamorfosi degli aguzzi Campanili e Fúlmini di Popera, la gran mole di Cima Bagni, il progressivo apparire della Cima de Ambata e della Croda di Ligonto. Studio il percorso dell'ardita Cengia Alta di Cima Bagni che porta al remoto Cadin del Biso. Ma anche la Cengia Gabriella sulla quale mi trovo non è da meno: un momento magico è quello in cui il severo tracciato roccioso viene a contatto col sommo di un pendio di prati verdissimi, concluso da un'esile crestina ornata di due campanili, che per un momento vengono a incorniciare il lontano Antelao, che spicca al di là degli aridi dorsi delle Marmarole. Potrebbe essere un'ottima foto di copertina per un libro sulle Dolomiti.

In un tratto molto esposto incontro l'isterico sferragliare di un gruppo di tedeschi: tutti presi dal lavorio intorno ai loro doppi moschettoni, non hanno nemmeno tempo di alzare il naso dal cavo metallico. Mi chiedo se un tale andare «con il paraocchi» non sia in definitiva meno sicuro, ad esempio, del mio, che pure in questo tratto sto procedendo «di conserva», con il mio sottile moschettone, ma almeno ho tutto l'agio di guardare che cosa succede davanti, dietro, a destra e a sinistra dei miei piedi e non solo di quelli. Quando finalmente si accorgono di me, i tedeschi hanno un istintivo moto di stupore o quasi disappunto. Girato un ulteriore sperone, capisco il perché: appaiono infatti la muraglia della Croda dei Toni e l'alta val Giralba, al sommo della quale se ne sta appollaiato, come dice il Berti, «nella sua bolgia dantesca», il Rifugio Carducci, dal quale i tedeschi sono appunto partiti. Io non sto nemmeno a raggiungerlo, traversando piú in basso in direzione di Forcella Maria, situata sul lato opposto della valle. Da quel punto scende un'avventurata traccia che mette nell'altrimenti inaccessibile testata della Val Gravasecca, per poi risalire su un immane ghiaione alla forcella sulla quale campeggia il rosso Bivacco De Toni. A Forcella Maria lascio una composita e vociante compagnia, con al seguito vari marmocchi, e la cui lingua è uno strano misto di italiano e tedesco con inflessioni che mi sembrano quasi francesi. Mi sfidano a capire la loro provenienza: sono gardenesi. Scambiamo qualche battuta sulla magia di queste montagne: figurati, mi dicono, siamo incantati anche noialtri, cresciuti all'ombra del Sella e del Sassolungo...

Mentre faccio acqua nella depressione piú bassa toccata dal sentiero, franette di sassi mi avvertono del sopraggiungere della comitiva. Il boss dei gardenesi mi urla di fargli avere notizie; in effetti la vista del vallone da risalire è piuttosto repulsiva. Si riesce ad aver ragione della ghiaia mobile soltanto mantenendosi al margine della parete, cosí da potersi abbrancare sulle rocce. È con un certo stupore che, quando in cima alla risalita mi fermo presso il Bivacco De Toni ad asciugare i teli della tenda, sento avvicinarsi le voci dei bambini invero piú esaltati che non impauriti dal cimento.

Avevo parlato loro delle gallerie del Paterno e, dato l'interesse, sono in dubbio se attenderli per mettere a disposizione della comunità la mia lampada frontale. Decido poi di proseguire per vedere come e quanto procedono. Costeggiato alla base tutto il bastione della Croda dei Toni, torno alla forcella del mattino precedente, e di lí salgo il Collerena, l'unica cima escursionistica del circondario. La luce pomeridiana sta cavando dalle rocce dolomitiche l'apice della bellezza. Il paesaggio che mi circonda non ha un solo punto debole; non uno spiraglio è concesso alla banalità. Ancora una volta mi sento sopraffatto da tanta meraviglia, avrei bisogno di qualcuno con cui scambiare un: guarda qui, guarda lí, o anche semplicemente qualcuno con cui non scambiare un bel nulla. Sono irrequieto ed apro nervosamente una pagina a caso del Berti:

[...] a guisa di ventaglio aperto, di lama arcuata, di vela dispiegata al vento, con tutto l'orlo finemente trapunto, squaderna la sua gloria di guerra la Cima Undici, montagna divina...
          «...posta ha in quel sito
di propria man quella montagna Iddio.»

Frugo febbrilmente nell'Indice delle Citazioni, posto in bella evidenza all'inizio del volume, dove di solito i burocrati dei nostri giorni mettono le definizioni del primo e del secondo grado. Si tratta del Paradiso Perduto di Milton. Leggo ancora avanti:

Su tanta nudità primordiale, religioso silenzio. - Nel centro della vasta pietraia, sperduto, proprio là dove si sprofonda la forra, un dadolino bianco: il rifugio Zsigmondy-Comici. - Su tutto, il respiro dolente delle Crode consacrate dalla guerra.
E qualche battito d'ala: anime di morti che trasvolano.

