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Trenta vie attraverso l'Appennino tosco-emiliano.

Di   Alberto Pedrotti,   apedrott@science.unitn.it

A partire dall'anno 1989 ho preso per decine, forse centinaia di volte il treno per spostarmi da Trento a Pisa e viceversa. Nel 1995, finalmente, ho avuto l'idea di rendere il viaggio piú interessante intercalandovi qualche diversione ciclistica. Idea resa realizzabile da quella che al tempo era una conquista abbastanza recente, ovvero la possibilità di portare la bici al seguito su un gran numero di treni. La scelta d'elezione, ovviamente, cadeva sul tratto appenninico, che è allo stesso tempo il piú interessante ciclisticamente, e il piú penoso da percorrere in treno. Chiunque abbia una pur minima esperienza dei treni intercity sulla tratta Bologna - Firenze, sa a che cosa mi riferisco. Tipicamente, su questi treni, una volta che vi siate tentativamente seduti, verrete presto sopraffatti da una folla schiamazzante che, brandendo opportune prenotazioni, vi confischerà il posto. Cercherete allora di farvi piccoli piccoli su uno di quei seggiolini del corridoio, con decine di persone assiepate attorno a voi, in massima parte intente a telefonare senza posa, mentre altre faranno la spola fra il vagone ristorante, il bagno e l'amico del cuore, altre fumeranno nonostante i divieti; le piú abili riusciranno a far coesistere sapientemente tutte le sopraddette attività. Poco vi consolerà che sul seggiolino dirimpetto al vostro sieda magari un altro passeggero che, confuso al pari di voi, vi fisserà sconsolato, e voi lo fisserete sconsolati.

Le strade appenniniche, a differenza dei treni, sono praticamente deserte. Dato che tutto il traffico viene assorbito dalle grandi direttrici - l'autostrada del Sole e quella della Cisa, e in misura minore la statale della Porretta - la fittissima rete di strade secondarie resta completamente deserta. Va anche detto che per arrivare a questa isola fortunata bisogna attraversare la prova del fuoco della fascia pedemontana la quale, specie sul versante emiliano, è fortemente congestionata dal traffico pesante. Provare il tratto Modena - Sassuolo o Parma - Fornovo in un giorno lavorativo per credere.

I passi appenninici non sono da considerare dei surrogati di quelli alpini; lo sarebbero forse limitandosi a considerare il versante toscano, dove le salite sono abbastanza dirette e regolari, ancorché non dure (con l'eclatante eccezione del San Pellegrino in Alpe), e non oltrepassano mai i 1400 metri di dislivello. Le cose cambiano sul versante emiliano, dove l'accesso a un passo dalla pianura può essere lungo anche 80-100 km, con una quantità imprevedibile di saliscendi, che obbligano ad avere disponibità di una riserva di energia ben maggiore di quanto la quota dei valichi non suggerirebbe. Non è un caso che il numero di ciclisti incrociati decada esponenzialmente mano a mano che ci si addentra verso lo spartiacque.

Meteo. Bisogna tenere conto della grande variabilità delle condizioni meteorologiche passando da un versante all'altro. Se la giornata non è dichiaratamente serena, ovvero, se il tempo inclina appena un poco all'incertezza quando si parte, si può stare certi di prendere acqua o neve sull'uno o sull'altro versante. Chiunque abbia attraversato la galleria del Vernio sa come sia frequente entrarvi, dal versante emiliano, sotto la neve ed uscirne col sole, oppure uscire al Vernio sotto la pioggia anche se a San Benedetto c'era il sole. Una zona che poi calamita ogni precipitazione è l'Appennino Pistoiese. Mi diceva un ciclista di Pistoia che se nevica da qualche parte sull'Appennino, allora nevica di sicuro tra Porretta e Collina; l'implicazione inversa ovviamente è falsa.

Stagioni. A differenza dei valichi alpini, quelli appenninici sono praticabili per tutto l'anno, e questo fatto va tenuto in gran conto, poiché il paesaggio invernale qui è molto suggestivo. La stagione d'elezione è comunque l'autunno. Il primo autunno, avanti la caduta delle foglie, offre la possibilità di osservare magnifiche composizioni di colori nei castagneti della Lunigiana e della Garfagnana, o nelle faggete intorno alle Radici. Il tardo autunno offre un'atmosfera molto rarefatta, quasi sospesa; ci si può addentrare negli ampi anfiteatri delle alte valli al cospetto delle cime già innevate, senza incontrare anima viva, godendo di solitudini insospettate.

Logistica. I tragitti che descrivo, sono finalizzati all'obiettivo pratico di attraversare l'Appennino. Ovviamente tutto diventa piú semplice se uno si accontenta di fare un valico in andata e ritorno, pratica peraltro che non consente di godere della straordinaria sensazione di cambiamento che si ha nel passare, nell'uno o nell'altro verso, dai frutteti della Valle Padana agli uliveti della Valdarno, dalla parlata emiliana a quella toscana, e spesso dalla pioggia al sole o dal freddo al caldo.
Un ruolo centrale nelle mie traversate appenniniche l'ha avuto il treno Bolzano-Bologna del mattino. Nel 1995 esso partiva da Trento alle 6.36. In seguito tale orario ha subito una curiosa precessione, senza, notare bene, alcun effetto sull'orario di arrivo a Bologna (alle 8.45 circa). Attualmente il treno parte alle 6.00, il che mi costringe a una levata, per raggiungere in bici Trento dalla Valsugana, intorno alle quattro. Per le partenze da Modena ho spesso cambiato treno a Verona, il che implica una discreta attesa, la quale rende competitiva la soluzione di non cambiare, proseguire fino a San Giovanni in Persiceto, e traversare per Modena in bici. Notare che da Trento il primo treno utile per il trasporto bici dopo quello delle sei passa verso mezzogiorno, un po' troppo tardi per quasi tutte le traversate. Piú semplice la vita se uno abita in Veneto, in quanto la linea Venezia-Bologna è notevolmente piú agguerrita, e vi passa un interregionale ogni ora. Per i tragitti sud-nord, non c'è stata una regola fissa, anche perché sono partito via via da Sarzana, Aulla, Castelnuovo Garfagnana, Lucca, Pisa, Pistoia, Prato, Firenze, a seconda delle esigenze. In Toscana ci sono molti treni anche al mattino presto e la scelta non è cosí obbligata come nel caso della partenza da Trento.
È talora possibile, anche se laborioso, portare una bici attraverso l'Appennino senza farsi l'Appennino in bici. Sulla tratta Bologna-Prato circola un certo numero di treni locali. Quelli che trasportano bici ci sono, anche se sono rarissimi. Chi poi dovesse arrivare a Firenze, sceglierà se proseguire da Prato in bici (attenzione: è difficile perdersi proprio nelle battute iniziali) o aspettare un diretto proveniente da Lucca. Sulla tratta Prato - Bologna c'era un treno comodissimo che partiva alle 15; aveva creato un suo pubblico in genere di cicloamatori lentigginosi che rientravano verso il Nord dai loro giri della Toskana; dal 1999 il servizio bici, preso atto che era utile, è stato soppresso. Piú a est c'è la ferrovia Firenze-Faenza, che io non ho mai utilizzato, e che deve essere anche molto interessante paesaggisticamente (cfr. l'itinerario alla Colla di Casaglia ) ed ha molti convogli che effettuano il trasporto bici. Il problema è poi sincronizzarsi con un treno che porti da Faenza a Bologna.
Per quanto riguarda la linea Pistoia-Bologna, va detto che nella tratta Pistoia-Porretta e viceversa quasi tutti i convogli portano le bici. Da Porretta a Bologna (a Porretta si cambia sempre treno) il servizio è quasi inesistente. La cosa è particolarmente mal congegnata perché i 60 km da Porretta a Bologna sono piuttosto noiosi, laddove la tratta tra Porretta e Pistoia è gradevole da percorrere in treno non meno che in bici. Siccome tutti i treni Porretta-Bologna sono treni verdi, segnalo la seguente scappatoia. Acquistando l'abbonamento annuale per il trasporto bici, si ha il diritto di caricare il mezzo su tutti i treni verdi, anche quelli non equipaggiati col vagone bici, tutti i giorni escluso il sabato. In genere l'operazione comporta un lungo litigio con il capo-treno che ignora la regola: tassativo provvedersi di un orario ufficiale, prender nota della pagina dove la regola è descritta, e combattere testo alla mano. Altrimenti si rischia di rimanere a piedi. Nel 1999 procacciarsi un abbonamento era un'avventura non banale (bisognava farselo mandare da Milano tramite la FIAB); non a caso quello che acquistai nel marzo 99 portava il numero 00073. Adesso lo si può comperare nelle maggiori stazioni. A Trento ad esempio agli sportelli di biglietteria non ne sanno nulla; il tagliando è infatti annoverato fra la bigliettazione straordinaria per la quale bisogna farsi mandare dal capo servizi biglietteria. Seguendo questa prassi, sono riuscito ad avere il mio tagliando per il 2000, che reca il numero 1501. Questo non vuol dire che siano stati venduti 1500 biglietti; semplicemente la stazione di Trento ha avuto un pacco di biglietti numerati da 1501 a 1600, dei quali io ho acquistato il primo.
Sulla linea Parma-Sarzana molti treni effettuano il trasporto. Il problema per molti può essere arrivare fino a Parma. Nel seguito illustrerò in proposito una combinazione ragionevole quanto rischiosa.

Cartografia. Io uso il foglio Toscana della carta stradale d'Italia al 200.000 del Touring; esso copre a nord fino alla latitudine di Modena. Meglio centrata sarebbe la carta Emilia-Romagna, che copre a sud fino alla latitudine di Pisa. Le informazioni sulla viabilità sono corrette, a parte un clamoroso errore dal quale metterò in guardia con la dovuta enfasi. Parlando della zona "calda," ovvero lo spartiacque propriamente detto, farò dei riferimenti topografici piú puntuali che per essere seguiti necessitano di una carta al 25.000: purtroppo esistono solo quelle, pessime, dell'editore Multigraphic di Firenze. Lo stesso editore ristampa delle vecchie carte provinciali al 100.000, che spesso forniscono delle buone integrazioni rispetto alla carta Touring in fatto di toponomastica, ma sono indecifrabili e spesso fuorvianti per quanto riguarda la viabilità. Per chi volesse cimentarsi, il foglio piú adatto è il Massa Carrara - Lucca - Pistoia. Per quanto riguarda pubblicazioni specifiche di cicloturismo, benché io mi orienti molto male nella pletora di nuove uscite, segnalerei il titolo Toscana in mountain bike - Volume I: Appennino di Sergio Grillo e Cinzia Pezzani, edizioni Ediciclo (1991), un libro che non si ferma ai soliti dati numerici e profili altimetici, ma fornisce anche informazioni ambientali e culturali di sicuro interesse.

Ordine. Ho scelto di presentare gli itinerari partendo da ovest e muovendo verso est, ponendo all'inizio quelli che dal mio punto di vista sono gli itinerari piú interessanti. Amo infatti molto la Lunigiana e l'alta Garfagnana; mi interessano invece meno le zone di Pistoia e Prato. Nemmeno il tanto decantato Mugello lo trovo interessante al pari del settore occidentale. Trattando poi di diversi accessi a un singolo passo, seguirò per comodità personale l'ordine cronologico.

La Cisa

La Cisa è uno dei valichi appennini piú comodi e noti, e a molti sarà familiare la sagoma appuntita della chiesa che sorge poco sopra il passo, visibile dall'autostrada da entrambi i versanti.La "via normale" ciclistica alla Cisa è la SS 62, il cui tratto propriamente montano si trova fra Pontremoli e Fornovo. Si tratta di una traversata facile e panoramica.

1. Cisa (m. 1040) per Monte Càssio

Nel 1999, in una splendida giornata di luglio, parto da Sarzana poco dopo le otto del mattino. Fino ad Aulla devo lavorare contro un forte vento contrario, raramente assente in questa strettoia. Da Aulla a Pontremoli il panorama è dominato dall'alta costiera del Monte Orsaro - Monte Sillara, che si erge imponente con balzo unico di 1500 metri dal fondovalle. A Pontremoli entro nella cerchia della mura; vale infatti la pena di dare un'occhiata ai palazzi opulenti e alle strette vie di questa borgata, che si annuncia da lontano con le sue alte cupole. Poco sopra l'abitato inizia una serie di tornanti in mezzo ai castagni, che sembrano protendersi sulla strada come un'onda del mare congelata in un'istantanea. A quota 650 metri la salita improvvisamente si interrompe; dopo un traverso in piano sullo spartiacque tra Magra e Magriola, ci si vede l'autostrada puntare contro, per poi infilarsi all'ultimo momento in galleria. All'ingresso di Montelungo, un tifoso dalla mano felice ha tracciato sull'asfalto un'Italia in scala duecentomila, con tutte le tappe del recente Giro e i relativi vincitori. Il paese lo si attraversa sotto gli occhi vigili degli anziani turisti convenuti al fine di respirare l'aria salutare di mezza montagna. Qualche altro tornante conduce fra ampi prati, pieni di fiori, al Passo del Righedo, dove la salita è virtualmente terminata, in quanto manca solo un traverso in piano per raggiungere la Cisa, ora divenuta per la prima volta visibile. Dopo una visita alla chiesetta del passo, sita al sommo di una scalinata, inizio inizio il lungo traverso, una mezza discesa, verso Berceto, dove inizia una risalita del Monte Marino, 150 metri di dislivello. Segue la parte piú interessante del percorso, che coincide anche con uno dei (pochi) tratti interessanti della Via Francigena. La strada infatti si mantiene sull'esile crinale, tipicamente appenninico, che separa l'ampia valle del Taro da quella un tantino selvaggia del Baganza. Si giunge cosí al paese di Càssio, dove attacca la risalita del Monte Cassio. Il sole picchia, e striscando sotto la serranda semichiusa del negozietto di alimentari riesco a impetrare un provvidenziale litro di latte; mentre vuoto il cartone medito se sarà nativo del luogo quel Cassio Parmense del quale Orazio scriveva all'amico Tibullo

Apprenderò piú tardi sull'enciclopedia trattarsi proprio di quel Cassio che insieme a Bruto nell'inferno latra: non sapevo fosse anche eloquente. Nella breve ma decisa risalita ho il tempo di ammirare una specie di chiusa naturale del torrente Baganza e, alta sul versante opposto, la rocca di Ravarano, sotto la quale passa la rotabile che sale a Berceto da Calestano. Dopo il valico di Monte Cassio, poco piú basso della Cisa, la SS 62 piomba sulla selletta che isola il brullo Monte Prinzera, riconoscibile dal fondovalle Taro per l'imponente antenna. Segue una discesa a rapidi tornanti su Fornovo. Qui mancano solo 25 km a Parma, ma il sole a picco e la cappa afosa della pianura, ancor piú fastidiosa per chi provenga dalle brezze dei crinali, li rendono infernali. Da Sarzana a Parma in tutto sono 120 km.

