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Trenta vie attraverso l'Appennino tosco-emiliano.
Di   Alberto Pedrotti,   apedrott@science.unitn.it
A partire dall'anno 1989 ho preso per decine, forse centinaia di volte il
treno per spostarmi da Trento a Pisa e viceversa. Nel 1995, finalmente, ho
avuto l'idea di rendere il viaggio piú interessante
intercalandovi qualche diversione ciclistica. Idea resa realizzabile da
quella che al tempo era una conquista abbastanza recente, ovvero la
possibilità di portare la bici al seguito su un gran numero di treni.
La scelta d'elezione, ovviamente, cadeva sul tratto appenninico, che
è allo stesso tempo il piú interessante ciclisticamente, e
il piú penoso da percorrere in treno. Chiunque abbia una pur minima
esperienza dei treni intercity sulla tratta Bologna - Firenze, sa a che cosa
mi riferisco. Tipicamente, su questi treni, una volta che vi siate
tentativamente seduti, verrete presto sopraffatti da una folla
schiamazzante che, brandendo opportune prenotazioni, vi
confischerà il posto. Cercherete allora di farvi piccoli piccoli
su uno di quei seggiolini del corridoio, con decine di persone assiepate
attorno a voi, in massima parte intente a telefonare senza posa, mentre
altre faranno la spola fra il vagone ristorante, il bagno e l'amico del
cuore, altre fumeranno nonostante i divieti; le piú abili
riusciranno a far coesistere sapientemente tutte le sopraddette
attività. Poco vi consolerà che sul seggiolino dirimpetto
al vostro sieda magari un altro passeggero che, confuso al pari di voi, vi
fisserà sconsolato, e voi lo fisserete sconsolati.
Le strade appenniniche, a differenza dei treni, sono praticamente
deserte. Dato che tutto il traffico viene assorbito dalle grandi
direttrici - l'autostrada del Sole e quella della Cisa, e in misura minore la
statale della Porretta - la fittissima rete di strade secondarie resta
completamente deserta. Va anche detto che per arrivare a questa isola
fortunata bisogna attraversare la prova del fuoco della fascia
pedemontana la quale, specie sul versante emiliano, è fortemente
congestionata dal traffico pesante. Provare il tratto Modena - Sassuolo o
Parma - Fornovo in un giorno lavorativo per credere.
I passi appenninici non sono da considerare dei surrogati di quelli
alpini; lo sarebbero forse limitandosi a considerare il versante toscano,
dove le salite sono abbastanza dirette e regolari, ancorché non
dure (con l'eclatante eccezione del San Pellegrino in Alpe), e non
oltrepassano mai i 1400 metri di dislivello. Le cose cambiano sul versante
emiliano, dove l'accesso a un passo dalla pianura può essere lungo
anche 80-100 km, con una quantità imprevedibile di saliscendi, che
obbligano ad avere disponibità di una riserva di energia ben
maggiore di quanto la quota dei valichi non suggerirebbe. Non è un
caso che il numero di ciclisti incrociati decada esponenzialmente mano a
mano che ci si addentra verso lo spartiacque.
Meteo. Bisogna tenere conto della grande variabilità
delle condizioni meteorologiche passando da un versante all'altro. Se la
giornata non è dichiaratamente serena, ovvero, se il tempo inclina
appena un poco all'incertezza quando si parte, si può stare certi di
prendere acqua o neve sull'uno o sull'altro versante. Chiunque abbia
attraversato la galleria del Vernio sa come sia frequente entrarvi, dal
versante emiliano, sotto la neve ed uscirne col sole, oppure uscire al
Vernio sotto la pioggia anche se a San Benedetto c'era il sole. Una zona che
poi calamita ogni precipitazione è l'Appennino Pistoiese. Mi
diceva un ciclista di Pistoia che se nevica da qualche parte
sull'Appennino, allora nevica di sicuro tra Porretta e Collina;
l'implicazione inversa ovviamente è falsa.