E mi par già di sentire la gente che sghignazza, a sentire questa retorica. Ma c'è veramente da ridere di quello slancio ideale? Con cosa lo si è sostituito, con il falso in bilancio e lo sculettamento televisivo? L'Italia di queste crode era lontana anni luce da quella che si è venduta a Pontida e ad Arcore. Infastidito da questi pensieri chiudo il Berti e mi fiondo giú per gli sfasciumi del Collerena. Quando raggiungo la mulattiera verso Pian di Cengia sono investito da tergo da un festoso scampanio: si tratta dei gardenesi che sono già arrivati in forcella. Inverto la rotta per raggiungerli; si era infatti accennato al Paterno e voglio sondare se c'è necessità di mettere a disposizione i servigi della mia frontale. I bimbi però dicono, e forse non a torto, di aver camminato abbastanza, e in effetti i nervosetti saliscendi della ferrata richiedono qualche sforzo supplementare. Si fa lo slalom fra forcellette ed esili pinnacoli - nella primavera del 2005 si apprenderà di un notevole crollo avvenuto fra di essi. Il balzo finale verso la cima è facilitato, nel primo severo risalto, da delle attrezzature. Sulla vetta, un monumento ricorda il sacrificio di Sepp Innerkofler. Non oso nemmeno aprire il Berti in questo momento, altrimenti potrei far notte. In effetti le Cime di Lavaredo, sulle quali da qui si gode d'un colpo d'occhio privilegiato, si mostrano già nella luce della sera. Scendendo per un canale obliquo attrezzato, raggiungo il sinistro tunnel, che esploro con un tantino di apprensione, tormentato dal pensiero che la frontale possa per qualche motivo spegnersi. Con sollievo mi precipito giú per i ghiaioni che scendono in direzione del Rifugio Locatelli, dove a stento mi faccio strada in mezzo a una vera e propria bolgia, tanto da arrivare a salutare i gardenesi al loro tavolo. Per un non-prenotato qui rimane a malapena l'aria da respirare. Non mi resta che dirigere verso la bici, che degli escursionisti fiorentini di passaggio mi garantiscono esistere ancora. Sí, mi dicono, stamattina il prete ha ben un po' imprecato quando si trattava di celebrare la messa e se l'è trovata lí legata giusto a lato della porticina... A sorpresa, al di là di Forcella Lavaredo regna un fitto nebbione che lascia stento trapelare la luce dell'omonimo rifugio, dove peraltro causa ora tarda mi viene negata una qualsiasi chance di ristorazione. Poco male: sotto la strada sento gorgogliare dell'acqua che mi permette di cucinare senza eccessivi patemi sotto il portico della mia cappella mentre, al solito, trascorrono fugaci nelle nebbie le sagome degli ultimi sferraglianti ritardatari. Sono curioso di vedere come andrà stavolta con la vita notturna ai piedi delle Tre Cime. Ma non succede nulla, e la ruota dei pensieri, dopo aver girato liberamente per tutta questa giornata cosí intensa, finalmente comincia a frenare sotto l'effetto di un qualche attrito: quello efficace del sonno e della sazietà, ma anche quello non meno efficace prodotto dal silenzio, dalla frescura e dall'umidità della notte.

04. Lavaredo - Sella Ciampigotto (130 km, 2650 m)

C'è un singolare silenzio, nei miei vecchi appunti, su questa tappa, un silenzio protratto dalla base delle Lavaredo fino al Passo del Pura, in Friuli. Confesso che mi tocca accingermi a riempire il buco con l'atlante stradale del Touring alla mano. Non che sia stata una tappa poco interessante, semplicemente ha avuto il torto di capitare entro un giro piú interessante di lei. Detto questo, torniamo in cronaca diretta, come se niente fosse. Sceso a Misurina, mi concedo una breve divagazione fino al Passo Tre Croci, per il semplice motivo di non esservi mai stato. Non che questa breve visita riempia il buco, perché di certo il Tre Croci va meglio preso dall'altra parte. Il cielo è un poco neutro e quindi anche qui alle pendici del Cristallo non accade nulla di paesaggisticamente memorabile. Piú godibile la planata su Auronzo, dapprima, fino a Palus San Marco, piuttosto ripida, con scorci sul misterioso rovescio della Marmarole. Ad Auronzo sostanziosa spesa, prima di riavviarmi per Cima Gogna e andare a incrociare, sulla strada di Lorenzago, il percorso di «Friuli». Stavolta punto però al Passo della Mauria, che l'altimetria vorrebbe banale in confronto alla vicina Sella Ciampigotto, mentre io non percepisco grande differenza. Dal valico, soddisfatta la curiosità di due giovani in moto che vogliono provare a sollevare la mia bici, mi butto in discesa verso Ampezzo, incontrando anche la galleria del Passo della Morte, lunga 3 km, prima dello strappo di Sella Corso. Lungo la successiva planata sulla cittadina decido di infrattarmi sulla stretta strada del Passo del Pura, una salita in piena esposizione a sud, proprio di quelle che il buon consiglio suggerirebbe di evitare nella calura di un pomeriggio di estate.

Senza eccessivi patemi raggiungo tuttavia l'appartata insellatura, dove vari indizi sembrano parlare di ben altra frequentazione rispetto al vuoto totale che vi trovo oggi. Stupisce in particolare, poco a nord del valico, il Rifugio Piaz, la cui dimensione sembra spropositata rispetto a quella che può essere la frequentazione dei monti Tinisa e Sesilis che circondano il valico. Scendo verso Sauris avendo in bella vista gli aperti prati del Pieltinis, dove in un recente passato avevo tanto faticato senza nulla vedere. Al lago trovo una spiaggetta spoglia che, partito l'ultimo pescatore assieme alla moglie, mi rimane in esclusiva per un bagno. Segue una successione di orride gallerie che portano alla diga; dopo un tratto lungo l'altra sponda, la strada comincia a risalire, per guadagnare Sauris di Sotto con una stretta serpentina su prato aperto. Una giovane ragazza mi supera con il solo leggero fruscio di una bici da corsa; la volontà sarebbe quella di rimanere in sua vista, tuttavia come diceva il poeta, spesso a risponder la materia è sorda, specie quando la materia si concretizza in tre pesanti borse attaccate al portapacchi. Cosí la gradevole effigie si allontana inesorabilmente. Sopra il paese ulteriori tornanti mi riportano all'attacco del temibile traverso cementato. A Sauris di Sopra, raffrontando il ricordo, vecchio di soli venti giorni, di un formicolio di eletti passeggiatori, con il vuoto assoluto che mi vedo d'intorno, ho tutta la misura di un'estate che se n'è ormai andata, e della giornata che sta per andarsene allo stesso modo. Partono gli ultimi contadini dai campi, informandosi su quanti chili si nascondano nelle mie borse; un unico e ultimo camper lo incontro piú su, in quella che avevo battezzato Casse Déserte, intento a scendere con la prudenza del caso gli esposti tornanti al 18%: impressionanti nello scendere, e poco meno nel salire. Quando transito sulla sella gli ultimi raggi di sole si stanno staccando dai ghiaioni del Bivera. Fuori da Casera Razzo il casaro spegne l'ultimo fuoco della sera; al Rifugio Fabbro arrivo, come l'altra volta, da ritardatario; riesco ugualmente a lucrare l'identico menú. C'è però una cuoca supplente, Elena, una giovane traboccante di entusiasmo e spirito positivo, ancor piú quando si siede sul divano assieme al suo ragazzo appena salito dal Cadore, e al gestore, uniche tre figure a sostituire il chiassoso affollamento dello scorso passaggio. Tutto è dileguato: niente turisti, niente cameriere d'animo generoso, niente torelli. Mi trattengo un poco a chiacchiera e approfitto per chiedere informazioni sulla Terza Grande le cui pareti mi avevano affascinato durante la discesa della Val Frison. Non ne cavo fuori granché, a dire il vero: solo la vaga notizia che di recente una comitiva del CAI avrebbe impiegato l'intera giornata avere ragione della montagna. Non mi scoraggio, voglio sperare che le cose siano in realtà piú semplici. Per la notte, mi sistemo davanti a una delle numerose baite di legno che punteggiano l'altipiano, fra pascoli di mucche e recinti di cavalli.