Il Lagastrello

Dicevo sopra che lo sfondo caratteristico della Lunigiana è una catena non interrotta di monti; questa almeno è la prima impressione: guardando meglio si noteranno due ampie depressioni quasi gemelle, le quali isolano un potente gruppo montuoso, l'Alpe di Succiso. Si tratta del Lagastrello (1200 m) e del Cerreto (1261 m). A est del Cerreto, bisogna attendere 40 km perché lo spartiacque appenninico ridiscenda - in corrispondenza dell'Abetone - sotto i 1500 metri. Entrambi i passi sono molto belli, e presentano un accesso diretto dalla Lunigiana, molto laborioso dall'Emilia.

2. Lagastrello (m 1200) e Passo di Ticchiano (m 1154)

La mia prima esperienza al Lagastrello parte da Aulla, in mezzo alle brume autunnali, nell'ottobre del 1995. Dopo due soli km lascio il fondovalle del Magra per seguire, verso destra, la valle laterale del Taverone. Capoluogo della vallata è Licciana Nardi - il secondo appellativo è in onore di un eroe risorgimentale del luogo, che di nome faceva Anacarsi. Sopra Licciana, alla Maestà dei Saldi, c'è il bivio tra due strade che conducono entrambe al Lagastrello: a sinistra la statale, a destra la diramazione che passa per il paese di Comano, sede di una celebrata rassegna annuale di cavalli. Io seguo la strada principale, ed in breve raggiungo l'ultimo paese della vallata, Tavernelle, che giace a soli 400 metri, laddove lungo la strada del Cerreto gli insediamenti si spingono fin quasi a mille metri. Usciti dal paese con una breve discesa, ci si addentra subito nella testata selvaggia della valle; piú avanti con un imponente ponte si attraversa il largo greto del torrente, per iniziare a scalare il fianco opposto della montagna. Lasciate ormai indietro le brume del fondovalle, salgo sospinto idealmente da una tiepida brezza, ed ho tutto il tempo di ammirare l'artistica composizione di colori autunnali offerta dalle ripide pendici del Monte Bocco, che funge da pilastro d'angolo per la costiera Orsaro-Sillara. Poco sotto il passo si incontrano i ruderi dell'abbazia di Linari. Inquadrata tra le mura franate, la valle del Taverone scende con dirittura perfetta, una linea ideale che si prolunga ancora un poco nella bassa valle del Magra, prima di esaurirsi contro le colline che proteggono il Golfo della Spezia. Complice la limpidezza della giornata, sembra di poter arrivare ai monti delle Cinque Terre con un unico balzo. Un gruppo di cavalli sta oziando in mezzo alla strada, e mi fermo un poco ad accarezzare un morbidissimo purosangue arabo che mi si è fatto incontro, immaginando non erroneamente che io abbia qualcosa da offrirgli. Il valico vero e proprio non ha nulla di particolare da offrire, trattandosi di un rado bosco senza panorama, piuttosto con qualche villetta di troppo; le cose si fanno piú interessanti quando si transita lungo il lago artificiale di Paduli, cui la tagliente luce autunnale conferisce i riflessi di un alto lago alpino. Oltrepassata la diga, la strada principale traversa verso sinistra in direzione del paese di Rigoso, dall'aspetto curiosamente nordico grazie ai numerosi tetti di lamiera. Con un unico ampio tornante si scende verso Rimagna, e di lí rapidamente agli 820 metri di Monchio delle Corti. Spinto dalla bellezza della giornata, ho voglia di risalire, ed imbocco la strada che per prati aperti, a cospetto del pur lontano Cusna, conduce al Passo di Ticchiano, 1154 metri. Avverto che, se la risalita è abbastanza severa, la pendenza dell'opposta discesa è addirittura selvaggia; ci si trova cosí scodellati in men che non si dica sotto l'abitato di Casarola, cui fanno seguito Riana e Grammàtica. È duro decidere quale sia il piú grazioso di questi tre paesini dai luccicanti tetti di ardesia, splendidamente isolati nell'alta Val Parma. Spettacolosa nonostante qualche buca infida anche la discesa nel bosco di castagni, prima che gli scempi edilizi che hanno rovinato il paese di Corníglio, altrimenti premiato da un'ottima posizione, riportino a tutt'altra dimensione. Ancora una volta mi viene voglia di risalire, e ne trovo il modo. Prima di toccare il fondovalle del Parma, si stacca sulla destra un traverso in leggera ascesa che conduce a Tizzano Val Parma, 814 metri, meraviglioso belvedere sulla bassa parmense, una specie di osservatorio sulla vallata dei prosciutti. La risalita verso Tizzano è molto dolce, salvo una breve impennata in corrispondenza di una cava, e riposante è la veduta sull'ampia dorsale del Monte Cervellino, all'opposto versante della valle.
Mentre sono in sosta nell'ampia piazza-belvedere di Tizzano, arriva dal basso un anziano signore. Ha settant'anni, mi spiega, ed è salito da Reggio Emilia. Anche lui oggi avrebbe voglia di salire ancora; mi chiede se, al posto suo, darei l'assalto ai 1200 metri di Schia, data l'ora e la lunghezza del rientro. Sebbene la domanda fosse stata posta per avere risposta negativa, io lo spingo ad andare, e lo incoraggio esortandolo a pensare a me, che se voglio prendere il treno dovrò essere fra tre ore a Suzzara, in riva al Po. Invece che sbrigarci, però, stiamo a chiacchierare, cosicché apprendo come ogni anno egli attraversi la Cisa in bici per andare al mare al Cinquale, seguito in macchina dalla famiglia; ci attardiamo a discorrere delle salite della Apuane. Quando a Pisa descriverò l'individuo a una mia amica del Cinquale, mi dirà: un tipo fatto cosí e cosí che va sempre in bici? Non può essere che il signor Rossi di Reggio, gli affittiamo ogni anno l'appartamento. Si starebbe ancora molto a parlare con il signor Rossi ma, constatato che sono le tre e mezzo e non è giugno, conveniamo che sia meglio muoversi.
La discesa verso il fondovalle Parma sembra fatta apposta a misura di ciclista. Poi bisogna tornare a pedalare per raggiungere Langhirano, Lesignano de' Bagni (di fronte al castello di Torrechiara), Basilicagoiano e Montechiarugolo. Un ponte improvvisato a sostituire quello spazzato via dall'Enza porta a Montecchio Emilia, dove inizia un tratto abbastanza di routine fino a Melétole. Segue uno splendido tratto nell'aperta campagna per arrivare a Santa Vittoria, con immense cascine che mandano ombre lunghissime sulla terra ormai spoglia. Pasticciando un poco fra la vecchia statale della Cisa e la nuova tangenziale di Guastalla mi ritrovo verso buio sull'argine del Po, che con pittoresco tratto mi conduce a Luzzara, dove alcuni quartieri quasi interamente in abbandono danno, nella sottile nebbiolina della sera, l'idea di una città fantasma. Pochi km ancora per finire il giro nel freddo e nella nebbia donde era cominciato 185 prima. Altri 30 km notturni mi attenderanno poi per raggiungere la Valsugana da Trento.

3. Lagastrello dalla Val d'Enza

Nell'aprile del 1996, parto da Carpi in direzione Corréggio e Reggio Emilia. Attraverso la bella lungomonte di Montecàvolo e di Quattro Castella, arrivo all'imbocco della Val d'Enza, che risalgo constatando che non vi è nulla di paesaggisticamente rilevante, fatta eccezione per la larghezza del greto del torrente, che a tratti occupa l'intero fondovalle, per la gioia di pescatori e cultori dell'abbronzatura. Lascio a sinistra a malincuore le strade per Canossa e Selvapiana, luogo quest'ultimo dove il Petrarca fu lungamente ospite di Azzo da Correggio (quello che ha dato il nome alla redazione Correggio del Canzoniere). Ad un certo punto il paesaggio cambia, il largo fondovalle termina e la strada sale in direzione di Vetto, per poi riscendere ad attraversare un affluente dell'Enza, prima di salire per chine brulle in direzione di Ramiseto, che però conviene non raggiungere, svoltando alle poche case di Gàzzolo in direzione delle poche case di Ceréggio; la strada è solo moderatamente dissestata. Con ulteriore salita si raggiunge, in corrispondenza di un crinale boscoso, il traverso che si inoltra da Ramiseto al Lagastrello. Attraversando con saliscendi i numerosi valloni che confluiscono dal massicio dell'Alpe di Succiso verso la Val d'Enza, celando vari paesini, si arriva in vista di Succiso, alto sulla strada, in bella posizione al cospetto della cima cui dà nome. Arroccato su di uno spuntone segue l'ultimo paese della successione, ovvero Miscoso, prima che il traverso finale conduca alla diga del lago Paduli, con ampia vista sui paesi dirimpettai, arroccati alla stessa altezza sull'altro lato della valle. Al passo il cielo è oziosamente nuvoloso; in cerca di maggiori emozioni decido di salire al Passo del Giogo, di 60 metri piú elevato, indi finisco per pedalare fin quasi alle intallazioni militari sul Monte del Giogo, guardandomi bene dall'arrivare in cima, vista l'insistenza dei divieti fin dall'attacco della strada di servizio. Molto aperta la discesa su Comano; quasi surreale la subitanea apparizione di Groppo San Pietro, una manciata di case quasi scavate in uno spuntone che sembra bucare gli ampi prati. Sotto Comano merita una visita anche il piccolo borgo di Crespiano, poco distante dalla Maestà dei Saldi dove ci si innesta sulla "via normale" del Lagastrello. Da Carpi ad Aulla sono 140 km.

4. I passi di Sillara, di Valditacca e il Lagastrello

Nel luglio del 1999 congegno la traversata all'insegna della sperimentazione ferroviaria. Si tratta di cambiare treno al volo a Verona, dove alle 7 arriva l'interregionale da Trento e alle 7.10 parte quello per Fornovo. Comincia male perché a Mattarello abbiamo già quindici minuti di ritardo cosicché quando, a dispetto di tutto, mi ritrovo sul treno per Fornovo, gran parte delle palpitazioni della giornata - anche se non tutte - sono finite. Poco dopo Fornovo lascio il fondovalle Taro per una valletta solitaria che si inoltra in direzione Calestano. Per raggiungere la valle del Baganza, si tratta di attraversare un piccolissimo valico, in vista dei paesi gemelli di Bardone e Terenzo. Non so quale sia il nesso (forse la Via Francigena?) ma non può essere un caso che anche in Lunigiana, nella valle dell'Aulella, due paesi vicini si chiamino rispettivamente Bardine e San Terenzio. Calestano si raggiunge con modestissima perdita di quota; siccome è domenica la cittadina brulica di falangi ciclistiche; per rifornirmi ad una fontana devo fare la coda. Poco sopra, la strada prende quota sul selvaggio fondovalle del Baganza, poi sale regolarmente fino a passare sotto la Rocca di Ravarano, a circa 700 metri. Segue un lungo traverso, dapprima in blanda salita, indi virtualmente pianeggiante, sempre in vista del Monte Cassio; si vedono anche lunghi tratti della statale della Cisa, dove ero impegnato quindici giorni fa, in direzione opposta. Poco prima di Berceto e dell'innesto sulla SS 62, svolto a sinistra attaccando la salita del Passo di Sillara, che piú sopra diventa molto decisa, cosicché i 400 metri di dislivello si possono definire impegnativi. Va anche considerato che il mio bagaglio non è dei piú leggeri, in quanto sto trasbordando a Viareggio piccozza, ramponi e imbragatura da consegnare al mio amico Pier Marco Bertinetto, in vista dell'ascensione al Rocciamelone che abbiamo in programma per agosto. Contando di arrivare alla base della montagna in bici, ho ritenuto utile consegnare in anticipo a chi ci arriverà in macchina la ferraglia necessaria.
Dal valico è notevole il panorama sull'Appennino a nord-ovest del Taro: chiude l'orizzonte il gruppo del Maggiorasca, al confine tra Parmense, Piacentino e Liguria. Anche la discesa è abbastanza ripida; si giunge in breve a una strada (non la principale) che conduce al passo del Cirone. Dopo vari saliscendi che conducono anche sotto i 700 metri, si lascia sulla destra la stretta via del Cirone, per confluire su una piú importante strada che sale da Corniglio. Addentrandosi verso la testata della Val Parma, la salita si raddrizza ben presto, stabilizzandosi per qualche km su pendenze del 15%. Questo tratto arrembante si esaurisce davanti al cartellone del Parco Naturale. A destra si dirama pianeggiante una mulattiera in direzione Lagdei, base della salita al celebrato Lago Santo Parmense (da non confondere col Lago Santo della Valle delle Tagliole, in zona Abetone). Io seguo invece a sterrata di sinistra, che in mezzo al gradevole bosco conduce con lungo traverso a due pozze d'acqua dette Lagoni, 1350 m, assediate da una moltitudine di gitanti domenicali. Dopo il ristorante dei Lagoni la sterrata diventa per breve tratto infame, prima di lasciare spazio ad un breve tratto asfaltato che con pendenza mozzafiato conduce in men che non si dica alla Colla di Valditacca, suggestiva nel suo isolamento. Dai quasi 1500 metri del Colle si potrebbe raggiungere in brevissimo spazio, per prati e roccette, la cima del monte Navert (1654 m) a nord oppure, per aperte pietraie, lo spartiacque appenninico a sud. Mancando di tempo per le diversioni, comincio a scendere per uno sterrato molto ripido, ghiaioso e dissestato, in mezzo a prati ricchi di sorgenti d'acqua. Giunto al paese di Valditacca, mi lascio sfuggire il raccordo che mi dovrebbe condurre senza perdere quota alla strada del Lagastrello. Sotto Pianadetto una ripida discesa mi fa capire chiaramente che sono sulla strada sbagliata. Torno sui miei passi e trovo il traverso; resistendo il piú possibile alla tentazione delle innumerevoli fragole che cospargono il ciglio della strada, ovvero, cedendo solo agli spiazzi piú irresistibili, raggiungo Trefiumi e comincio a salire. Al lago di Paduli altro assembramento di gitanti, che qui hanno un bel da fare con la pesca. Dal passo e da Linari mi butto a capofitto sulla valle del Taverone: inizia la lotta contro il tempo per arrivare a Sarzana in tempo per il treno. Calura e vento contrario oppongono fiera resistenza. Gli amici di Pisa dicono di avermi trovato, all'arrivo, insolitamente provato.