Stagioni. A differenza dei valichi alpini, quelli appenninici
sono praticabili per tutto l'anno, e questo fatto va tenuto in gran conto,
poiché il paesaggio invernale qui è molto suggestivo. La
stagione d'elezione è comunque l'autunno. Il primo autunno,
avanti la caduta delle foglie, offre la possibilità di osservare
magnifiche composizioni di colori nei castagneti della Lunigiana e della
Garfagnana, o nelle faggete intorno alle Radici. Il tardo autunno offre
un'atmosfera molto rarefatta, quasi sospesa; ci si può addentrare
negli ampi anfiteatri delle alte valli al cospetto delle cime già
innevate, senza incontrare anima viva, godendo di solitudini
insospettate.
Logistica. I tragitti che descrivo, sono finalizzati
all'obiettivo pratico di attraversare l'Appennino. Ovviamente tutto
diventa piú semplice se uno si accontenta di fare un valico in andata
e ritorno, pratica peraltro che non consente di godere della straordinaria
sensazione di cambiamento che si ha nel passare, nell'uno o nell'altro
verso, dai frutteti della Valle Padana agli uliveti della Valdarno, dalla
parlata emiliana a quella toscana, e spesso dalla pioggia al sole o dal
freddo al caldo.
Un ruolo centrale nelle mie traversate appenniniche l'ha avuto il
treno Bolzano-Bologna del mattino. Nel 1995 esso partiva da Trento alle
6.36. In seguito tale orario ha subito una curiosa precessione, senza,
notare bene, alcun effetto sull'orario di arrivo a Bologna (alle 8.45
circa). Attualmente il treno parte alle 6.00, il che mi costringe a una
levata, per raggiungere in bici Trento dalla Valsugana, intorno alle
quattro. Per le partenze da Modena ho spesso cambiato treno a Verona, il che
implica una discreta attesa, la quale rende competitiva la soluzione di non
cambiare, proseguire fino a San Giovanni in Persiceto, e traversare per
Modena in bici. Notare che da Trento il primo treno utile per il trasporto
bici dopo quello delle sei passa verso mezzogiorno, un po' troppo tardi per
quasi tutte le traversate. Piú semplice la vita se uno abita in
Veneto, in quanto la linea Venezia-Bologna è notevolmente
piú agguerrita, e vi passa un interregionale ogni ora. Per i
tragitti sud-nord, non c'è stata una regola fissa, anche
perché sono partito via via da Sarzana, Aulla, Castelnuovo
Garfagnana, Lucca, Pisa, Pistoia, Prato, Firenze, a seconda delle
esigenze. In Toscana ci sono molti treni anche al mattino presto e la scelta
non è cosí obbligata come nel caso della partenza da Trento.
È talora possibile, anche se laborioso, portare una bici
attraverso l'Appennino senza farsi l'Appennino in bici. Sulla tratta
Bologna-Prato circola un certo numero di treni locali. Quelli che
trasportano bici ci sono, anche se sono rarissimi. Chi poi dovesse arrivare
a Firenze, sceglierà se proseguire da Prato in bici (attenzione:
è difficile perdersi proprio nelle battute iniziali) o aspettare
un diretto proveniente da Lucca. Sulla tratta Prato - Bologna c'era un treno
comodissimo che partiva alle 15; aveva creato un suo pubblico in genere di
cicloamatori lentigginosi che rientravano verso il Nord dai loro giri
della Toskana; dal 1999 il servizio bici, preso atto che era utile, è
stato soppresso. Piú a est c'è la ferrovia Firenze-Faenza,
che io non ho mai utilizzato, e che deve essere anche molto interessante
paesaggisticamente (cfr. l'itinerario alla Colla di
Casaglia ) ed ha molti convogli che effettuano il trasporto bici. Il
problema è poi sincronizzarsi con un treno che porti da Faenza a
Bologna.
Per quanto riguarda la linea Pistoia-Bologna, va detto che
nella tratta Pistoia-Porretta e viceversa quasi tutti i convogli portano
le bici. Da Porretta a Bologna (a Porretta si cambia sempre treno) il
servizio è quasi inesistente. La cosa è particolarmente
mal congegnata perché i 60 km da Porretta a Bologna sono piuttosto
noiosi, laddove la tratta tra Porretta e Pistoia è gradevole da
percorrere in treno non meno che in bici. Siccome tutti i treni
Porretta-Bologna sono treni verdi, segnalo la seguente scappatoia.