05. Sella Ciampigotto - Biv. Antelao (58 km, 4100 m)

Mi sveglio per caso alle cinque meno un quarto; curiosando fuori dalla tenda mi appare la sagoma nitida della luna calante, circondata da uno scintillare di stelle frizzante almeno quanto l'aria; il tutto sembra invitare a una sollecita partenza, e so benissimo che quando gli indizi sono cosí eloquenti non bisogna in nessun modo tirarsi indietro. Trascorro silenzioso per l'altipiano integrando la luce della luna con quella della frontale, anziché con la dinamo che, temo, potrebbe svegliare i cani tignosi di Casera Razzo. Sotto Forcella Lavardêt, esperto ormai dei luoghi, non manco la sterrata per Casera Mimoias, che attacca con infide sabbie mobili pronte a ingoiare tanto le ruote quanto la flebile luce della lampada. Dopo alcune gagliarde rampe dove trovo dolce e decoroso lo spingere, un tranquillo tratto ondulato porta a girare il costone, dietro al quale occhieggia un'ulteriore rampa dall'aria decisamente repulsiva. La scelta di legare la bici si conferma azzeccata poco piú sopra, là dove un torrentello all'apparenza innocuo ha scelto il tracciato della strada quale suo nuovo letto, con gli effetti che è facile immaginare.

Un sentiero risale per lungo tratto lungo il greto ormai secco; indi si inoltra per amene conche rugiadose guardate, dalle bizzarre pareti calcaree della Cresta di Enghe. Se ad agosto avevo con me il foglio Tabacco al 25mila della zona, oggi sono costretto a procedere seguendo i ricordi e gli appunti carpiti alla carta del rifugio Fabbro. L'importante era non mancare il traverso che da Forcella Mimoias conduce all'ultimo strappo sotto Forcella Oberenghe. Qui calzo gli scarponi, giusto in tempo per andarmi a perdere in un fitto groviglio di mughi: punizione per non aver creduto all'invitante traccia che, poco sotto, sul lato Sappada, aggira i vari avancorpi prima di puntare decisa su per la Terza. Con percorso ingegnoso e pittoresco, il sentiero sembra farsi beffe della parete apparentemente inaccessibile, superandola praticamente con le mani in tasca. Serve tirarvele fuori giusto nell'ultimo camino, al sommo del quale appaiono, improvvise e inattese, le insegne di vetta: croce e madonnina. Sono passati solo quaranta minuti dal ritrovamento della retta via, e non sono ancora le nove del mattino. Sosto dunque un'ora buona, dividendomi fra il panorama e il libro di vetta, che data al lontano 1989, e dà l'impressione di poter ancora durare. È stata durissima, ma ne valeva la pena: finalmente sono arrivata in cima alla mia montagna preferita: la Sfinge recita una nota del 15 agosto 1998. Ho fatto in seguito ricerche per trovare riscontri a questa Sfinge, ma senza alcun esito. Forse è bene che questo della Sfinge rimanga un enigma.

Tutt'altro che enigmatico è invece lo splendido panorama della Terza, nel quale si squaderna e si riassume tutta la mia estate. Doveroso cominciare dall'Altissima, prima sia come anzianità che come lontananza: nonostante i 125 km frapposti, riesce a svettare proprio sopra il maggiore dei Cadini di Misurina, entro una finestra inquadrata fra il Cristallo e la Croda Rossa d'Ampezzo. Vi è anche quale conflitto fra le "sorelle", ovvero fra le varie cime dell'estate: ad esempio il Gran Pilastro è nascosto dalla Croda Rossa di Sesto. In effetti, sono proprio le Dolomiti di Sesto e di Auronzo a dominare, con la Croda dei Toni e il gruppo del Popera su tutto. Piú sotto, le borgate del Comelico, fra le quali spicca per l'originale posizione il paesino di Danta di Cadore, posto al sommo di un grande pratone con lo sguardo rivolto proprio alla Terza. In mancanza di macchina fotografica, prendo qualche appunto, di fatti oppure di domande, a cui rispondere a casa, con carta e righello. Leggo ad esempio sul foglio: Schiara dietro Cridola. Montasio che somiglia a Cimadasta. Poco a sx spunta qualcosa: Mangart? Scoprirò che la risposta è: no, Triglav, ma poco male, trattasi pur sempre di un'altra delle sorelle della famigliola.

Nella permanenza sopra questo straordinario belvedere ho modo di apprezzare appieno l'acuto elogio che Edward Whymper, parlando del Gran Tournalin, tributo ai panorami che si godono dalle cime di mezza altezza, in confronto a quelli offerti dai picchi piú eccelsi: «Coloro che, pur desiderandolo, non possono permettersi di scalare le piú alte cime delle Alpi possono consolarsi pensando che, la maggior parte delle volte, esse non offrono queste viste che lasciano nella memoria una profonda e duratura impressione. Senza dubbio, molti dei panorami che si scoprono dalle vette piú elevate sono meravigliosi; ma mancano loro quasi sempre quei punti isolati e centrali che dal punto di vista estetico hanno il piú grande valore. Gli sguardi errano e si perdono su una moltitudine di oggetti e, distratti da troppa dovizia, corrono dall'uno all'altro; e, trascorsi quei felici istanti, che sempre fuggono con troppa rapidità, si lascia la vetta con un'impressione che raramente è durevole, poiché generalmente assai vaga. [...] Secondo me, i punti piú favorevoli per godere di un paesaggio di montagna sono quelli la cui elevazione è sufficiente per permettere da valutazione delle profondità e delle altezze e che, pur offrendo punti di vista estesi e variati, non abbassano tutto ciò che li circonda al livello dello spettatore». Oltre che Whymper, tuttavia, si parva licet, rievoco anche le mie personali riflessioni, già esposte nel paragonare il panorama dello Tschigot a quello dell'Altissima.