Il Cerreto

Sono particolarmente affezionato al Passo del Cerreto, sia per l'essere stato il mio primo valico appenninico, sia per l'essere molto bello indipendentemente da considerazioni personali. L'accesso da nord è molto lungo e nel complesso impegnativo; di questo ci si dovrebbe rendere conto tenendo traccia dei numerosi saliscendi che elencherò.

5. Cerreto da Baíso

Pasqua 1995: sono invitato per un breve soggiorno in Corsica, ed avendo appena comperato la bici cerco a tutti i costi di farla entrare nel progetto. Che si articola cosí: in bici fino a Trento, indi in treno fino a Modena; in bici fino alla Spezia dove mi imbarcherò per Bastia; di nuovo in bici fino a Calvi che è la mèta. Lascio Modena alle 15.30 con la consegna di raggiungere La Spezia entro le otto del mattino seguente. Dirigo verso Sassuolo, dove imbocco la superstrada del fondovalle Secchia, che mi porta con gran dirittura a Roteglia, dove inizia la prima salita, in direzione del crinale di Baíso. Pedalare per la prima volta fra i calanchi dell'Appennino, per uno abituato ai paesaggi alpini, è un'esperienza molto interessante. A Baiso inizia un piacevolissimo tratto in cresta, indi la strada si addentra in un bosco di carpini sul fianco del monte Valestra, per raggiungere Carpineti. Traversando ulteriormente con qualche saliscendi, arrivo a Felina, da non confondere con il Felino parmense dei salami - tanto piú che qui siamo in terra reggiana, e da queste parti ogni imprecisione in proposito è sgradita. A Felina mi è di grande conforto psicologico il cartello che indica fin d'ora la Spezia; in effetti qui sto confluendo sulla SS 63 del Cerreto che seguirò fino ad Aulla. Scendendo ad un grosso ponte, traversando un tunnel e poi risalendo a decisi tornanti raggiungo Castelnuovo Monti, capoluogo dell'Appennino Reggiano, situato al cospetto della Pietra di Bismàntova, nota pietra di paragone per l'asperità del Purgatorio, e col cui profilo si ha tutto il tempo di familiarizzare sui tornanti non meno purgatoriali del Monteduro che conducono, fiancheggiando anche una bella chiesetta, nel bosco che occupa la sommità del Monte Fiorino, a circa mille metri; c'è qualche ristorante e una postazione radiotelevisiva. Segue la discesa su Cervarezza, prima della risalita che conduce sopra il paese di Busana, su uno sperone dal quale si osserva tutta l'alta valle della Secchia, al cospetto dell'ingombrante mole del Cusna. L'aria della sera diventa via via piú suggestiva, nonché piú gelida. Seguono Nismozza ed Acquabona dove, si capisce, c'è una grande fontana, detta Fonte dell'Amore, recentemente rinnovata in legno dagli Alpini. Un repentino strappo conduce all'abitato di Collagna. La quale un tempo si chiamava Culagna, e forse qualcuno ricorderà le terribili disavventure del Conte di Culagna nella Secchia Rapita del Tassoni; è stato un regio decreto ottocentesco ad... addolcirne il nome. Ormai si è fatto notte; sono le otto e mezzo e sta giusto per iniziare la cerimonia del Giovedí Santo. Quando questa termina, alle dieci e mezzo, mi rimetto pazientemente in strada. Considererei volentieri concluse le fatiche odierne, se non fosse che lasciare per l'indomani la scalata del passo ignoto mi farebbe dormire poco tranquillo. Nella discesa verso il ponte Biòla mi accorgo di aver dimenticato fra i banchi la borsa con il materiale fotografico; per fortuna ritrovo la chiesa aperta e anche la borsa. Al ponte ci si trova a m 778, poco piú della quota di Castelnuovo Monti. La vista notturna sul fianco innevato ed incombente (detto Costa del Mainasco) del monte Casarola, m 1979, è veramente potente. Con due tornanti la strada si eleva di un centinaio di metri e raggiunge la Cantoniera del Piagneto, donde prosegue scavata nella roccia fino al bivio per Cerreto dell'Alpi, della cui esistenza giungo a dubitare non vedendovi nemmeno una luce. Al Ponte del Barone, 935 metri, decolla finalmente l'ultima salita, cinque km o poco piú, che però a notte fonda mi sembrano interminabili, finché l'improvviso apparire di due lampioni dietro una curva mi fa capire che sono al passo. Il vento freddo a sua volta mi fa capire che qui non è posto buono per il mio sacco a pelo; sono infatti privo di tenda, avendo stabilito in Corsica non serve. Inizia una discesa per me memorabile. La valle che si stende sotto di me è completamente buia, ma all'improvviso appare dal nulla una montagna la cui ampia spianata sommitale illuminata a giorno da luci arancioni. Apprenderò in futuro che si tratta delle installazioni dell'Aeronautica sul Monte del Giogo. In seguito mi appare, in fondovalle, il paese di Sassalbo, un incrocio di poche vie illuminate in modo spettrale da radi lampioni. Ricordandomi di avere fame, mi fermo presso una stalla dotata di fontana per cucinare una minestra. Provo anche a distendere il sacco a pelo, ma insistenti ululati che provengono dal bosco soprastante, incrociandosi col ronfare e ruminare degli animali dentro la stalla, suggeriscono che la notte qui potrebbe non essere tranquilla. Scendo ancora, finché in corrispondenza di un lungo ponte trovo una piccola risalita. Il ponte è preceduto da un gruppo di stalle dalle quali mi si avventa conto, reso furioso dal rumore della mia dinamo, un cane di proporzioni enormi, lasciato inspiegabilmente libero. Il momento è delicato, e con il cuore che sembra scoppiare per lo sforzo e la paura corro su per la salita piú che posso, ma la tenacia dell'indesiderato compagno di strada è notevole. Per mia fortuna riprende la discesa e la partita è vinta. Dopo ululati e inseguimenti è con un certo sollievo che raggiungo l'abitato di Pieve San Paolo, qualche casa e un albergo raccolti intorno alla bella pieve romanica. Davanti alla quale ci sarebbe un bel praticello, senonché una comitiva di giovani l'ha giusto scelto per fare schiamazzo alle due di notte. È forza proseguire ancora; finirò praticamente per accasciarmi a terra su un selciato dentro la rocca di Verrucola, alle porte di Fivizzano. Trattasi di un antica fortificazione, abitata - come ho appreso in seguito - da un eccentrico pittore. Quanto a me, a farmi compagnia sul selciato rimane un mansueto gattone nero.

Verso le cinque del mattino si pone il problema di ripartire. Una nebbia fittissima mi accompagna fino ad Aulla. Quando passo sotto la rocca di Caprígliola, comincia già ad albeggiare, e al piccolo valico di Buonviaggio, dove inizia la planata finale verso il mare, capisco che mi posso permettere la colazione. Sul lungomare sento un grande strombazzamento; è una della famiglia che mi ospita, che ha perso ieri il traghetto a Livorno e ha dovuto rilanciare per oggi, e quindi alla Spezia. Nonostante una precoce coda al botteghino facciamo in tempo ad imbarcarci: la prima traversata appenninica è dunque andata a buon fine.

6. Cerreto da Scandiano

Nello stesso anno 1995, a dicembre, torno al Cerreto, con qualche piccola variante di percorso. Parto sempre da Modena, seguo la via Emilia (pessima esperienza) fin oltre Rubiera, indi piego a sinistra per Scandiano ove inizio a risalire la valle del Tresinaro. La strada è deserta e inizia debolmente a nevischiare. Da Cigarello un piccolo strappo porta a Carpineti, sul percorso che già conosco. All'attacco del Monteduro, dopo le poche case del Terminaccio, svolto a sinistra per una stradina che inizia in lieve discesa e conduce attraverso vari paesini; dopo l'ultimo (Talada), risale a decisi tornanti verso la statale del Cerreto che viene raggiunta presso Cervarezza. È una variante simpatica, anche se nel complesso non è che si risparmi fatica. Dopo Collagna ho il piacere di vedere meglio il paesaggio che di notte avevo solo intuito, anche stavolta però solo fino a un certo punto, perché dopo Cerreto dell'Alpi la nevicata si fa piú fitta. Molto suggestiva è la salita nella faggeta decorata dalla galaverna. Quando sono in vista del passo metto mano alla borraccia, ma trovo solo un pezzo di ghiaccio. Meglio allora concedersi un ponce al ristorante Giannarelli, ma faccio appena in tempo a svoltare che, sul piazzale dove non è stato sparso il sale, scivolo malamente su un invisibile strato di ghiaccio, con la bici carica che mi rovina addosso. Dolorante stabilisco che oggi al Cerreto è destino che io non beva, e mi avvio in giú. Al primo tornante, dove ci si affaccia sulla valle del Rosaro, cessano d'incanto neve e nebbia, che lasciano spazio a un cielo grigio ma innocuo. Inutile precisare, essendo dicembre, che quando arrivo ad Aulla, dopo 170 km di strada, è buio ormai fatto.

7. Cerreto e Monte Alto

In un sabato di fine febbraio 1997 torno a casa per partecipare, l'indomani, al Meeting dei Lagorai. Prendo il treno Lucca-Aulla, scendendo alla stazione di Gragnola - ma avrei potuto scegliere ugualmente le stazioni di Fivizzano-Gassano o di Fivizzano-Rometta-Soliera. Il sole che accompagna le prime pedalate verso Gassano, situato in simpatica posizione su di una collinetta tra la strada e il torrente, fa capire che si tratterà di una giornata particolarmente tersa. Il clima della salita è già pienamente primaverile: venticello caldo che sale dalla terra, bordi della strada cosparsi di primule. Mi fermo a visitare la Pieve di San Paolo, e anche alla cantoniera del Passo del Romito è d'obbligo una sosta per uno sguardo retrospettivo sulle sagome slanciate delle Apuane, con Pisanino e Pizzo d'Uccello in prima fila. Dopo il Passo del Romito invece l'attenzione si concentra sulla sottostante valle del Rosaro, e sul fianco opposto dove si discerne chiaramente il tracciato della sterrata che va da Bottignana a Sassalbo - vi dovrebbe essere anche una diramazione per Comano, nella valle adiacente. Passato il ponte sul quale fui rincorso da un cane furioso, indi il giardino botanico e il ristorante da Giannino, arrivo al tornante isolato in prossimità passo, e qui devio per la sterrata che porta al Passo dell'Ospedalaccio, il quale occupa, rispetto al Cerreto, l'opposta estremità di questa ampia depressione dello spartiacque appenninico. Legata la bici, mi avvento su per i ripidi pendii del Monte Alto, tralasciando il sentiero che mi condurrebbe al Passo di Pietra Tagliata, e rinunciando quindi a salire l'Alpe di Succiso. Intuisco infatti che la traversata dei pendii settentrionali innevati del Monte Alto potrebbe essere problematica in scarpe da ginnastica. La cresta del Monte Alto, comunque, mi ripaga totalmente della rinuncia: in alto essa diventa una elegante successione di cocuzzoli via via piú elevati, in magnifica esposizione sui Groppi di Camporàghena, ampio pendio profilato da calanchi, che scende con balzo unico di oltre mille metri sull'omonimo paese. Se il panorama sulla Lunigiana è superbo, ad attirare la mia attenzione è un triangolo bianco sospeso sul Tirreno, triangolo che diventa piú nitido via via che salgo. Conosco abbastanza l'orografia della Corsica da non avere dubbi: si tratta del pendio nord-ovest della costiera Monte Padru (2390 metri)-Punta Licciola, orientato cosí a proposito da rilucere come un brandello di carta stagnola. Abbandono la segreta speranza di arrivare a Pietra Tagliata per la cresta, e anzi vengo bloccato già due cocuzzoli prima della vetta dalla neve che si protende fin sopra i precipizi meridionali. Che il gruppo del Succiso, per quanto innocuo all'apparenza, vada preso con criterio, verrà dimostrato nei primi mesi del 2000 da tre incidenti mortali succedutisi sulla montagna nell'arco di tre settimane. Maledico un poco la mole del monte Alto che mi sta nascondendo il Monte Rosa, come estrapolo dal fatto che dietro Pietra Tagliata fanno capolino le Orobie e dietro la Costiera Giannandrea (la cresta che chiude i Groppi) si vedono chiaramente le Marittime. Manco di poco, insomma, l' en-plein che feci in una memorabile giornata d'ottobre sulla Tambura (Alpi Apuane), unendo in un unico colpo d'occhio il Monte Cinto, le Alpi Marittime, il Monviso, il Monte Rosa e la lontana Weissmies. Ma anche la prudenza vuole la sua parte.
Dopo aver cosí saziato gli occhi, la discesa su Reggio Emilia diventa un po' di routine. Devo fermarmi alla Fonte dell'Amore: visto infatti che l'Osler di Pergine (quello che mi ha venduto la bici) me ne parla sempre, per l'essersi lungamente allenato su queste strade, voglio portargli un campione di acqua della restaurata fonte. Passato Castelnuovo seguo ad oltranza la SS 63: un lungo traverso, con panoramici saliscendi, da Felina e Casina, e di qui un'unica volata giú per la stretta valle del Cròstolo.

Il passo di Pradarena

8. Attraverso l'Orecchiella

L'incanto della traversata che sto per descrivere, effettuata nell'ottobre del 1995, è indubbiamente inscindibile dai magici colori dei quali l'autunno riveste i boschi dell'Alta Garfagnana. Possono esserci anche motivi extra-ciclistici per avventurarsi da queste parti. Alcuni miei amici vi hanno raccolto, senza troppo sforzo, tre chili di porcini in due ore. Mostrandoli trionfanti ai locali, si sono sentiti dire: sí, infatti in questi giorni noi non andiamo perché ce n'è pochi. Io tornai a Sillano in macchina qualche settimana dopo la traversata in bici, e vi raccolsi in un'ora qualcosa come venti chili di castagne.