Acquistando l'abbonamento annuale per il trasporto bici, si ha il diritto
di caricare il mezzo su tutti i treni verdi, anche quelli non
equipaggiati col vagone bici, tutti i giorni escluso il sabato. In genere
l'operazione comporta un lungo litigio con il capo-treno che ignora la
regola: tassativo provvedersi di un orario ufficiale, prender
nota della pagina dove la regola è descritta, e combattere testo
alla mano. Altrimenti si rischia di rimanere a piedi. Nel 1999 procacciarsi
un abbonamento era un'avventura non banale (bisognava farselo mandare da
Milano tramite la FIAB); non a caso quello che acquistai nel marzo 99 portava
il numero 00073. Adesso lo si può comperare nelle maggiori
stazioni. A Trento ad esempio agli sportelli di biglietteria non ne sanno
nulla; il tagliando è infatti annoverato fra la bigliettazione
straordinaria per la quale bisogna farsi mandare dal capo servizi
biglietteria. Seguendo questa prassi, sono riuscito ad avere il mio
tagliando per il 2000, che reca il numero 1501. Questo non vuol dire che siano
stati venduti 1500 biglietti; semplicemente la stazione di Trento ha avuto
un pacco di biglietti numerati da 1501 a 1600, dei quali io ho acquistato il
primo.
Sulla linea Parma-Sarzana molti treni effettuano il
trasporto. Il problema per molti può essere arrivare fino a Parma.
Nel seguito illustrerò in proposito una
combinazione ragionevole quanto rischiosa.
Cartografia. Io uso il foglio Toscana della carta
stradale d'Italia al 200.000 del Touring; esso copre a nord fino alla
latitudine di Modena. Meglio centrata sarebbe la carta Emilia-Romagna,
che copre a sud fino alla latitudine di Pisa. Le informazioni sulla
viabilità sono corrette, a parte un clamoroso
errore dal quale metterò in guardia con la dovuta enfasi.
Parlando della zona "calda," ovvero lo spartiacque propriamente detto,
farò dei riferimenti topografici piú puntuali che per
essere seguiti necessitano di una carta al 25.000: purtroppo esistono solo
quelle, pessime, dell'editore Multigraphic di Firenze. Lo stesso editore
ristampa delle vecchie carte provinciali al 100.000, che spesso
forniscono delle buone integrazioni rispetto alla carta Touring in fatto
di toponomastica, ma sono indecifrabili e spesso fuorvianti per quanto
riguarda la viabilità. Per chi volesse cimentarsi, il foglio
piú adatto è il Massa Carrara - Lucca - Pistoia. Per
quanto riguarda pubblicazioni specifiche di cicloturismo,
benché io mi orienti molto male nella pletora di nuove uscite,
segnalerei il titolo Toscana in mountain bike - Volume I: Appennino
di Sergio Grillo e Cinzia Pezzani, edizioni Ediciclo (1991), un libro che
non si ferma ai soliti dati numerici e profili altimetici, ma fornisce anche
informazioni ambientali e culturali di sicuro interesse.
Ordine. Ho scelto di presentare gli itinerari partendo da ovest
e muovendo verso est, ponendo all'inizio quelli che dal mio punto di vista
sono gli itinerari piú interessanti. Amo infatti molto la
Lunigiana e l'alta Garfagnana; mi interessano invece meno le zone di
Pistoia e Prato. Nemmeno il tanto decantato Mugello lo trovo interessante
al pari del settore occidentale. Trattando poi di diversi accessi a un
singolo passo, seguirò per comodità personale l'ordine
cronologico.
La Cisa
La Cisa è uno dei valichi appennini piú comodi e noti, e a
molti sarà familiare la sagoma appuntita della chiesa che sorge
poco sopra il passo, visibile dall'autostrada da entrambi i versanti.La
"via normale" ciclistica alla Cisa è la SS 62, il cui tratto
propriamente montano si trova fra Pontremoli e Fornovo. Si tratta di una
traversata facile e panoramica.
1. Cisa (m. 1040) per Monte Càssio
Nel 1999, in una splendida giornata di luglio, parto da Sarzana poco dopo
le otto del mattino. Fino ad Aulla devo lavorare contro un forte vento
contrario, raramente assente in questa strettoia. Da Aulla a Pontremoli il
panorama è dominato dall'alta costiera del Monte Orsaro - Monte
Sillara, che si erge imponente con balzo unico di 1500 metri dal fondovalle.