Scoccata 'l'«ora di vita densa» passata in vetta, e riposto il libro, addivengo però a una inquietante scoperta. Durante tutto questo tempo trascorso con la messa a fuoco che si palleggiava fra il foglio scritto e l'infinito, senza alcuno stadio intermedio, non mi sono assolutamente avveduto della cimetta che sta poco discosta dalla mia, a nord, e sembra sovrastarla di qualche metro. Sono dunque su una falsa cima, su un surrogato? La nudità dell'ometto che sovrasta il cocuzzolo concorrente, a confronto della magnificenza delle «infrastrutture di vetta» presso le quali mi trovo, sembrano screditare l'ipotesi, tuttavia potrei essere su uno di quei punti che di tanto in tanto vengono arbitrariamente promossi a «cima turistica». L'aerea cresta che congiunge i due punti culminanti sarebbe sufficientemente repulsiva da farmi deporre ogni velleità se non fosse che, proprio nel momento in cui mi accingo ad archiviare la questione e a tornare alla bici, vi scorgo dei grossi bolli rossi. Divento curioso, e armeggio caparbiamente per una ventina di minuti nel primo friabile camino. Quando ho catalogato come inaffidabili tutti gli appigli, scorgo però una cengia che permette un aggiramento. Arrivo a un gendarme che può essere vinto solo superando in opposizione una sottile lama di roccia. Anche qui l'onestà mi impone di non tacere una decina di minuti di penose prove e riprove: alla fine decido di passare, ma il viandante che volesse seguire i miei passi sappia che può salire con baldanza: la lama in realtà è saldissima. È il nostro animo, quando ci troviamo ad affrontare l'ignoto in solitudine, a non essere altrettanto saldo - circostanza questa, d'altronde, che io sono ben lungi dal deprecare, convito come sono che la cosiddetta «fifa» mi abbia salvato, e forse mi possa ancora salvare, da piú di un guaio. Piú friabile, invece, anche se meno esposta, l'ultima paretina che conduce all'ometto. Con mia sorpresa, i bolli rossi lo scavalcano con noncuranza, proseguendo verso nord. Seguendo un incosciente istinto di esplorazione prendo a seguirli lungo il bellissimo e articolato filo di cresta che prosegue in direzione delle Terze Media e Piccola; ragionando, però mi rendo conto che questo tracciato, sia che vada dritto, sia che poi pieghi a destra o a sinistra, mi porterebbe comunque in un punto alquanto lontano dalla mia base. Con il senno di poi (guida del CAI) quei bolli rossi segnano un percorso di terzo grado che affronta il paretone affacciato sopra la Val Frison.

Quando riguadagno, con grande sollievo, la madonnina, è trascorsa non meno di un'ora. A mente fredda, sottoscrivo in pieno le parole dei primi autori dell'attraversamento: la traversata si rivelò complessivamente abbastanza facile, nonostante lo spaventoso spettacolo della cresta. Se l'arrampicata fosse meno esposta, si potrebbe classificarla come facile. La sua caratteristica saliente consiste nella particolare ripidezza del terreno e dalla profondità dell'abisso sottostante. Traggo il passo dal volume Alpi Carniche e Dolomiti Friulane, edito da La Goriziana: un pregevole volume che presenta le ascensioni partendo dalla loro storia alpinistica. Nemmeno i libri, però, aiutano a capire quale sia la cima piú alta della Terza. La guida ufficiale del CAI passa la questione sotto un prudente silenzio. I primi salitori ravvisano che la differenza di altezza fra le due cime deve essere almeno di due o tre metri. Nell'attesa di mandare in vetta il geometra del comune di Resiutta (vedi piú sopra) per la verità definitiva che solo lui può scoprire, esporrò alcune mie considerazioni. Il lettore poco inclinato matematicamente può scansare saltando al paragrafo seguente; cosa che può fare, piú in generale, il lettore che non abbia esplicita volontà di perdere il proprio tempo. Il paragrafo che sto per inserire è infatti, una questione di puro rimuginamento tra e me e me, tanto per convincermi che i rischi che mi sono preso nella traversata mi hanno quanto meno portato da un'anticima alla cima, e non viceversa.

Teorema: la cima nord della Terza Grande è piú elevata della cima sud.
Dimostrazione: sia data una montagna posta a distanza d dal punto di osservazione, e sia R il raggio della Terra. Per effetto della curvatura, la montagna in oggetto «sprofonda» di un'altezza h rispetto alla tangente condotta dal punto di osservazione. Grazie al teorema di Pitagora, (R+h) 2= d 2 + R 2 da cui, con una piccola approssimazione, abbiamo h= d 2/(2*R). Che noia, dirà il lettore incauto che non abbia seguito il premuroso consiglio di saltare il paragrafo - d'altronde in tutte le storie a sfondo edificante succede cosí, che chi non segue i benevoli consigli ed amorosi finisce in qualche trappola oppure tagliola. Ma torniamo alla formuletta, perché dietro essa si nasconde una storia: essa origina da una foto che scattai dalla cima del Finsteraarhorn (4274), montagna che di proposito ho già nominato in questo racconto in quanto, con il suo panorama magnificamente dispersivo, fornisce meglio di ogni altra un controesempio alle teorie di Whymper - e una grande teoria ha bisogno di un grande controesempio! Dal Finsteraarhorn la cupola dell'Aletschhorn (4195) nasconde il fianco orientale del Monte Bianco fin sopra il Picco Luigi Amedeo (4470), anziché lasciargli campo libero già dall'assai meno ragguardevole quota di 3515 metri, come prescriverebbero i calcoli se il mondo che abitiamo fosse piatto nella conformazione fisica quanto lo è in quella spirituale. Nel caso dell'Aletschhorn la formula era in mirabile accordo con i dati sperimentali, ragion per cui quel giorno decisi di annettere la rotondità della Terra all'insieme delle conoscenze toccate con mano, o meglio - ricordando San Tommaso - con il naso. Nel caso della Terza Grande, la vetta nord, osservata dalla gemella, punta un ghiacciaio sullo Schobergruppe, il cui sprofondamento, data la distanza di 50 km, non dovrebbe superare i 200 metri. Se la cima nord non fosse piú elevata, dunque, la quota puntata sullo Schober non supererebbe i 2786 metri; difficile pensare che vi siano ghiacciai a quella quota, in pieno versante sud. Il teorema è dunque pienamente dimostrato e, corollario, io non ho rischiato di scavezzarmi il collo per niente.