Il programma della giornata prevede un piccolo antipasto ciclistico antelucano, Pisa-Lucca, per raggiungere il treno che mi porta a Castelnuovo Garfagnana, base di innumerevoli salite di grande interesse. Seguendo la strada delle Radici, dopo qualche angusto tornante proprio sopra la stazione, si esce ai riposati pendii di Pieve Fosciana. Qui si svolta a sinistra in direzione San Romano di Garfagnana, e poco dopo a destra in direzione Villa Collemandina. Tiranneggia il panorama la solida mole della Pania di Corfino, con il suo aspetto carattaristicamente brullo; ai suoi piedi si attraversano paesini tipo Magnano e Canigiano, prima di giungere a Corfino. Faccio un giro per il mercato e per le strette vie, prima di ricominciare a salire. A mille metri si incontra Pruno, un gruppuscolo di case con tetti d'ardesia in magnifica posizione, indi dopo una voluta attorno alle Capanne di San Romano si arriva al cospetto della parete della Pania di Corfino. Un canalone sassoso porta giusto alla croce; la tentazione è grossa, ma il programma della giornata non lascia spazio a diversioni. Raggiunti i 1230 metri presso il Centro Visitatori del Parco Orecchiella, la strada si addentra in piano in una fittissima pineta dove a stento filtra qualche raggio di sole. Si tralasciano sulla destra la sterrata per Campaiana e sulla sinistra la strada asfaltata per Piazza al Serchio sulla quale, per chi volesse, poco distante c'è il ristorante La Greppia, ritrovo simpatico e caro in particolare agli scialpinisti lucchesi. La sterrata che si diparte piú avanti, ai Casini di Corte, conduce infatti in piano alle Valli Calde, donde parte la via per il Monte Prado, la cima piú elevata della Toscana che offre anche un ottimo panorama. (In bici credo si possa arrivare fino ai 1720 del rifugio). Dai Casini di Corte, 1200 metri, si scende con tornanti agli 885 m della diga di Vicaglia. Si perde ancora quota fino al ponte sul Serchio di Soraggio, prima di risalire con severo strappo ai pittoreschi insediamenti di Villa e Rocca. Segue una tranquilla discesa su Sillano, 735 metri, dove inizia l'ascesa al Passo di Pradarena. Notare che quanto descritto fin qui si può tagliare raggiungendo Sillano da Piazza al Serchio; dalla stazione del treno sono solo sette km. Sopra Sillano, si raggiungono con modeste pendenze le Capanne di Sillano; poco oltre, pedalando tra i prati, si attraversa il paese di Ospitaletto e, tornati nel bosco, con un unico ampio tornante si raggiunge il Passo di Pradarena, dopo aver incontrato anche una piccola sciovia. Consiglio, a chi abbia tempo, di abbinare la traversata del passo con la salita al Monte Cavalbianco, prima per un suggestivo bosco di faggi, indi per la cresta. Tale cima, essendo leggermente eccentrica rispetto allo spartiacque appenninico, è un belvedere scelto sui vicini Laghi del Cerreto (chiudendo un occhio sull'orrendo casermone alla base degli impianti sciistici), sul Cusna, e su tutto l'Appennino Reggiano, che qui si può ammirare nel suo andamento dolcemente digradante, contraddetto solo dal subitaneo slancio della Pietra di Bismantova. Al valico sono le 14.30, mi restano meno di quattro ore per coprire gli oltre 80 km che mi separano dalla stazione di Reggio Emilia. A sorpresa, lungo la discesa incontro un altro Ospitaletto, quasi alla stessa quota del gemello meridionale; poco sotto segue Ligonchio, donde una strada traverserebbe il deserto fondovalle Secchia per raggiungere, con quasi 300 m di risalita, la statale del Cerreto a Busana. Io preferisco costeggiare, con panoramico traverso, tutto il versante settentrionale del massiccio del Cusna; deliziato dalla splendida luce pomeridiana, attraverso Casalino, Piolo, Cerré e Sologno ed arrivo a Villa Minozzo, dove una rapida volata mi porta sul fondovalle Secchia, al ponte di Gatta dove si esaurisce la superstrada che risale la valle da Modena. Anziché seguire questo percorso scontato, risalgo per trecento metri fino a Felina, dove mi innesto sulla statale del Cerreto. Chiacchierando con un estemporaneo compagno di strada arrivo a Casina, dove resta solo la volata finale per Reggio, 160 km da Castelnuovo Garfagnana.

Le Radici

Le Radici sono un passo unico, per diversi motivi. Innanzitutto la varietà degli accessi, con almeno otto possibilità sul versante emiliano. In secondo luogo, la lunghezza delle salite dalla Pianura Padana: quella piú breve, da Ponte Dolo, misura poco meno di quaranta km, da sommare ai trenta della marcia di avvicinamento da Sassuolo. Dal fondovalle garfagnino, si segnala invece il curioso dualismo tra un accesso di 31 km, seguendo la statale 324, e uno di soli 17 km, attraverso San Pellegrino in Alpe. Il primo tracciato è consigliabile in discesa; presenta una breve contropendenza in corrispondenza del Casone di Profecchia, ma in seguito, e fino al fondovalle, costituisce una delle discese piú piacevoli e riposanti. Il secondo tracciato, unico nel suo genere, costituisce una salita di grande impegno e una discesa avventurosa. Snodandosi con condotta inusitatamente panoramica lungo la cresta di una marcata dorsale secondaria, nell'ultimo tratto la strada letteralmente decolla guadagnando 400 metri in 2 km e mezzo, con pendenze fino al 20 per cento, che si placano nella piazza di San Pellegrino in Alpe per poi continuare, leggermente attenuate, fino al passo del Pradaccio, 1600 metri. Su una recente pubblicazione ciclistica ho trovato per questo valico il toponimo di Passo del Giro del Diavolo, del quale però non ho avuto nessun altro riscontro. Questo originale tracciato ha una sua storia: nel Settecento, allorché vi fu l'unificazione dei domini di Massa e Carrara con il Ducato di Modena, a seguito di un opportuna combinazione matrimoniale, l'ingegner Domenico Vandelli fu incaricato di costruire (1738-1751) una via che unisse Massa e Modena passando a debita distanza dai confini, condizione quest'ultima che forzava a superare arditamente l'Appennino al passo del Pradaccio, e ancor piú arditamente le Apuane, che prese veramente di petto. In effetti la Via Vandelli è conosciuta soprattutto agli escursionisti apuani, per l'eccezionale tracciato selciato che sale da Resceto ai 1620 metri del Passo della Tambura. Ma anche il ciclista che sale a San Pellegrino ha da ringraziare l'ingegnere, perché la moderna provinciale (ottimanente asfaltata e mantenuta) segue fedelmente l'antico tracciato.

Già prima di Vandelli, comunque, il passo delle Radici veniva transitato per motivi "amministrativi." La Garfagnana fu per un lungo periodo dominio estense, e per tre anni il duca di Ferrara vi mandò come governatore Lodovico Ariosto - in realtà, gli stava infliggendo un dispettoso esilio. Anziché stare tranquillo a limare le sue ottave, l'Ariosto doveva pattugliare le boscaglie della vallata per tentare di stanare, coi dodici alabardieri che aveva in dotazione, i banditi che vi imperavano. Oltre ad essere perduta in partenza, la battaglia non faceva proprio alla sua indole:

Ed anche i trasferimenti da Modena a Castelnuovo sono dipinti con tinte molto fosche. Ogni tanto, pedalando fra le fitte faggete delle Radici, mi immagino l'Ariosto con la sua carovana che muove, sconsolato, verso il suo governatorato, al tempo in cui queste strade dovevano effettivamente fare paura. (Un diffuso resoconto delle disavventure dell'A. in terra garfagnina e sulle vie dell'Appennino si trova nel libro di A. Flamigni - R. Mangaroni, Ariosto).

L'accesso piú logico dal versante emiliano non è certamente costituito dalla SS 324 delle Radici, che da Silla nella valle del Reno corre parallela allo spartiacque appenninico per poi, con un ultimo arco, traversarlo e scendere su Castelnuovo Garfagnana. Nemmeno la SS 12 dell'Abetone e del Brennero costituisce un accesso diretto come linea, non già come altimetria, specie per la laboriosa salita del Barigazzo. L'accesso preferenziale al passo è dunque dato dalla SS 486 di Montefiorino, che sale da Modena seguendo le valli della Secchia prima e del Dragone poi, sostanzialmente senza dislivelli superflui, e si innesta sulla strada delle Radici due km e mezzo sotto il passo, al Casone dell'Imbrancamento. Qui in tempi passati le carrozze lasciavano, d'inverno, i viaggiatori, che venivano caricati sugli slittoni che facevano la spola tra l'Imbrancamento e il Casone di Profécchia. Alle Radici nevica molto anche al giorno d'oggi; leggere sotto per credere. La SS 486, benché commissionata dal Duca di Modena solo nel 1850, segue un'antica via di passaggio, detta Via Bibulca, frequentata anche dai pellegrini che si recavano al santuario di San Pellegrino in Alpe, che la tradizione vuole fondato da due monaci irlandesi, San Pellegrino e San Bianco, nel secolo VII. La SS 12, nel tratto Modena-Maranello-Abetone è invece detta Via Giardini, dal nome di uno dei due ingegneri ce la progettarono nell'Ottocento, Pitro Giardini e Leopoldo Ximenes.

La SS 486 tra Modena e Sassuolo è praticamente introvabile. Qualora esista, non se ne trovano le tracce per via della costruzione di nuove strade; le indicazioni in particolare mandano lungo una variante trafficatissima. La cosa migliore è, arrivati dalle parti di Baggiovara e di Casinalbo, riuscire a svicolare verso Magreta, dove un bel rettilineo lungo la Secchia conduce a Sassuolo senza patemi di traffico. Arrivati sulla lungomonte, astenersi dal seguire le indicazioni per il passo delle Radici. Cosí facendo, si verrebbe irreversibilmente istradati sulla nuova variante del fondovalle Secchia. Conviene invece raggiungere il centro di Sassuolo e, poco sotto il palazzo Ducale, individuare la strada che porta al ponte sul quale, correndo accanto alla ferrovia dismessa, si superano sia il fiume che la variante, per arrivare alla vecchia 486. A Castellarano si è costretti a confluire sulla strada nuova, ma l'averla evitata per buon tratto è già un notevole risultato. A Rotéglia si può avere un po' di tregua dal traffico passando in mezzo al paese. A Lugo si può scegliere se arrivare a Cerrédolo per la strada nuova, che corre interamente su piloni sopra il greto del torrente (a quest'altezza il traffico è già sufficientemente rarefatto), o per la strada vecchia un po' piú accidentata, complice anche qualche cedimento del terreno. Non c'è da spaventarsi se a ora di pranzo, seguendo quest'ultimo percorso, ci si trova ad un certo punto stretti fra due file di bisonti parcheggiati: c'è un ristorante particolarmente indicato all'ingresso del paese, ed i camionisti lo sanno. Da Cerredolo si arriva in breve a Ponte Dolo, e qui si comincia finalemtne a salire.

Paesaggisticamente, il passo delle Radici vero e proprio non è eccezionale. Basta però imboccare lo stretto budello che porta con pendenza incredibile al Pradaccio, e scendere al paese di San Pellegrino, per trovarsi nella posizione piú eletta di tutto l'Appennino tosco-emiliano. San Pellegrino è un inestimabile belvedere sulla Garfagnana e sul profilo delle Apuane. Trovarsi qui, in pieno inverno, al tramonto, è un'esperienza che non ha uguale. Scendendo dal Pradaccio, la neve ventata riflette sulla la sua dura crosta i colori del tramonto che fiammeggia sopra la Foce dei Carpinelli; ogni pendio, ogni gibbosità assume una tonalità diversa. Arrivati in paese, vale la pena di andare a bersi un ponce da Pacetto, per ammirare al caldo attraverso le ampie vetrate l'inestimabile spettacolo. Bevuto il ponce, conviene scendere per la galleria che passa sotto il nucleo di case stretto attorno al santuario, e passeggiare fino alla croce panoramica, al cospetto del gruppo delle Panie. In ogni caso, se il vento dovesse sospingere neve fresca sulla strada, è meglio organizzarsi in maniera da scendere il primo ripidissimo tratto prima del buio, in modo da evitare seri rischi.

9. Radici per Riccovòlto

Il mio primo attraversamento del valico, che avviene nell'agosto del 1995, segue per cosí dire la via normale. Provengo dalla Corsica, dove ero giunto mediante una traversata Aosta-Nizza attraverso sette passi alpini (Piccolo San Bernardo, Iseran, Galibier, Izoard, Vars, Bonette, Couillole) e quindi mi sembra equo tornare attraverso un adeguato valico appenninico. La salita avviene attraverso San Pellegrino, e sulle rampe finali mi aspetto il peggio, per via del carico notevole, ma l'allenamento fatto sulla Alpi mi aiuta a passare indenne. Per aiutarsi psicologicamente durante la lunga salita, conviene crearsi dei punti di riferimento: dopo il bivio di Pieve Fosciana (500 m) è utile guardare il Sillico (700 m), che giace sul crinale piú ad est, e che lentamente si inabissa. Poi si punta a Chiozza (900 m) tenendo come riferimento il grosso campanile; attraversato il paese (anche con una strettoia molto ripida), l'ultimo punto fermo è dato dalle Case Boccaia (1110 m), dove inizia il tratto folle dell'ascesa. Gli ultimi tornanti che conducono alla piazza del paese, quasi come si raggiunge un piano superiore per una scala a chiocciola, sono veramente esaltanti. A Piandelagotti faccio ricerche di un amico pisano che ha una casetta in legno quassú - anche se in genere con lui parliamo di Valsugana, dove ha fatto per sette anni l'alpino. Trovo il posto quasi per caso, ed accetto la proposta di fermarmi per la notte. Siccome sono partito da Pisa in bici, infatti, è già pomeriggio inoltrato. Il rischio di fermarsi da queste parti in agosto è che non ci sono due giorni di bel tempo consecutivi; infatti al mattino il tempo è molto incerto. Attraverso le brume prima, e un caldo infernale piú sotto, arrivo al treno a Crevalcore, 225 km da Pisa.

10. Radici per il Barigazzo

Nell'ottobre del 1995 parto da San Giovanni in Persiceto, già con un po' di fatica alle spalle in quanto una levata intempestiva mi ha costretto alla prestazione per me insolita di arrivare da Marter a Trento in 59 minuti. Anche la giornata, oppressa da un cielo plumbeo, non collabora alla definizione di un'impresa memorabile. Una specie di contrappasso per la magnifica traversata del Passo di Pradarena effettuata la settimana precedente. Attraverso Ponte di Samoggia, Bazzano, Savignano e Marano arrivo al bivio (m 203) dove devo lasciare il fondovalle Panàro per salire all'altipiano del Frignano: qualche tornante fino a Coscogno, indi un tracciato abbastanza lineare in mezzo ai prati. A 750 metri confluisco sulla statale dell'Abetone, che conduce a Pavullo. La strada aggira poi lo spuntone dove sorge la rocca di Montecúccolo. È questo, e non il paese di Montecúccoli che domina la valle del Bisenzio (sopra la caratteristica rocca che si nota dal treno scendendo verso a Prato), il luogo d'origine del condottiero Raimondo Montecuccoli, lo scrittore di arte militare che fu tra i protagonisti della Guerra dei Trent'anni (assieme ai personaggi del Wallenstein di Schiller...). Seguendo il crinale, con un panorama che si barcamena tra la valle dello Scoltenna e quella del Rossenna, la strada sale a Lama Mocogno che, dopo aver visto cento cartelli in proposito, uno ammette per sfinimento essere un gran centro di Soggiorno e di Turismo. Segue la salita del Barigazzo, che porta a 1217 metri e se affrontata in un bel giorno d'autunno, esposta com'è verso sud, ha l'aria di essere molto bella. Nella discesa su Pievepelago sono da mettere in conto due severi strappi in contropendenza. Per salire alle Radici scelgo la SS 324 attraverso Sant'Anna Pelago. Come spiegherò in seguito, non è la soluzione migliore, ma come primo approccio può andare. Arrivo al passo alle 17, proprio mentre alla chiesetta presso l'albergo Lunardi inizia a suonare il carillon dell'Ave Maria, che diventerà una specie di appuntamento fisso dei transiti successivi, complice l'orario dell'ultimo treno utile dalla Garfagnana per Pisa, che passa da Castelnuovo alle 18.33. Senza salire al Pradaccio, scendo in maniera piacevolissima per la statale, arrivando al treno, a 165 km dalla partenza, con ampio anticipo.

11. Radici e Centocroci

Magnifica la traversata che effettuo alla fine dell'ottobre del 1996, in mezzo a uno scenario autunnale di prim'ordine. Come accade spesso nelle migliori uscite, la partenza non promette bene, e le brume della Garfagnana sono infatti particolarmente fosche. A metà strada fra Pieve Fosciana e Chiozza, comunque, le nebbie si dissolvono lasciandomi a tu per tu col profilo nitido delle Apuane e in particolare dell'Uomo Morto, silhouette di persona un tantino pingue che giace supina, formata dalla Pania Secca (fronte), dal Puntone di Mezzo al Prato (naso), e dalla Pania della Croce (il pezzo grosso, ossia la pancia). Questa salita è un osservatorio privilegiato su questa curiosità. Fra il turbinare di foglie secche sospinte dal vento, arrivo alle Case Boccaia dove visito la semplice chiesetta, che una volta tanto trovo aperta. Al successivo decollo della strada, distratto da uno scenario cosí nitido, e senza bagaglio, non ci faccio nemmeno caso. La giornata mi sembra meritare ancor piú della quota del Pradaccio: lascio quindi la bici per salire ai 1700 metri dell'Alpe di San Pellegrino, dove posso osservare tutta la costiera appenninica in direzione del Monte Giovo, e la strada che, prima selciata e poi sterrata, percorre questi altissimi prati per scendere poi su Renaio e Barga. Ripromettendomi di esplorare il percorso in futuro, mi accontento di assaggiare qualche mirtillo residuo, decisamente fuori stagione. In discesa passo per Roccapèlago, staccandomi dalla SS 324 poco sotto l'Imbrancamento. Questa soluzione mi fa risparmiare qualche metro di salita sulla strada dell'Abetone, scodellandomi quasi a Sant'Andrea Pelago. Una strada secondaria entra zigzagando nel paese, particolarmente soleggiato e tranquillo (qui visse per lungo tempo il "poeta maledetto" Ceccardo Roccatagliata Ceccardi), ne esce verso l'alto, diventa sterrata e conduce, da ultimo con un traverso in falsopiano e anche con una leggera discesa, al passo di Centocroci, la cui quota è di poco inferiore ai 1200 metri. Registrato il transito sul libro custodito nella piccola Maestà del valico, inizio a scendere per la strada asfaltata che, dopo qualche tornante iniziale, inizia un lungo mezzacosta sul fianco destro della vallata. A Boccassuolo (m 1001) devo un po' portare la bici a spasso per il fango causa una grossa frana; segue Palàgano (m. 703), nome che deriva nientemeno che dalle pepite d'oro (palagae) di cui evidentemente esisteva qualche traccia. A Lama di Mónchio (m. 794), posto proprio di fronte a Montefiorino, inizia la discesa che porta in breve al luogo dove la Secchia riceve il torrente Rossenna. Traversando quest'ultimo, inizio a salire verso Prignano; senza entrare in paese, poco sopra il cimitero animato dall'andirivieni dei giorni precedenti i Santi, svolto a sinistra, per iniziare un lungo mezzacosta che, amministrando la quota in maniera molto oculata, porta direttamente a Sassuolo. Sarebbe un modo molto gradevole per risalire il solco della Secchia, se non fosse per l'incomodo di dover perdere tutta la quota a metà strada. Avendo ancora tempo e voglia di pedalare, attraverso Modena, Nonàntola e Sant'Agata Bolognese, ed arrivo quando orami è buio alla stazione di Crevalcore, 175 km dalla Garfagnana.

12. Radici per Frassinoro

C'è da meravigliarsi che, fra il Gran Lombardo di Dante, quello della Conversazione in Sicilia e questo, la letteratura italiana scovi Lombardi nei luoghi piú inusitati; c'è meno da sorprendersi che il Pascoli conoscesse questi luoghi che, grazie al passo delle Radici, distano meno di 50 km da Castelvecchio. (Sarò poi grato a chiunque mi sappia dire dov'è Cerú).

Nel dicembre 1996, dopo lo scontato tratto Modena-Ponte Dolo, inizio la salita per i tornanti di Montefiorino e dopo i primi due giro a destra per una strada che si inoltra nel bacino del Dolo, rimanendo sempre alta sul fondovalle. Passato Rubbiano e la sua pieve romanica, svolto a sinistra per una via che arriva in centro a Montefiorino (laddove la SS 486 di Montefiorino non si avvicina nemmeno all'aabitato). In paese la salita prosegue in direzione Frassinoro; la salita è concentrata nei tornanti iniziali. A Frassinoro (m 1127), "capoluogo" dell'alta valle del Dragone, i prati cominciano a essere rigati di neve a dispetto della posizione molto soleggiata; segue un piacevole traverso verso la Madonna di Pietravolta (m. 1151), posta su una notevole depressione del crinale. La trasparenza dell'aria invernale mi permette, dal piazzale del santuario, di scorgere le sagome bianche delle Prealpi bresciane. Dopo la breve discesa con la quale la provinciale va a confluire sulla SS 486 (che da ultimo si è fatta sotto con una sequenza di tornanti), devo salutare il sole; traversare Piandelagotti è come entrare in una ghiacciaia. Piú sopra, verso le Radici, i faggi sono ancora carichi di neve polverosa. Magnifico il tramonto a San Pellegrino; solo che mi attardo un poco e affronto la discesa col buio, rischiando di incocciare in un gregge di pecore che sta silenziosamente attraversando la strada. Fortunatamente la cosa si risolve al meglio: l'esito di una frenata improvvisa su pendenze simili, infatti, non è per niente scontato. Da Modena a Castelnuovo sono 170 km.

13. Radici per Strettara

Nel novembre del 1997 parto da San Giovanni in Persiceto, e muovo verso la pedemontana che fiancheggia, molto panoramica, le colline di Castelvetro. A Maranello comincio a salire per Via Giardini, ovvero la vecchia statale dell'Abetone, che fino all'altipiano del Frignano è totalmente deserta, grazie alla nuova strada che risale molto direttamente il fondovalle del Tiepido. L'inizio è tra ville e vigneti in meravigliosa veste autunnale; la progressione è rallentata da numerose quanto doverose fotografie. Sopra la chiesa di San Venanzio si segue il crinale, dopo Stella si scavalca la collina che nasconde Serramazzoni, 791 metri. Segue una discesa di cento metri e dopo, tra vari saliscendi in mezzo alle fabbriche di ceramica, che popolano l'altipiano non meno della fascia pedemontana, arrivo a Pavullo, che, con i suoi grattacieli svettanti dai campi, ha un'aria straniata di metropoli relegata in esilio. Costeggiando nientemeno che l'aeroporto, e aggirando il Montecúccolo, arrivo a Lama Mocogno, dove abbandono Via Giardini per imboccare il raccordo che con qualche tornante scende a Vàglio, indi ai 580 metri del Ponte di Strettara, sul torrente Scoltenna, per andare a congiungersi sull'altro lato con la statale delle Radici. Tale raccordo è in fase di ampliamento, e questa non è una cattiva idea, perché a conti fatti si tratta dell'accesso meno laborioso alla zona di Pievepelago, e quindi all'Abetone. Per ora le migliorie sono limitate al tratto di risalita dopo il ponte: un tunnel di 1500 metri, contraddistinto da un rimbombo incredibile, indi un tratto su piloni, asfaltato di fresco, che io stupidamente non imbocco. Rispettando il divieto di accesso, risalgo invece qualche tornante in direzione Montecreto, per riperdere la quota subito dopo. A Pievepelago scelgo di passare per Roccapèlago, il che mi permette di godere dell'ultimo sole. Indipendentemente da ciò, questo tracciato è molto piú vario e panoramico rispetto alla statale che sale per Sant'Anna. Attraverso San Pellegrino, arrivo al treno in tutta comodità.

14. Radici per Toano e Civago

Nel marzo 1998 abbandono la statale 486 già a Cerredolo, per puntare verso Toano, con una salita tranquilla e regolare di 600 metri. Toano, 842 metri, è posto in posizione privilegiata sul promontorio che si incunea tra la valle della Secchia e quella del Dolo, allo stesso modo che il promontorio di Montefiorino separa, poco piú a monte, il Dragone dal Dolo. La sorpresa della giornata è che a Toano si mettono a cadere appariscenti fiocchi di neve; li interpreto come uno scherzetto del tempo, destinato a esaurirsi in breve. Già scendendo verso l'insellatura di Quara, 722 metri, ho la dimostrazione che invece la cosa si va facendo seria, e intuisco che, addentrandosi verso lo spartiacque, le cose andranno peggio. Superata la località Gova, il percorso si snoda per contrade desertiche, delle quali vedo ben poco, grazie alla neve che mi rende inservibili gli occhiali. Non avevo previsto che per traversare l'Appennino fosse prudente portare gli occhiali da sci. A un certo punto confluisco sulla provinciale che congiunge Villa Minozzo e Civago, luogo questo che si raggiunge con una certa perdita di quota. In questo tratto ha luogo l'unico incontro dei 45 km fra Toano e le Radici: un automobilista abbastanza indaffarato a tenere la strada da non accorgersi della mia presenza. Civago è posto proprio a ridosso dello spartiacque appenninico; ciononostante, arrivare a quest'ultimo è ancora laborioso. Bisogna infatti salire dai 1011 metri di Civago ai 1294 di Roncadello; dopo altri 50 metri di salita si scende ai 1200 metri di Piandelagotti, dove si imbocca il lungo traverso che porta all' Imbrancamento. La bici comincia ormai a fare la traccia nella neve fresca. Nell'ultimo tratto della salita al passo sono superato da una Ferrari, la seconda automobile dopo il precedente, piú dimesso incontro. Per vederne una terza dovò attendere fino a Castiglione di Garfagnana. Al passo l'asfalto è coperto da 40 cm di neve; benché urga scendere, mi riparo un attimo in un garage aperto di fronte all'albergo Lunardi. Dall'altra parte della strada, il carillon della chiesetta, resa invisibile dalla fitta nevicata, mi annuncia che sono le cinque, dato che nella situazione odierna non è confortante. A dire il vero, piú che di capire se riuscirò a scendere in un'ora e mezzo, si tratta di vedere se riuscirò a scendere in assoluto. Comincio la discesa inneggiando alla tenuta del mezzo, ma alla prima curva secca quest'ultimo tira a diritto e va a piantarsi in un cumulo di neve. Io giaccio lungo disteso in mezzo alla carreggiata, e starei anche lí volentieri tanto è morbido il giaciglio, se non avessi fretta e non temessi il sopraggiungere della Ferrari. Al Casone di Profecchia, contrariamente alle mie attese, la nevicata non si calma. Stesso bollettino alla Foce di Terrarossa, dove però sulla strada comincia ad esserci poltiglia, fatto questo che, anziché facilitare la discesa, propizia un secondo volo. Solo in vista di Cerageto, a quota 800, posso aumentare la velocità quel tanto che basta a rientrare nel ruolino di marcia. A Castiglione di Garfagnana i bambini, impazziti di gioia, sono tutti in strada, a guardare i fiocchi che turbinano attorno alle alte mura di cinta. Piú sotto piove a dirotto, cosicché pochi km sono sufficienti a farmi arrivare fradicio in stazione, appena in orario. Anche se a Lucca ufficialmente i servigi delle ferrovie finirebbero, in quanto il treno prosegue senza effettuare trasporto bici, il capotreno dà una pietosa occhiata al mio stato, e decide che per oggi si farà uno strappo. Saprò in seguito che, mentre noi scendievamo la Garfagnana, alla stazione di Firenze Castello due treni si scontravano nella nebbia, complici forse gli scambi gelati, con una decina di morti. Fatti i conti, se a Toano fossi tornato indietro, con tutta probabilità mi sarei trovato su uno di quei due treni. Da ciò deduco che talvolta (per quanto raramente) anche la pazzia non viene per nuocere.

15. Radici per Romanoro

A gennaio 1999, parto da San Giovanni in Persiceto. Il compatto muro delle nebbie padane ha appena lasciato spazio a un pallido sole, che fa staccare goccioloni ghiacciati dai rami degli alberi con un curioso effetto di grandine. Tra Castelfranco Emilia e San Cesario la strada è orientata proprio verso la mole bianca del Cimone, la cui distanza non si riesce assolutamente a quantificare. A malincuore a Maranello lascio sulla sinistra la via Giardini, e proseguo verso Sassuolo e Ponte Dolo. Svolto a destra come per andare a Frassinoro, tranne che a Rubbiano tiro a diritto in direzione Romanoro, addentrandomi in falsopiano nell'aperta valle del Dolo. Sulla destra domina la collina di Toano, a diritto, dietro la bassa di Quara dominano il Monte Prampa e l'Alpe di Succiso. Ad un certo punto appare fugacemente anche la Pietra di Bismantova. Sulla sinistra acquista sempre maggiore imponenza la mole bianchissima del Cusna. Uno spettacolo originale è fornito dal versante sinistro della vallata, occupato da ripidi appezzamenti separati da filari di alberi. La neve, infatti, si è sciolta nei tratti esposti al sole, conservandosi in tutti i margini superiori, grazie all'ampio riparo offerto dalle lunghe ombre invernali delle piante. Evidente anche, alla base del Monte Penna, il tracciato della provinciale che fu teatro, l'anno scorso, di una avventurosa traversata sotto la neve. Poco dopo Romanoro c'è un bivio: o si scende al lago (nella fattispecie mezzo ghiacciato) di Gazzano, riservandosi di salire poi a tornanti a Pietravolta, o vi si sale direttamente a mezza costa. Scelgo la seconda soluzione, piú soleggiata; superate le appartate frazioni di Róvolo e Vallorsara, un'ultima manciata di tornanti conduce nei pressi di una fabbrica di ceramiche (curiosamente straniata quassú), e da ultimo al santuario. Quest'ultimo si conferma generoso in fatto di panorama: ancora una volta, dietro le colline di Carpineti, intravvedo il bianco delle Prealpi Bresciane. Segue la trafila già nota, il saluto al sole con speranza di ritrovarlo sullo spartiacque. Stavolta, con un ultimo scatto prima del Pradaccio, riesco ad agguantarlo. Tempo due minuti, e si appoggia proprio sul Passo della Tambura, l'altro alto valico della Via Vandelli. Goduto questo simpatico gemellaggio, inizio la discesa; gli echi del carillon delle cinque mi ricordano che ho un po' di tempo da spendere a San Pellegrino; è l'occasione buona per fare qualche foto a lunga esposizione. Purtroppo mi devo limitare alla piazza e all'interno della chiesa perché colori che fiammeggiano sopra i Carpinelli, disegnando nitidamente i contorni dello spartiacque ligure, o quelli che diffondono tenui dalle faggete innevate del Monte Albano, trascolorando nella tinta violacea del cielo sovrastante, sono al di là delle pretese di qualsiasi pellicola. Guardando le Apuane, invece, dietro la foce delle Porchette e la sagoma del Procinto, scorgo l'ondulato profilo delle montagne di Capo Còrso. Poi, come sempre e come ovunque, arriva purtroppo inesorabile l'ora di scendere.