Solo durante la discesa si ha modo di apprezzare appieno l'ingegno e la mirabile levità con la quale il sentierino riesce a vincere ogni difficoltà. La cosa bella è che continuo ad avere la montagna tutta per me; oggi la concorrenza si è levata decisamente tardi, e soltanto poco sopra la forcella incontro una comitiva di tre escursionisti con un cane. Ci fermiamo lungamente a chiacchierare; alla fine, sentito della mia novissima infatuazione per le Alpi Orientali, gli amici mi salutano con un convinto «arrivederci». I tre peraltro mi sconsigliano di seguire il mio piano di riscendere la Val Pesarina per impegnarmi nelle basse quote delle prime Prealpi sopra Pordenone: a detta loro, dopo esser stato qui, laggiú rimarrei deluso. Che fare, dunque? Durante la discesa rimugino su come impiegare il tempo residuo della giornata odierna e la successiva. Punto fermo: la sera dell'indomani devo trovarmi a Castelfranco per fare visita a una persona ricoverata in ospedale.

Tanto per cominciare, affretto il passo per non perdermi un ulteriore pranzo al Rifugio Fabbro. In effetti, nemmeno stavolta il cronico ritardo col quale mi presento è tale da farmi meritare l'esclusione dal desco. Davanti a un piatto di polenta, salsiccia e formaggio fuso (che, qualche km piú a est, in territorio friulano, si chiamerebbe frico), accompagnato da un litro di birra, elaboro una strategia coi fiocchi: tirare tardi il piú possibile a tavola, per poi passare il pomeriggio a passeggiare senza impegno per l'altipiano, oppure addirittura disteso a prendere il sole. Con la tranquillità dell'uomo che ha ormai tirato i remi in barca mi metto poi ad asciugare il materiale, un telo alla volta. Esaurita anche l'ultima goccia di rugiada, rientro a prendere un caffè, anche se è solo un pretesto per lasciare la mancia della quale prima mi ero dimenticato. Non l'avessi mai fatto. La mente corre a quanto feci la stessa operazione... dove fu... dove stavo andando... ah sull'Antelao... L'Antelao, dove sta? Sta giusto dall'altra parte della valle del Piave, e poco sotto la cima c'è un bivacco. Balen tremendo, come disse Manrico a Leonora. Se io ora mi precipitassi in fondovalle, a Calalzo; se di lí risalissi la Val d'Oten; se dal termine della strada, lasciata la bici, mi precipitassi su verso il Galassi e indi su per i lastroni inclinati, forse riuscirei a raggiungere il bivacco prima del buio.

Piccolo dettaglio: si tratta di un'idea realizzabile? Ma cosa importa. Per ora mi precipito sulla bici, e con quella giú per i tornanti in piedi di Ciampigotto. Strada facendo, elaboro una strategia, che è poi una successione di ultimatum: Calalzo alle quattro, l'attacco del sentiero alle cinque o poco dopo, il Galassi alle sei e mezzo, il bivacco alle otto. La mente è tutta posseduta dall'Idea e da poche e scarne sensazioni ad essa collegate: da una parte, il sollievo di averla avuta, forse all'ultimo minuto utile; dall'altra, la rabbia di essere tanto stupido da non averci pensato prima. In ogni caso, la corsa feroce contro il tempo procede, l'unica percezione che ho del mondo è racchiusa nel riquadro di asfalto che via via si parta davanti alla ruota anteriore. Alle quattro sono a Calalzo; il primo degli ultimatum è rispettato ma, proprio in virtú di ciò, il negozio di strada, un tantino in ritardo, è ancora chiuso. Tutto preso dal mio sacro furore, passo avanti. Eccomi alla fine dell'asfalto e all'inizio della sterrata di Val d'Oten. Qui in condizioni normali le imprecazioni si sprecherebbero; in questa specie di stato di esaltazione mentale, invece, paradossalmente, affronto con estrema sottomissione ogni perfidia del percorso. Dove entrambe le ruote si inabissano in mezzo al ciottolame bianco, o dove la ruota posteriore non riesce a far presa, spingo con estrema calma, per poi risalire in sella e recuperare appena possibile. Comincio perfino ad alzare gli occhi, per scoprire quanto mi sia di aiuto e di conforto l'indicibile suggestione dello scenario: la lunghissima pista bianca che scorre al mezzo di una fiumana di mughi, sulla quale scendono taglienti le ombre dal massiccio dell'Antelao, attorno al quale la valle ruota. Dall'altra parte l'arco delle Marmarole, che asseconda ed amplifica quello della valle, sembra invece affogato in un mare di luce.

Scendo di sella sulla soglia della Capanna degli Alpini, con maniere ancora un po' da invasato cerco il gestore e gli chiedo quanto tempo mi pronostica per il rifugio. Un'ora e mezzo, ma solleva dei dubbi per la bici. Figuriamoci se salgo con la bici, rispondo; è già un miracolo se, con questa strada, sono riuscito a farla arrivare fin qui. Ben, la bici de roe la ghe n'a doe aposta, se no 'n basteria una, mi fa quello. Grande Alpino! È conoscendo tipi come questo che si capisce come la guerra non potevamo che vincerla... La mia bici si trova ospitata, non senza onore, accanto alla sua moto, e alle 17.15 sono in marcia sul sentiero. Un'ora e dopo transito davanti al Galassi: ai pochi turisti che stanno prendendo il fresco di fuori, per non destare scandalo chiedo della forcella poco sopra. Senza cedere di un millimetro nell'andatura, affronto l'importuno ghiaione, indi il sistema di cenge che dà accesso alle Laste. Quando il mio viso improvvisamente si ritrova investito di raggi del sole, capisco che la battaglia contro il tempo è vinta, e all'improvviso smetto di combatterla. Con una calma grande solo come la concitazione delle ultime ore mi metto a delibare la magica salita per quelli che, nella luce carica della sera, mi appaiono come i gradoni di un tempio. Sono le 19.45 quando individuo il palo rosso che segnala la vicinanza del bivacco. Con grande sorpresa, da dietro la cresta, sento venire delle voci: non sarò solo stanotte.