16. Radici e Cipollaio

Sono convinto che le due piú belle discese della Toscana siano quella dalle Radici su Castelnuovo, lungo la statale 324, e quella dalla galleria del Cipollaio, Alpi Apuane, sulla Versilia. Da tempo desideravo effettuare la logica concatenzaione delle due discese; il desiderio si realizza nel 1999, a fine agosto.

Parto da Modena alle 17.30, ho appuntamento a Viareggio per le dieci dell'indomani. La sera è tranquilla, e da ponte Dolo telefono fiducioso che sto puntando verso il litorale tirrenico. Sui tornanti di Montefiorino già annotta, per cui passo il tempo ad ammirare la rocca illuminata e, di là dalla valle, la scenografica striscia di luci che congiunge Savoniero e Palàgano. Piú sopra invece subentra il buio, unico punto di riferimento la chiesetta di Boccassuolo, alta sul suo spuntone, illuminata da un faro rosso. Sono un po' stupiti i giovanotti che conversano in sella in motorino fuori dai bar di Sassatella e di Riccovolto, vedendo passare un tipo con una bici carica a quest'ora. Quando, passate ormai le undici, raggiungo Piandelagotti, è già un piccolo assaggio di Versilia: una calca di gente si è attardata a conversare in piazza, e dopo aver pedalato per ore nel deserto un lieto brusio ha sempre un effetto vivificante. Alle 23.30 transito davanti alla baita dell'alpino pisano, dove per mia sorpresa c'è ancora luce, anzi di piú: sul terrazzo stanno giusto armeggiando per chiudere baracca. È lecito disturbare a quest'ora? La risposta ovviamente è no, ma data la circostanza corro su per il prato, deciso quanto meno a dare un saluto. Vengo costretto prima a cenare e poi e poi a dormire dentro; protesto per il peso della tenda che mi sarei portato invano, ma la padrona di casa, apprensiva, dice che sapendomi fuori all'umido dormirebbe male. Alle cinque e mezzo sguscio fuori, curioso di vedere come sia il tempo che, si sa, a Piandelagotti non è mai bello per due giorni di seguito. La luna c'è ma è velata ed ha un alone; conformemente ai presagi, al Passo delle Radici mi trovo avvolto in una nube irreale di un colore arancione, dovuto probabilmente al sole nascente. Ma il sole, oggi, è destinato ad avere vita breve. Basta uno squarcio nella nebbia per rendermi conto che sopra la Garfagnana, dove le precipitazioni sono sempre piú sollecite che altrove, il cielo ha già assunto un colore spaventevole. Se al Casone di Profecchia piove, verso Castelnuovo diluvia, e la strada ha piú le caratteristiche di un torrente. Nel giro di mezz'ora è atteso un treno, e mentre sono in sala d'aspetto c'è il momento clou del temporale. A un certo punto, penso che se le cose vanno cosí male, tra poco non potranno che migliorare; ospinto da questa intuizione, esco sotto la pioggia battente e, tenendo le gambe ben levate per salvarmi dagli schizzi, punto verso la valle della Túrrite. Dopo il Mulino del Riccio, il temporale si tramuta in leggera pioggerella. Quando sbuco dalla galleria del Cipollaio sul versante versiliese, non piove piú. A metà discesa, comunque, devo improvvisare una riparazione ad una borsa che, resa marcia dalla troppa pioggia si è staccata. La tregua è breve, un gran finale incalza. L'inferno si scatena a Seravezza: quando arrivo a Viareggio, le strade sono allagate, le macchine devono procedere a passo d'uomo, io mi devo trovare un percorso tra i discordi moti ondosi che sollevano. È con un certo sollievo che arrivo al campanello di Pier Marco. Mi apre la sorella, che giusto quindici giorni prima mi aveva accolto in simile frangente a Viú, reduce dal monte Lera in mutande, per l'essere il resto del vestiario in stato improponibile. Nel vedere la condotta recidiva, scoppia a ridere e, dopo una bella doccia calda, posso essere contento anch'io: il passo delle Radici e il Cipollaio sono stati concatenati.

La zona dell'Abetone

17. Foce di Giovo (m. 1678) per Bocca di Ràvari, Monte Belvedere e Sèstola

All'inizio di settembre 1995, invento una via molto macchinosa per arrivare all'Abetone. Partendo da Bologna nel pomeriggio, salgo sulla collina che sovrasta Casalecchio in direzione dell'Eremo di Tizzano, ben visibile anche passando in treno sulla Porrettana. La strada segue fedelmente il crinale con saliscendi e anche con strappi molto duri. Superati i solitari villaggi di Lagune (533 m) di Medelana, si scende leggermente su Montepastore, confluendo nella strada che risale la raccolta valle del Lavino, strada che conviene seguire fino oltre Tolè. Poi, anziché assecondarla mentre perde quota in direzione Ceréglio, è meglio imboccare un breve raccordo che, toccando la chiesa di Santa Lucia, porta fra boschi alla Bocca di Ràvari, 790 m. Questa variante non manca tuttavia di strappi duri. A Bocca di Ràvari mi accampo in un prato, anche se dormo molto male causa la luce della luna piena che filtra abbondantemente attraverso la tenda. Perdute le speranze di riposare, parto prestissimo al mattino e, attraversato Castel d'Aiano (luogo dove tornava regolarmente in visita George Bush, che qui combatté nella Seconda Guerra mondiale, perdendovi se non mi sbaglio un braccio) raggiungo l'impercettibile Passo Brasa (878 m), che dà il nome alla strada statale. Strada che lascio poco dopo per puntare verso Montese, località turistica molto popolare da queste parti, arroccata a 841 metri su uno spuntone di roccia a dominio della valle del Panàro. Subito dopo devio a sinistra verso la frazione Maserno, dove inizia un panoramico traverso gradualmente ascendente che porta ad aggirare a una quota intorno ai novecento metri il Monte Belvedere, dietro il quale si scende su Querciola dove, girando a destra, si può ritardare la confluenza sulla statale SS 324 delle Radici. Toccati i 424 metri al ponte sul torrente Dardagna (che origina al lago Scaffaiolo), il percorso prima risale, poi ridiscende per attraversare il fondovalle del Panaro, infine risale a Fanano, località di soggiorno che si vanta di diventare, d'estate, una specie di museo di scultura all'aperto. Il ciclista sarà comunque piú interessato al ventaglio di cinque salite che si dipartono dall'abitato: lago Pratignano, Croce Arcana, Taburri, lago della Ninfa e Cimone; l'ultima, quella che imbocco io, sale con tranquilli tornanti a Sèstola, 1020 m, primizia dello sci emiliano. Segue una discesa su Montecreto, sito su una rocca, e una ulteriore fino al fondovalle dello Scoltenna, che si raggiunge poco sopra il Ponte di Strettara. Questo tratto, con l'acqua verde del torrente che scorre stretta fra boschi e lucidi affioramenti rocciosi, è piuttosto interessante. Superate alcune vestigia medievali, tipo il paese di Riolunato (dove si vede decollare la strada che porta alle Polle) e il ponte a schiena d'asino della Fola, si entra in Pievepèlago. Decido di salire in direzione Abetone; il dislivello è piú contenuto ma la salita piú ripida rispetto alla corrispettiva dalla Valle della Lima. A tre km dal passo però opto per la strada secondaria che si inoltra nella Val di Luce, con l'intenzione di deviare poi per la Foce di Giovo, 1674 metri. Questo alto valico è percorso da una strada, detta Strada del Duca che, si potrebbe dire, sta all'Abetone come la Via Vandelli. sta al Passo delle Radici. Gli ingredienti sono analoghi: Maria Luisa duchessa di Lucca che vuole un collegamento con Modena senza passare attraverso le dogane del Granducato di Toscana (non a caso la foce è dominata dall'Alpe Tre Potenze). L'opera fu completata fra il 1819 al 1829, ma cadde in disuso dopo una ventina d'anni. Il libro di Grillo-Pezzani cita il giudizio di un poeta, tale Giuseppe Liparini: "chi pensò una via in questa altezza e in questa solitudine era un poeta piú che un architetto di strade." La cosa strana è che il foglio Toscana del Touring segna questo bizzarro tragitto come strada asfaltata. Fiducioso, io lascio il tragitto della Val di Luce presso Casa Coppi, ma già di là dal torrente mi si presenta un selciato che non lascia dubitare di un grosso errore di stampa. Piú che al Toring, bisogna plaudere ai costruttori di una volta per come è conservato bene questo selciato; con un bagaglio sobbalzante come il mio però questi grossi sassi costringono a procedere a spinta, sistema che ho modo di praticare per piú di cinque km prima di raggiungere la foce, e che suscita la compassione di numerosi gitanti domenicali. Il tracciato passa bel presto dalla Val di Luce a quella delle Tagliole, dove si apre un panorama molto ampio sui pendii settentrionali del Giovo e del Rondinaio, che nascondono anche numerosi laghi di origine glaciale. Pochi metri prima del passo, si presenta uno spettacolo originale: il pendio occidentale dell'Alpe Tre Potenze, alto trecento metri, è tutto colorato di piante di mirtillo, incredibilmente cariche di frutti; consiglio a chi dovesse transitare di qui nella stessa stagione di stanziare del tempo e di dotarsi di adeguata attrezzatura. Alpinisticamente, invece, la meta piú prelibata sarebbe l'incombente Rondinaio, la cima piú interessante di questo tratto di Appennino, ben distinguibile anche dalla piana pisana. Ignorando le condizioni della lunga discesa sul versante lucchese, io preferisco non attardarmi. Un esposto traverso sul fianco orientale del Rondinaio (ben distinguibile, d'inverno, dalla stazione piú alta degli impianti sciistici della Val di Luce) porta in un bel bosco rado, alla fine del quale si ha un ottimo panorama sulla bassa valle del Serchio, paragonabile a quello che vi si gode da Montefegatési. Lo stato della strada su questo versante è comunque molto migliore, in quanto la Provincia di Lucca si cura di mantenerla. Al Rifugio Casentini, 1180, inizia l'asfalto ed una scivolata verso il fondovalle di 23 km, paragonabile come divertimento alla discesa delle Radici. Superato il bivio per l'orrido di Botri e Montefegatesi, si arriva a Teréglio, arrocato su uno spuntone e cinto da una cerchia ovale di mura. La visita del paese ripaga abbondantemente di una breve risalita. Poi, arrivato in fondovalle, pedalare fino a Pisa è operazione di routine. Da Bologna a Pisa per questa via sono 225 km, dei quali cinque a spinta.

18. Passo di Croce Arcana (m. 1690)

Con i suoi 1690 metri, sedici piú della Foce di Giovo, la Croce Arcana è il valico piú alto dell'Appennino settentrionale. A dispetto della quota e del tratto di strada sterrata, costituisce un passaggio molto sbrigativo tra Pisa e Bologna. Un tracciato logico di fondovalle porta infatti da Pisa a Cutigliano, 670 m, base della salita da sud; un altro fondovalle di assoluta dirittura conduce da Fanano, 640 m, alla Pianura Padana. L'improvvisa impennata che porta a superare lo spartiacque è notevole come dislivello, ma brevissima come sviluppo. Io mi sono trovato su questa strada nell'ottobre del 1997. La salita a Cutigliano e alla Doganaccia, tra un frusciare di foglie secche portate a spasso dal vento, mi ha ampiamente ripagato dalla marcia di avvicimento fatta da Pisa, nell'umida frescura mattutina dei fondovalli del Serchio prima e della Lima poi. Sopra Cutigliano, chi fosse attratto dalla testata della valle della Lima, che si para davanti maestosa in direzione Abetone, ha la possibilità di deviare per un traverso che da Melo porta alla SS 12 in località Pianosinatico - attenzione: si chiamava Piano Asinatico perché carrozze dovevano affidarsi alla trazione supplementare di asini onde vincere la pendenza. Continuando, si raggiunge invece la Doganaccia, zona residenziale posta oltre i 1500 metri, cui sale da Cutigliano anche una funivia che però ha l'aria di essere dismessa. Il nome del luogo deriva dalla dogana granducale (una di quelle che Maria Luisa duchessa di Lucca voleva evitare passando per la Foce di Giovo). Superato questo che in ottobre è un abitato fantasma, la strada diventa sterrata, e i boschi cedono improvvisamente il passo alle praterie sommitali. La guida di Grillo-Pezzani riporta la seguente osservazione di Lazzaro Spallanzani (il naturalista toscano, ovviamente, non il personaggio dei Racconti d'Hoffmann): Dopo la regione dei faggi se piú in alto si prosegue il cammino, s'incontra una fila di secchi e lunghi rami di questi alberi, i quali rami sono stati ivi conficcati per servire di scorta ai viandanti in tempi di altissime nevi. Imperocché restando di essere allora tutto coperto, facilmente potrebbe smarrire la via, e precipitare in un vicino burrone. E va detto che questi brevi prati sommitali danno veramente il senso dell'ampiezza, specie se si guarda verso il tratto di cresta che cela il lago Scaffaiolo. Stesso senso di ampiezza si ha all'insellatura del passo, cui si arriva in leggera discesa, dove io trovo un forte vento. Salutato il panorama toscano, sul versante emiliano mi addentro subito nel bosco. Il percorso è sterrato fino a Capanna Tassone, 1150 metri; piú sotto, il paese di Fanano si raggiunge con una risalita non trascurabile, finita la quale, la discesa verso Vignola e il treno a San Giovanni in Persiceto è solo routine (175 km da Pisa).

19. Lago Scaffaiòlo (m. 1775)

Premetto che mi attirerò gli strali delle persone oneste inserendo fra le traversate riuscitela presente che riuscita non è del tutto, avendo passato sí l'Appennino, ma avendolo in definitiva fatto in treno. In una domenica di maggio 1999, scarico la bici dal treno a Porretta, intorno alle dieci, impegnandomi subito nella ripida salita verso Capugnano, salita che sarebbe proficuamente evitabile passando per Silla. Il paese di Castelluccio domina il percorso da una postazione scenografica; un primo piano ideale sullo sfondo del Corno alle Scale. Scendo verso la Valle del Silla (mancando per poco l'operazione di arrotare una grossa vipera), dove mi immetto sulla statale delle Radici, che mi porta a Lizzano in Belvedere, famoso se non altro per ospitare la caserma del carabiniere Alberto Tomba. Abbandono la statale a Vidiciàtico, duecento metri piú in alto, e imbocco la strada che conduce agli impianti del Corno alle Scale. Con salita non proibitiva, e da ultimo con un traverso pianeggiante, raggiungo la Madonna dell'Acero, nascosta a 1195 metri nel folto del bosco. Qui inizia uno strappo durissimo che porta ai 1415 metri del Rifugio Cavone. Fatico abbastanza per effetto del grosso bagaglio che mi sono portato dietro, con l'intenzione di andare poi a vedere il Giro d'Italia sul Colle di Fauniera, desideroso di fare un revival della salita effettuata l'anno precedente. Il progetto fallirà per mancanza di tempo, ma il bagaglio per intanto c'è. Al Cavone, proprio sotto la cima del Corno alle Scale, c'è un laghetto; devo improvvisamente buttare all'aria i miei biscotti per andare a tirare fuori dall'acqua una bambina che sta annaspando, tra l'indifferenza dei numerosi gitanti, intenti a scorticare braciole in riva al lago. La consegno gocciolante in braccio al padre, quando questi si accorge che l'evento lo può interessare. Poco sopra trovo gli impianti sciistici, dall'aria molto fatiscente, finché la strada, sempre ripida, non si esaurisce in un parcgheggio. Sto per iniziare la discesa, consigliato dai nuvoloni nerissimi che stazionano sopra lo spartiacque, quando individuo una sterrata che sale, e la curiosità mi spinge a seguirla. In vista dei Piani di Baggioledo e del Rifugio Le Mandrie, 1630 metri, grossi depositi di neve cominciano ad ingombrare la carreggiata. Superatone qualcuno, mi rendo conto che è meglio lasciare il mezzo. Salgo di corsa per il ripido prato che porta in cresta, incrociando i tornanti della sterrata che continua, avventurosa, fino al lago Scaffaiolo, 1775 metri, dominato dalle lamiere gialle del Rifugio Duca degli Abruzzi. A questo punto, se individuassi il sentiero che traversa verso Croce Arcana, sarei disposto anche a spingere la bici fin quassú. Gli escursionisti mi assicurano però che di lí a poco troverei delle lingue di neve che, sul fianco ripido della montagna, renderebbero pericoloso il trasbordo della bici. Meglio allora fermarsi un attimo a godere l'inusitata diversità di accento fra le comitive emiliane e toscane che si incrociano in riva al lago. Fincé non mi scappa l'occhio sul Corno alle Scale: una croce di dimensioni eccezionali lo fa sembrare molto vicino. Decido all'istante di salirlo: facendo i conti ho al massimo mezz'ora disponibile all'uopo. Parto di corsa per il lungo traverso che conduce alla salita finale. Solo continuando a correre fino in cima riesco a trovarmi, allo scadere della mezz'ora, presso un segnale trigonometrico su quello che mi sembra effettivamente il punto piú alto. La croce sta su un cocuzzolo cento metri a nord, piú appariscente per via dell'esposizione sul versante emiliano, ma non piú elevato. Mi precipito alla bici, e con questa verso il fondovalle. Nello spirito del festina lente, a metà della pazza discesa il portapacchi anteriore mi si svelle dalla bici. La riparazione non mi fa comunque perdere il treno.

Pistoia e Prato

A oriente del Corno alle Scale, lo spartiacque appenninico ha un subitaneo abbassamento; fino al Monte Falterona, ormai in territorio aretino, le cime non riescono nemmeno a toccare i 1300 metri. I valichi sono tutti sotto i mille metri, i due piú bassi sono quello delle Piastre (740 m), alla testata della Valle del Reno, e il Montepiano (755 m). Nel fondovalle del Reno scorre la maggiore arteria stradale appenninica, la SS 64 che tutti chiamano familiarmente la "Porrettana." Essa supera lo spartiacque con un tunnel, che il ciclista può per correttezza evitare salendo per il vecchio tracciato al valico di Collina, che tutti chiamano impropriamente "Passo della Porretta." Tale valico è il transito piú diretto, ma non il piú basso, fra il bacino del Reno e Pistoia: passando per le Piatre, infatti, si risparmiano duecento metri di dislivello; in compenso, si fa qualche km (peraltro molto bello) in piú.
Il Montepiano mette invece in comunicazione Bologna e Prato; a sostanziale parità di chilometraggio e dislivello è piú diretto della Porrettana, anche perché vi mancano i numerosi saliscendi che caratterizzano quest'ultima nella bassa valle del Reno. Paesaggisticamente, comunque, il Montepiano è una delle scelte meno interessanti, e la consiglierei solo in caso di particolare fretta (situazione nella quale anche il treno è una soluzione plausibile...).

20. Il valico di Collina (m. 932)

Nel febbraio del 98, volendo essere a Pisa per le due del pomeriggio, non ho altra scelta che attraversare un basso valico del Pistoiese, cosí per la prima volta mi cimento con la Porretta. Essendo una giornata molto tersa, sul tratto un po' monotono fino a Porretta posso comunque passarmi il tempo guardando intorno. Il traffico è dapprima intenso, poi però cala sensibilmente. Un brutto momento è il passaggio per la nuova galleria che taglia l'abitato di Riola: è lunga 2500 metri, in leggera salita, e mi pare di soffocare tanto è inquinata. Consiglio di evitarla accuratamente. Sopra Porretta, raggiunta Pàvana Pistoiese (pistoiese piú di nome che di fatto; basti pensare che è il paese di Guccini), la valle diventa molto angusta: in un punto prima di San Pellegrino al Càssero, c'è spazio solo per la strada, il torrente Limentra, e una stretta casa da cui un filo per stendere i panni raggiunge il lato opposto della valle, passando sopra la strada. Poco prima della galleria di valico, devio a destra sulla salita che porta all'abitato di Collina, un gruppo di case molto isolato e raccolto, con un grandissimo panorama sulla piana pistoiese. Il fatto di provenire da una valle alquanto stretta aumenta l'effetto scenografico di questa improvvisa apertura. La discesa è prudente fino all'innesto sulla statale appena uscita dal tunnel, a causa del fondo molto dissestato. Poi, è un'unica volata sulla città di Pistoia.

21. Prunetta e le Piastre (m. 958)

Il 20 novembre 1998 si vota in Trentino, e io parto da Pisa alle cinque del mattino, per essere sicuro di arrivare a casa per tempo. Esco verso Calcinaia e l'altipiano delle Cerbaie dove, cessato l'effetto protettivo del Monte Serra, mi scontro con un potente vento di tramontana. Ad Altopascio telefono a casa per avvertire che devo rinunciare al giro in bici; dovrò cercare qualche soluzione di fortuna con i treni. Poi però rifletto che se riuscissi, anche con grossi sforzi, a raggiungere Montecatini, dopo sarei di nuovo protetto dalle montagne. E le cose vanno proprio cosí: quando inizio a salire in mezzo agli uliveti della Valdinievole, al cospetto della bellissima rocca di Montecatini Alta, l'aria è ferma e il clima è decisamente primaverile. Guardando in alto, invece, un sistema di cumuli altissimi sembra volersi protendere verso la Toscana, ma si interrompre bruscamente sopra lo spartiacque. Superata Marliana, a Goraiolo confluisco sulla strada che sale da Vellano e dalla Svizzera Pesciatina. Poco dopo però mi aspetta una sorpresa: c'è neve fresca ai bordi della strada e, al di là della nuvolaglia che copre la Valle della Lima, riesco a scorgere che anche il Balzonero e i monti dell'Abetone sono tutti imbiancati. In effetti, scendendo da Prunetta verso le Piastre comincia a nevicare. Dopo le Piastre, fino al bivio per il Passo dell'Oppio, nevica fitto ma con il sole, un basso sole invernale che riesce a penetrare obliquamente sotto il sistema di nubi, cosicché mi trovo a inseguire la mia ombra curiosamente stampata nella fitta rete di fiocchi. In seguito, scompaiono gli effetti speciali e la situazione si fa seria. Al Molino del Pallone comincio a incontrare macchine che salgono con le catene, e poco dopo devo anch'io fare i conti con problemi di tenuta. Per fortuna la Porrettana è vicina, e grazie a un po' di sale lí la neve non ha attecchito. Lo stradone nuova è totalmente deserto, per cui posso scendere di volata per tunnel e viadotti, per una volta in mezzo alla carreggiata. Perfino il tunnel di Riola quest'oggi è immune da smog. A Vergato nevica ancora, e io ho bisogno di un caffè per non addormentarmi sulla strada deserta. Gli avventori che mi vedono entrare cosí ben innevato mi lanciano delle occhiate interrogative, ma ormai posso telefonare a casa che è fatta. Mancano solo 40 km, e devono per forza andare meglio dei precedenti 140. Se per queste elezioni regionali si griderà all'assenteismo, non sarà certo per colpa mia.

22. L'Acquerino (m. 1000 ca)

Nel dicembre del 1995 provo la mia prima via attraverso l'Appennino Pistoiese. Trovo un treno a Lucca abbastanza sul presto, e alle 7.30 parto da Pistoia. Dopo il lungo rettilineo che conduce a Candeglia, la strada comincia ad arrampicare, traversando tutta la fascia degli ulivi, che improvvisamente si interrompe per lasciare posto a una vegetazione incolta. La strada aggira il monte Pozzo di Bagno, 1042 metri, con un tratto spettacolosamente panoramico sulla spianata di Pistoia, Prato e Firenze. Girata la montagna si trova un'ottima fontana, dove mi vesto pesanetemente perché dalla valle della Limentra esce un vento gelido che non lascia presagire nulla di buono. Una discesa ripidissima porta in una specie di catino, ove sorge il Rifugio dell'Acquerino, del quale sento solo abbaiare i cani. Una fitta nebbia ha infatti chiuso tutta la visuale, e comincia lentamente a nevicare. La strada stretta e ricca di bizzarrie altimetriche - ripide discese e strappi altrettanto duri in contropendenza - si cerca uno spazio accanto al torrente; dove la valle si allarga un poco, si comincia a trovare qualche abitato: Monachino, L'Acqua e Lentula, nome quest'ultimo forse noto a qualcuno per via dell'acqua minerale. Segue una fase di lenta ma costante risalita per raggiungere Badi, alto sul lago di Suviana; dalla sella sopra il paese riesco a scorgere i tetti innevati di Porretta. Scelgo comunque di continuare nella valle della Limentra, dalla quale esco a Rocchetta Mattei, dove smette anche di nevicare. Segue una noiosa discesa lungo la Porrettana. A Marzabotto sento la ruota posteriore ondeggiare in modo sospetto. Al semaforo di Casalecchio, infatti, mi scoppia una gomma. Avendo frenato troppo sugli strappi sotto l'Acquerino, lo sbalzo di temperatura tra il cerchione rovente e la strada innevata ha messo a dura prova il fascione che ha ceduto. Con qualche riparazione di fortuna riesco a tirare avanti per qualche km, ma gli ultimi quattro che mi separano dalla stazione di Bologna li devo fare a spinta. Ovviamente non mi lamento: avrebbero potuto essere molti di piú.

23. Il Montepiano da Prato

Racconterò qui come nel giugno del 1996 ho usato il Montepiano come viatico per il... Gavia. La strana circostanza è maturata nel modo seguente. Il giovedí sera, avevo preso ormai da tempo l'impegno di accompagnare una violoncellista in un concerto al Conservatorio di Firenze. Il giorno seguente, il Giro d'Italia passava sul Manghen, ed ovviamente ero tristissimo di non esserci all'appuntamento. Tuttavia, il sabato il giro passava sul Gavia, e lí volevo rifarmi. Le cose rimanevano lo stesso complicate, mancando treni abilitati al trasporto bici sul tratto appenninico, collo di bottiglia di ogni iniziativa. Ho quindi agito come segue: con una breve pedalata antelucana, ho raggiuto la stazione di Nozzano, fra Viareggio e Lucca e sono arrivato in treno a Prato. Passando magnis itineribus il Montepiano, sono riuscito a prendere a Bologna un interregionale che mi portasse a Mezzocorona, in tempo per risalire le valle del Noce, accamparmi all'inizio della salita del Tonale e, il giorno seguente, passare il Tonale, precedere il Giro sul Gavia, lasciarlo passare, per andare a concludere la giornata sullo Stelvio onde essere a casa il giorno dopo.
Da Prato fino a Vernio si costeggia il Bisenzio, dirimpetto alla linea ferroviaria Firenze-Bologna; una volta tanto, passano piú treni sulla ferrovia che non macchine sulla strada. A un certo punto appare, il pittoresco rudere della Rocca Cerbaia, sotto il paese di Montecúccoli. A Vernio si comincia a salire in solitudine ancora maggiore. Il valico è costituito proprio dall'abitato di Montepiano, m 704, dove inizia un tratto in lievissima discesa, prima della risalita di Baragazza. Niente a che fare con la quasi omonima risalita del Barigazzo sulla SS 12, comunque: qui si tratta solo di una settantina di metri. A Castiglione dei Pepoli il panorama si apre all'improvviso, specie verso le colline ad occidente. La discesa è molto scorrevole, a Làgaro si ritrova la ferrovia, appena uscita dal tunnel dell'Appennino: da Vernio in qua, si è fatto quello che il treno fa in un quarto d'ora... Da notare che il tunnel, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non è quello che entra sotto gli ultimi due tornanti della strada; per vederlo occorre seguire una variante. A Sasso Marconi si confluisce sulla Porrettana; da Prato a Bologna sono cento km tondi.