Ricordate Pian di Cengia, il rifugio-fantasma cui praticamente ho girato intorno per due giorni, senza mai avere occasione di scorgerlo? I due che trovo sulla porta del bivacco ne sono proprio i custodi; da una vita si vedono di fronte questa montagna e ora finalmente si sono ritagliati due mezze giornate di libero - questo pomeriggio e il mattino dell'indomani - per permettere al loro sguardo, una buona volta, di compiere a ritroso il cammino abituale. A tal fine, si sono fatti supplire dai figli, cui giusto stavano telefonando, quando poc'anzi avevo sentito le voci, onde sincerarsi che tutto filasse liscio. Bene, mi rallegro che a Sesto/Sexten ci siano ancora famigliole di questa fatta, capaci di lasciare, diciamo cosí, mezzo incustodita la fontana dei soldi, per inseguire un ideale che soldi decisamente non ne produce. Di gente fatta cosí io purtroppo ne conosco poca.

Poi che siano personaggi fuori dal comune lo capisco conversando: lui è maestro di sci, lei è impegnatissima in gare di scialpinismo. Per parte loro, invece, sono sorpresi dalle mie calzature: per la prima volta in questa salita ho lasciato gli scarponi nelle borse e sono salito con i sandali che uso per pedalare, che dovrebbero essere adatti anche alla corsa in montagna. Provati già ieri nella parte inferiore della salita alla Terza, hanno superato brillantemente l'esame delle Laste dell'Antelao, sebbene la vera prova sia poi quella della discesa. La giornata finisce con un memorabile lavaggio dei denti sul filo della cresta: le luci di Cortina e di San Vito da una parte, le tenue luci di Misurina a diritto, quelle del Cadore dalla parte opposta. Neanche una toilette di lusso può competere. Il vento subito freddo comunque dissuade da lunghe soste contemplative: si va tutti a nanna, aggiornandosi alle sei dell'indomani.

06. Biv. Antelao - Castelfranco (149 km, 900 m)

I miei compagni sono ancora un poco sotto nell'ombra di un camino quando un mio urlo li raggiunge dall'anticima: affacciandomi in cresta mi sono trovato di fronte a una mezza forma di formaggio: il sole. Raggiungiamo insieme il vicino segnale di vetta. Il nostro eletto scranno si proietta gigantesco sui rilievi dall'altra parte della valle. Sembra quasi che le grandi cime del Cadore rispondano in coro alla chiamata del Sole: ma, pur nell'armonia dell'insieme, si riesce a discernere bene il timbro e l'individualità di ciascuna voce. Il Pelmo, divino seggiolone, valorizza in questa luce le sue pregiate striature orizzontali; il falegname vi ha profuso del proprio meglio. La Tofana di Rozes mette in mostra il suo prorompente nucleo rosso, incorniciato fra pilastri incombenti. La Marmolada gioca invece con i colori chiari, e potrebbe essere un gelato alla crema con sopra la panna montata. E l'elenco sarebbe lungo perché, ovviamente, da quello che il Berti ricorda essere il punto delle Dolomiti del Cadore piú prossimo al cielo, non manca nulla, dal Gran Pilastro al Triglav, ai nostri Lagorai. Tristemente escluso dal concento, come un bambinetto ancora troppo piccolo ed immaturo, rimane il Monte Rite, dal quale spunta appena, tristemente, il tetto cementato del museo. Non ho nessuna nostalgia della notte passata lassú. È tutto bellissimo però devo dire che la Terza Grande mi aveva entusiasmato ancor di piú: maggiore la fusione, il feeling con la folla ci monti circostante, piú matura la luce, piú chiara la roccia, piú tersa l'aria... O forse sono solo idee; forse a favore di quella cima giocava l'entusiasmo della scoperta sebbene anche l'Antelao possa dirsi, a suo modo, una scoperta vecchia di poche ore.

L'indugio in cima è breve, un po' per la temperatura prossima allo zero - come ricorda qualche macchietta di vetrato - un po' perché, come si ricorderà, i compagni hanno il tempo contato. Mi salutano alla forcella, per scendere sul versante Boite, con invito di andarli a trovare al piú presto in rifugio. Io ho meno furia e posso anche permettermi una lunga chiacchierata con la moglie dell'Alpino la quale ieri sera - mi dice - al momento del mio passaggio era nel bosco. Di sicuro, in fatto di interesse, non è seconda al marito. Visito anche la vicina Cascata delle Pisse, tipica meta dei gitanti senza pretese sull'Antelao. È quasi mezzogiorno quando inizio da Calalzo la lunga scivolata giú per la valle del Piave, dove l'interesse è sempre riattizzato dall'incalzante succedersi dei paesini, delle pareti incombenti, delle cime ardite. In fondovalle invece il fiume, la strada, la superstrada e la ferrovia sembrano giocare a inseguirsi e intrecciarsi in combinazioni sempre nuove. A Ponte nelle Alpi imbocco la strada di Sinistra Piave, arrivando cosí, a Trichiana, all'attacco del Passo San Boldo.

Se il dislivello di questa salita è risibile, lo è di meno il continuo lavorio di cambio a cui si è costretti, data la totale incapacità, da parte di questa strada. di conservare la stessa pendenza per duecento metri di seguito. Se per avventura avessi sete, verrei ulteriormente messo in difficoltà dalle numerose scritte Comune di Trichiana: Acqua non potabile al consumo umano. Solo dèi ed eroi si possono abbeverare, da queste parti; gli altri si devono accontentare di una fonte alle porte di Sant'Antonio di Tortal, luogo dove non si deve cedere all'illusione altimetrica di essere quasi arrivati, poiché appena fuori dal paese la strada perde un bel po' di quota, per poi ricominciare il suo traballante lavoro di risalita.

Le celebri gallerie che sia fronteggiano sui due lati della gola sono certamente un'originale attrattiva, ma il godimento del luogo è un po' vessato dal ritmo dei semafori che regolano il senso unico alternato. Forse un giorno anche il San Boldo avrà il suo tunnel convenzionale, e questo passaggio originale verrà riservato ai buontemponi e ai sognatori. La strada che manca per arrivare a Castelfranco si rivela essere - contrariamente alle mie previsioni che temevano una trafficata routine pedemontana - una gradevole passeggiata attraverso i vigneti aggrappati alle ultime, protette collinette prealpine.

Alla stazione di Castelfranco frugo invano nelle borse per trovare il lucchetto della bici: frugo allora nella mente, e mi rendo conto di averlo maneggiato per l'ultima volta presso la Baita degli Alpini. Con tutta probabilità starà lí per terra, con attaccato il mazzo delle chiavi di casa. Per l'immediato, non mi resta che ringraziare il portinaio dell'ospedale per l'ospitalità che offre alla mia bici davanti al suo sportello - tanto il computer dietro il medesimo è momentaneamente rotto. Per il futuro, si tratterà invece di organizzare una spedizione di recupero in Val d'Oten.

*** Postilla a «Cadore» (10-12 settembre)

La spedizione di recupero parte non l'indomani, bensí il giorno ancora seguente, al pomeriggio. Con la mediazione del Rif. Chiggiato sono riuscito a risalire al numero di telefono dell'Alpino e ad assicurarmi che mettesse in salvo i miei effetti, la cui causa costituisce anche un ottimo pretesto per andare a trovare gli amici di Pian di Cengia. Treno fino a San Candido, da dove con comodo raggiungo il termine della Val Fiscalina. Cena al Rifugio di Fondovalle e sacco a pelo davanti alla teleferica del Rifugio Zsigmondy.

Alle sette dell'indomani, quando arriva il primo carico per la teleferica, inizio la salita verso il Rifugio Locatelli; prima di raggiungerlo, piego a destra verso una forcelletta che mette nel Cadin di San Candido. Già a metà mattina mi trovo sulla vetta del Lastron dei Scarperi, a guardare il panorama dal mezzo di una selva di grossi ometti di pietre bianche, svettanti sul fondo di sabbia rossastra. Con me, due svizzeri nuovi a questi luoghi, ai quali spiego un poco l'orizzonte dolomitico, prima di interpellare due veneti, che hanno l'aria da conoscitori. Perché dopo essersi gonfiati il petto con chi ne sa meno di te, bisogna subito far esercizio di umiltà con chi ne sa di piú, e i veneti centouno volte su cento ne sanno di piú. A loro chiedo dunque informazioni per il ritrovamento del Passaggio della Caccia, un caratteristico catino nascosto fra le pareti a nord, segnalato nel volume Dolomiti: il grande libro dei sentieri selvaggi, di Bonetti e Lazzarin. Pochi passi oltre la vetta comodamente raggiunta dai bollini rossi subito ci si ritrova nell'ambiente incontaminato delle rocce non ripulite, liberi di credersi un Paul Grohmann oppure un Matteo Ossi. Sfido i delicati marciumi sommitali della Cima di Lavina Bianca, la cui cima è solo un poco piú stabile delle piramidi di sabbia che si costruivano da bambini. Seguendo sempre gli ometti trovo il varco discendente verso nord. Raggiunto il bel Cadin della Caccia, volgendomi indietro scorgo un ometto in posizione inattesa. Rinunciando a scendere in fondo alla Val Campodidentro per la formidabile Lavina dei Scarperi, mi propongo invece di seguire quel misterioso suggerimento, ignaro di essere di fronte all'itinerario 21.9.1, pagina 452 della guida del Berti. Sei righe, tre ore: che uomini che c'erano una volta! Mi trovo scodellato direttamente nel Cadin di San Candido, senza nemmeno avvertire il passaggio scomodo paventato nella descrizione. Avrò veramente calpestato il 21.9.1? Di solito quando questi uomini dicono accennano a qualche lieve incomodo, noi mortali diciamo «scomodo» tout court; quando perfino loro azzardano «scomodo» noi mortali dobbiamo leggere «impossibile». Boh; comunque l'importante è che nel Cadin ci sono arrivato. A mezzo pomeriggio, mi trovo a conversare nel grazioso rifugio di legno dei due amici. Si ricordano perfino di regalarmi, come mi avevano promesso, la carta geologica delle Dolomiti di Sesto, edita dalla Tabacco. Le genti tedesche hanno un puntiglio che davvero a noi manca. Poi purtroppo viene per me il tempo di scendere; i pochi posti letto sono infatti tutti occupati, e la tenda sta giú alla bici. Per loro è invece il tempo di sfamare gli ospiti e di sistemare gli ultimi dettagli per il passaggio, l'indomani, della Maratona delle Tre Cime, un percorso da 12, l'altro da 21 km. Nuova cena al Rifugio Fondovalle, nuova notte sotto il tetto della teleferica, dalla quale verso le dieci di sera vengono misteriosamente scodellati due giovani alquanto alticci, che dall'alto del loro contenuto alcolemico mi dispensano insinuazioni del tipo «Ha ha ha, dormire cvi per non pacare rifuccio». E se ne vanno nel buio circonfusi dalla polifonia dei loro maldestri «Ha ha ha», interrotti solo da qualche imprecazione dovuta agli ovvi inconvenienti del loro incedere malfermo.

Il mattino che si leva sopra l'incombente Cima Una non promette nulla di buono. Valicato il passo di Monte Croce Comelico fra le nebbie, scendo con panorama molto decurtato fino a Padola, «Padola aprica», come dice il Berti, e da lí decido di salire a Danta di Cadore, il pratone anche lui aprico che avevo ben isolato dalla Terza Grande. A tal fine, valico un passo il cui nome è Passo di Sant'Antonio nella segnaletica locale, Passo del Zovo sulle carte e le guide. A Danta mi unisco alle folle che convergono verso la messa, prima di scendere verso Santo Stefano. Evito il nuovo tunnel «Comelico» di quattro km seguendo la vecchia statale, dismessa dall'Anas, sbarrata e franata in parecchi punti, ma cionondimeno percorribile in bici e pure piacevole dal punto di vista panoramico. Seguono Cima Gogna, Lozzo, Domegge e Calalzo, prima di ricominciare la salita della Val d'Oten. Senza la fretta di cinque giorni prima, posso fermarmi per uno spuntino nei pressi di una fonte marcata come Acqua [sic] salutaris. Nel ricco paese dell'occhiale il latino non raggiunge lo stesso grado di perfezione e tecnologico degli astucci per occhiali.