24. Il Montepiano per le Croci di Calenzano e la Crocetta

Nel 1997, alla vigilia di Natale, inizio la giornata con un'ottima figura da impostore. Salendo infatti da Rifredi alle Croci di Calenzano, compero un litro di latte per la colazione. Siccome mi diverte l'imprevedibile variabilità del prezzi del latte in Toscana, mi preparo sempre le monete in maniera da soddisfare ogni richiesta dalle 1900 alle 2500 lire. Preso dall'aspetto combinatorio della faccenda, me ne sto andando senza pagare i due biglietti da mille... Il negoziante vorrebbe scorticarmi, io tento di giustificarmi con lo stato di scarsa vigilanza indotto dalla levataccia; in effetti sono le sette appena passate. Valicate le Croci di Calenzano, la strada scende giocando a incrociare l'autostrada fino alle porte di Barberino. Appena fuori dal paese, imbocco sulla sinistra la stretta stradina che di lí a poco si biforca: a destra si sale a Villa Dogana, a sinistra si punta verso Montepiano. Detta stradina gioca un poco a Davide e Golia con l'autostrada del Sole, indi sale decisamente verso il paese di Mangona, dove una panchina e un tiepido sole creano le condizioni ideali per bere in tutta tranquillità il latte dell'ignominia. Nella salita alla Crocetta, 817 metri, cerco di cantare, e di farlo con la migliore intonazione possibile: la strada è infatti presidiata da cacciatori, e mi preme far capire di non essere un cinghiale. Trovata a Montepiano la SS 325, il tracciato diventa quasi obbligato, ma mi concedo una piccola variante: tra Castiglione e Lagàro mi tengo sul versante orientale del crinale seguendo una provinciale che corre alla stessa altezza dell'autostrada sul lato opposto, per poi confluire, in vista della stazione di San Benedetto val di Sambro e del tunnel dell'Appennino, sulla statale.

Mugello

25. Futa e Raticosa

A maggio del 1995, parto da Firenze piuttosto tardi, salendo in direzione di Pratolino, salita forse piú panoramica di quella vicina alla Vetta Le Croci. Discesa volante su Cafaggiolo (celebre per essere la residenza estiva dei Medici) nell'alta valle del Sieve. Senza arrivare a Barberino, salgo per il crinale di Poggio Muraccio, scelta che comporta un po' di dislivello supplementare, ma che è infinitamente superiore dal punto di vista paesaggistico, non ultimo per le belle case coloniche che si possono ammirare lungo il percorso. A Bivio le due strade si riuniscono per la salita finale alla Futa, senza particolare interesse panoramico. Superata il caratteristico monumento annesso al cimitero militare tedesco, la strada si addentra con traverso panoramico verso il Passo di Raticosa. Si giunge al paese di Pietramala, noto per il santuario e per i cosiddetti fuochi, piccole manifestazioni vulcaniche che nei secoli scorsi si facevano notare di notte per il loro bagliore. Lo strappo finale del passo è duro ma passa presto; quasi piú dura la contropendenza che si trova sull'altro versante in corrispondenza del paese di Filigare, poco prima di Monghidoro, piú noto alle folle per essere patria di Gianni Morandi che non per le sie virtú di stazione turistica. Segue, sempre in buona posizione, Loiano, del quale Michel de Montaigne scriveva: "Loyan, un villaggetto assai scomodo, dove non si trovano che due locande, ben note fra tutte quelle d'Italia per il tranello teso ai viaggiatori di pascerli con belle promesse d'ogni sorta di comodità, prima che mettano piede a terra, e di burlarsi poi, quando sono ormai accalappiati: sulla qual faccenda corrono anche dei proverbi." Ma è noto come il tipo fosse sempre scontento. Da Loiano fino a Bologna la discesa, pur con un paio di risalite insidiose, è molto scorrevole; questo mi permette di prendere, pur con qualche sacrificio, il treno delle due e mezzo essendo partito da Raticosa poco prima dell'una.

26. Futa per Monte Adone e Brúscoli

Anche su un passo di per sè semplice come la Futa ci si può rendere la vita difficile. A tal proposito, conviene nel centro di Bologna cercare la strada per Sabbiuno e la Pieve del Pino. Per uno che non conosce la città, non saprei indicare altro metodo per trovarla che quello seguito da me a settembre 1997: tenersi stretti alla collina, seguire l'intuizione e chiedere. Poi ci pensa la strada a portare su con qualche strappo e qualche inedito panorama sulla Madonna di San Luca, due colline piú ad ovest. Avvicinandosi a Sabbiuno i segue con tracciato pittoresco il sommo di alcuni calanchi. (Chi non avesse voglia di fare fatica può supplire andandosi ad ascoltare l'opera contemporanea I Calanchi di Sabbiuno, fresca acquisizione del catalogo Ricordi). Passata la Pieve del Pino, le indicazioni da seguire sono quelle per Bàdolo, dove si arriva da ultimo con una discesa nel bosco. A Bàdolo inizia il tratto del Monte Adone, una strada stretta che sembra voler portare, anche con forti pendenze, in vetta a questo imponente avancorpo roccioso, prima di cambiare improvvisamente idea e puntare sull'insellatura di Monterúmici. Piú riposante la salita verso Monzuno, donde inizia il traverso che conduce nella deserta testata della Valle del Sàvena, costeggiando lungamente il Monte Vènere, per uscire da ultimo sul crinale di questo, dove sorge la Madonna dei Fornelli. Da qui scendo su Piano del Voglio, posto su un cocuzzolo a guardia dell'autostrada. Inizia poi la lunga e graduale salita alla Futa, dapprima in panorama molto aperto e, dopo il paese di Brúscoli dove si comincia già a precepire qualche accento toscano, in un bosco di conifere. Lasciate a destra due successive diramazioni per Roncobilaccio, si guadagna quasi in piano il passo. Qui stavolta vado in cerca del percorso pioneristico, proponendomi di raggiungere per una sterrata fra i rovi la Villa Dogana. Solo che dopo poco mi lascio tentare da una strada piú larga che scende: scoprirò troppo tardi che essa serve il cantiere di una nuova rotabile che scende dal passo su Barberino attraverso il fondovalle. Constatato che la costruenda strada per ora termina in un campo, non mi resta che risalirne il largo tracciato che, in attesa di essere un poco appianato, offre dei saliscendi da brivido quali non si troverebbero in un'opera compiuta. Arrivato quasi di nuovo al cimitero tedesco, decido di perseverare sulla sterrata invasa dai rovi. Effettivamente, dopo aver incrociato a novanta gradi l'autostrada, mi ritrovo a Villa Dogana. Qui arriva una strada che somiglia piuttosto a un bassorilievo per quanto è butterato l'asfalto. Scendendo con gran prudenza, esco su strade piú ragionevoli a Barberino, dove mi rimane solo da affrontare le Croci di Calenzano.

27. Raticosa e Giogo di Scarpería

Nel marzo 1999 parto da Firenze alla volta del Giogo di Scarpería. Salgo come già altre volte attraverso la Valle del Mugnone alla Vetta le Croci, una strada piacevole lungo la quale si possono osservare i lavori di ristrutturazione della vecchia ferrovia che raggiungeva Borgo San Lorenzo, con ben altra dirittura rispetto al tracciato odierno attraverso Pontassieve. Quasi all'inizio della salita si incrocia a novanta gradi un rettilineo che, simile a una pista di bob, si avventa sul fondovalle dal paese di San Domenico di Fiesole, per risalire con uguale incredibile pendenza sul versante opposto, in direzione Careggi. In discesa dalla Vetta le Croci, sperimento una variante consigliabile. Da Polcanto seguire le indicazioni per Salaiole; in realtà la strada prosegue fino al fondovalle del Sieve, dove sbuca in prossimità di Sagginale. La deviazione comporta una leggera risalita (non scoraggiarsi per il primo muro), una vertiginosa discesa, e poi un tranquillo tratto di fondovalle. Anche dopo Borgo San Lorenzo riesco a complicarmi la via seguendo una strada per Grezzano dalla quale si stacca un traverso per Scarpería che affronta di petto tutta una serie di colline e di valloncelli. Superata un grazioso complesso chiesa-canonica-orto, e aggirato il chiassoso autodromo del Mugello, senza bisogno di toccare il paese si comincia a salire. A 624 metri, in corrispondenza di un piccolo valico, un cippo ricorda eventi della Seconda Guerra mondiale; qui passava la Linea Gotica. Al passo vero e proprio osservo una sterrata che dirama sul fianco settentrionale del Monte Pratone, 1081 metri: ipotizzo che possa arrivare fino alla Colla di Casaglia. In discesa, lasciando da parte l'incerta tentazione della Badia di Moscheta, il cui accesso da valle è giudicato severamente dalla Carta Touring, proseguo attraverso i graziosi insediamenti di Rifredo e Puligno, dove si apre la vista sul fondovalle del Santèrno. Prima di arrivare a Firenzuola, l'attenzione è captata da una sterrata che scende da una collina brulla, con un tracciato simile alle serpentine di uno sciatore in neve fresca. Mi informano a un bar di Firenzuola che si tratta della strada di servizio dei cantieri del Treno Alta Velocità, la nuova linea appenninica che passerà per queste vallate, abbastanza piú a est quindi della ferrovia attuale. Lasciata Firenzuola (422 m), con i suoi portici e il suo bel quadrato di mura, salgo in direzione delle Casette, 831 metri, dove ci si innesta sulla statale della Futa. Paesaggisticamente, questa risalita è la parte migliore del percorso; essa alternando tratti di crinale e prati aperti, sempre con ampie vedute sulla testata della valle del Santerno. Seguono il traverso a Pietramala e lo strappo finale della Raticosa, dove abbandono la SS 65 per puntare verso il fondovalle dell'\'Idice, che si raggiunge in breve trascurando a destra la deviazione per Piancàldoli. A San Benedetto del Querceto lascio il fondovalle per salire con duro strappo a Quinzano, al fine di scendere in Val di Zena. Per fare ciò serve, appena passate le prime case, individuare una stradina poco visibile che si dirama in piano sulla destra. Sembra vada a esaurirsi contro la parete rocciosa; invece essa imbocca l'inizio di una valletta tortuosa che alla fine sortisce l'effetto: su asfalto da ultimo infamemente rammendato, si cala sul paese di Zena. La valle di Zena è un cavallo di battaglia dei ciclisti bolognesi e di Romano Prodi in particolare; vi trovo due personaggi molto agguerriti che mi tirano la volata fino in pieno centro; è solo grazie a loro che arrivo per tempo al treno, con il magro margine di cinque minuti.

28. Casàglia, Sambuca e Faggiola

In una poco promettente domenica di marzo 1998 parto dalla stazione di Firenze in direzione Mugello. Se a Firenze pioviggina, alla Vetta Le Croci diluvia. A Borgo San Lorenzo non piove piú, ma un'alta cupola di nubi nere sovrasta tutto il Mugello. Salgo in direzione di Ronta, ma i ciclisti che incontro mi segnano il cielo chiedendomi dove credo di andare. A Ronta, ultima stazione della linea faentina prima della Galleria degli Allocchi, faccio per prudenza studi sull'orario dei treni. Poi mi avvio verso la Colla di Casaglia. La valle è uno stretto imbuto che ospita solo la strada e il greto del torrente. Spettacolare l'ultimo incrocio con la ferrovia, che fa capolino per una decina di metri in un valloncello discosto dalla strada, e poi si inabissa di nuovo. Al paese di Razzuolo, la valle si allarga e questo è provvidenziale perché gli ultimi 300 metri di salita hanno bisogno di qualche tornante. Ormai in vista del valico, si raggiunge Fonte dell'Alpe, un casone abbandonato per quanto la fonte sia ancora vivissima. Un ultimo tornante mi porta al vento freddo ed umido che spazza il passo (913 m). Anziché scendere nella Valle del Lamone, imbocco il traverso che verso sinistra porta al valico della Sambuca. Dopo un tratto di discreta salita, segue una sezione in discesa. L'unica cosa che riesco a percepire nella nebbia fitta è che, passato un piccolo ruscello, inizia la salita finale al valico, 1060 metri. Qui la nebbia cessa come d'incanto: a parte qualche nuvola sfilacciata, il cielo sopra la Romagna è sereno. Il panorama è reso ancora piú luminoso dalla brulla roccia gessosa che predomina in queste vallate. In ambiente molto ampio la strada scende al piccolo santuario di Acquadalto, ormai alle porte di Palazzolo sul Sènio che, nonostante la quota di soli 437 metri, è ancora ben lontano dallo sbocco della Valsenio. Confortato dall'insperato bel tempo, decido di salire ancora, traversando verso l'adiacente valle del Santerno. Il percorso è molto simile alla traversata tra Corniolo e Premilcuore, sei vallate piú a est; devo confessare che i due ricordi si accavallano. Ho dimenticato, per esempio, il nome del valico che si raggiunge a 880 metri, ma credo si chiamasse Passo del Paretone; comunque la strada provinciale è detta della Faggiola dal nome dell'adiacente monte (1030 m). In discesa incontro un gruppetto di donne che salgono molto agguerrite: guardando la data sull'orologio capisco che stanno festeggiando in maniera arrembante l'otto marzo. La valle del Santerno non offre particolari emozioni; dopo una blanda risalita in corrispondenza di Valsalva, la strada plana su Castel di Rio, 215 metri, dove studio il modo di salire ancora. Traverserò nella valle del Sillaro. Il percorso è aperto: su un ampio crinale si toccano i 500 metri, poi si scende sul fondovalle, ampio e deserto. Le discese si fanno via via piú gradevoli; dal freddo della Colla di Casaglia siamo arrivati allo scendere in maniche corte. Perché allora non risalire ancora? Con lo strappo piú duro della giornata raggiungo Sassonero, dove mi sento in dovere di riposare sull'ottimo viale alberato che porta alla chiesetta. Raggiunto con salita piú ragionevole un nuovo spartiacque in vista della Rocca di Monterènzio, inizio a scendere per una strada dissestatissima, minata dal cedimento del terreno, una serrata successione di buche e di montagne russe. Raggiungo il fondovalle dell'Idice che, in assenza di altre possibilità di traversata, devo seguire pazientemente per venti km. A Castel de' Britti, luogo di culto per i seguaci di Tomba, sono ormai in pianura. A San Lazzaro di Sàvena, luogo di culto per i seguaci di Guccini, sono ormai alle porte di Bologna: l'aver traversato internamente di vallata in vallata mi ha permesso di ridurre al minimo la dose di Via Emilia, accorgimento obbligatorio di giorno feriale, ma consigliato anche la domenica.

Conclusioni

Per concludere vorrei elencare - sempre da ovest a est - "quello che manca," ovvero altre possibilità di traversata che sulla carta sono interessanti, riservandomi in futuro di togliere materiale da questo paragrafo per aggiungere ai precedenti...