L'alpino ha le chiavi, una birra per me e del vino per lui; senza fare troppo torto agli avventori riesce anche a raccontarmi un poco dei sui trascorsi come camionista. Paradossi della vita. Ciclisti e camionisti sono nemici giurati sulla strada, ma quando un camionista si mette a raccontare a ruota libera la propria autobiografia stradale, c'è anche per il ciclista da rimanere incantati. Non dimenticherò mai la conversazione avuta al fontanone sotto Gangi, paese arroccato a mille metri lungo l'epica statale 120, che traversa il centro assetato della Sicilia, con un camionista in pensione che mi raccontava dei suoi viavai tra Bongo Valsugana (casa mia) e il Belgio. Noi viaggiamo per diporto e loro per lavoro, ma alla fine scopri che l'amore per l'andare contagia tutti allo stesso modo.

Fatta anche questa, non mi resta che scendere sotto la pioggia. Sulla salitina appena fuori Calalzo una folata d'acqua provvidenzialmente piú consistente riesce a fermare la mia testardaggine che stava per impegnarsi in una lunga e insensata discesa verso Ponte nelle Alpi. Un po' come quel convoglio che qualche tempo addietro aveva fatto notizia perché, parcheggiato in stazione a Calalzo senza freno, aveva liberamente imboccato la discesa. Anche in quell'occasione era stata una contropendenza provvidenzialmente piú consistente ad evitare il massacro. Batto in ritirata in stazione e mi rintano all'asciutto in un vagone, non senza essermi informato se il freno sia stato ben tirato. Stavolta invece l'immancabile brivido ferroviario alberga altrove, e piú precisamente nel tratto fra Grigno e Strigno, dove un malcapitato ha deciso - proprio oggi, proprio qui - di buttarsi sotto una locomotiva, cosicché anche noi popolo dell'ultimo treno fra trasbordi annunciati poi rettificati poi annullati poi riannunciati etc. non raggiungiamo i nostri rispettivi letti prima dell'una di notte.

Epilogo

È una faticaccia descrivere un viaggio denso come questo. Una faticaccia molto piú descriverlo che non farlo, anche perché la mano inesperta non è aiutata dall'inerzia allo stesso modo delle ruote. È una fatica, tuttavia, che si affronta volentieri se si ha la sensazione di fare cosa utile a qualcuno. Spero che qualcuno questa sensazione me la voglia dare, ad esempio mandandomi qualche commento o, cosa non meno gradita, qualche correzione alle inevitabili inesattezze che, ne sono certo, si annideranno numerose in un racconto «licenziato» a ben quattro anni di distanza.

Va pur detto che, per la stesura, mi sono basato su vecchi appunti che giacevano da tempo - non so da quanto, a dire il vero - sul computer. Si trattava dunque soltanto di metterli assieme e di tappare qualche buco o levigare qualche rude transizione di stile nel passaggio tra un episodio e l'altro. Mi preme comunque fare presente che tutto il documento è stato scritto come se Internet e Google non esistessero. Sarebbe stato fin troppo facile usarli per riempire i buchi o per controllare le informazioni fornite. Allora, ad esempio, quella scala che mi compare nella nebbia sul Montasio, quasi inquietante nel suo inarcarsi sopra il vuoto, avrebbe un nome, Scala Pipan - e questo è solo uno dei tanti casi. Ma allora il racconto non sarebbe piú né fedele né evocativo. Di fonti di informazione ne abbiamo oggi tante, quasi troppe; meglio dare allora spazio alla nostra realtà individuale, che è fatta anche di vuoti e di manchevolezze. Anche perché questo è un racconto di viaggio, e a realizzare il viaggio in definitiva non è il motore di ricerca ma il motore che siamo noi stessi: con tutto il nostro seguito di contraddizioni, dubbi, ripensamenti ed errori - ma fortunatamente, anche con sentimenti ed emozioni che dall'alto di una ipotetica onniscienza non sarebbero forse neppure concepibili.

Lo stimolo a scrivere mi è venuto dall'amico Luigi Urru, un appassionato di viaggi in bicicletta che mi ha contattato, a tanti anni di distanza, a proposito delle vecchie «Trenta vie attraverso l'Appennino». La sua tesi è la seguente: bei tempi quando non imperversavano le foto digitali e i reports fotografici, cosicché la gente era costretta a raccontare a parole, e a tirar fuori farina dal proprio sacco anziché da quello della Canon o della Nikon. Come dargli torto? Senza contare, poi, che il resoconto scritto lascia all'immaginazione e alla rielaborazione del lettore un margine assolutamente impensabile nel caso della fotografia. Lo prova il fatto che, approdare alle immagini dopo aver letto un resoconto a parole, ed aver avuto modo di raffigurarsi i luoghi e gli eventi a modo proprio, ha spesso il sapore di una disillusione o di una banalizzazione che dir si voglia.

In ogni caso questo non accadrà con il presente racconto. Il viaggio si colloca per me, infatti - come già accennato - nel bel mezzo di un lungo periodo di «buio fotografico». Un buio iniziato ad agosto 2003 allorché, sulle strade di Grecia, la mia fedele Nikon cadde da una borsa sul manubrio, fratturandosi lo zoom e altre parti vitali. Buio terminato solo a luglio 2006, con l'acquisto di una prima macchinetta digitale. Da allora sono passato, o meglio ritornato, all'estremo opposto, documentando con maniacale puntiglio tutti i viaggi. Temo che l'amico Luigi abbia ragione nell'affermare che la fotografia è in qualche modo nemica della scrittura e, di conseguenza, temo anche che di questi recenti viaggi super-documentati difficilmente nasceranno dei racconti... Tuttavia non bisogna mai dire mai; se questo documento avesse un feedback come ebbero a suo tempo le «Trenta vie», non è escluso che venga la voglia di imbarcarsi in altre operazioni simili. Per ora non posso far di meglio che rimandare gli interessati al sito picasaweb.google.com/albertopedrotti dove si trovano le immagini corredate di scarne didascalie - proprio quelle che potrebbero diventare l'ossatura di eventuali futuri resoconti. A questo indirizzo si trovano anche i collegamenti alla galleria di Marco, il protagonista dei primi giorni di questa avventura: lui qualche foto l'ha scattata, e l'ha anche pubblicata.

Senza di lui, e senza Luigi, questo documento non esisterebbe: l'uno ha messo in moto il viaggio, l'altro la volontà di raccontarlo. Entrambi sono dunque doverosamente da ringraziare.