A Pontremoli entro nella cerchia della mura; vale infatti la pena di dare
un'occhiata ai palazzi opulenti e alle strette vie di questa borgata, che si
annuncia da lontano con le sue alte cupole. Poco sopra l'abitato inizia una
serie di tornanti in mezzo ai castagni, che sembrano protendersi sulla
strada come un'onda del mare congelata in un'istantanea. A quota 650 metri
la salita improvvisamente si interrompe; dopo un traverso in piano sullo
spartiacque tra Magra e Magriola, ci si vede l'autostrada puntare contro,
per poi infilarsi all'ultimo momento in galleria. All'ingresso di
Montelungo, un tifoso dalla mano felice ha tracciato sull'asfalto
un'Italia in scala duecentomila, con tutte le tappe del recente Giro e i
relativi vincitori. Il paese lo si attraversa sotto gli occhi vigili degli
anziani turisti convenuti al fine di respirare l'aria salutare di mezza
montagna. Qualche altro tornante conduce fra ampi prati, pieni di fiori, al
Passo del Righedo, dove la salita è virtualmente terminata, in
quanto manca solo un traverso in piano per raggiungere la Cisa, ora divenuta
per la prima volta visibile. Dopo una visita alla chiesetta del passo, sita
al sommo di una scalinata, inizio inizio il lungo traverso, una mezza
discesa, verso Berceto, dove inizia una risalita del Monte Marino, 150
metri di dislivello. Segue la parte piú interessante del percorso,
che coincide anche con uno dei (pochi) tratti interessanti della Via
Francigena. La strada infatti si mantiene sull'esile crinale,
tipicamente appenninico, che separa l'ampia valle del Taro da quella un
tantino selvaggia del Baganza. Si giunge cosí al paese di
Càssio, dove attacca la risalita del Monte Cassio. Il sole picchia,
e striscando sotto la serranda semichiusa del negozietto di alimentari
riesco a impetrare un provvidenziale litro di latte; mentre vuoto il
cartone medito se sarà nativo del luogo quel Cassio Parmense del
quale Orazio scriveva all'amico Tibullo
Albi, nostrorum sermonum candide iudex,
uid nunc te dicam facere in
regione Pedana?
scribere quod Cassi Parmensis opuscula vincat...
Apprenderò piú tardi sull'enciclopedia trattarsi
proprio di quel Cassio che insieme a Bruto nell'inferno latra: non sapevo
fosse anche eloquente. Nella breve ma decisa risalita ho il tempo di
ammirare una specie di chiusa naturale del torrente Baganza e, alta sul
versante opposto, la rocca di Ravarano, sotto la quale passa la rotabile che
sale a Berceto da Calestano. Dopo il valico di Monte Cassio, poco piú
basso della Cisa, la SS 62 piomba sulla selletta che isola il brullo Monte
Prinzera, riconoscibile dal fondovalle Taro per l'imponente antenna.
Segue una discesa a rapidi tornanti su Fornovo. Qui mancano solo 25 km a
Parma, ma il sole a picco e la cappa afosa della pianura, ancor piú
fastidiosa per chi provenga dalle brezze dei crinali, li rendono
infernali. Da Sarzana a Parma in tutto sono 120 km.
Il Lagastrello
Dicevo sopra che lo sfondo caratteristico della Lunigiana è una
catena non interrotta di monti; questa almeno è la prima
impressione: guardando meglio si noteranno due ampie depressioni quasi
gemelle, le quali isolano un potente gruppo montuoso, l'Alpe di Succiso. Si
tratta del Lagastrello (1200 m) e del Cerreto (1261 m). A est del Cerreto,
bisogna attendere 40 km perché lo spartiacque appenninico
ridiscenda - in corrispondenza dell'Abetone - sotto i 1500 metri. Entrambi
i passi sono molto belli, e presentano un accesso diretto dalla Lunigiana,
molto laborioso dall'Emilia.
2. Lagastrello (m 1200) e Passo di Ticchiano (m 1154)
La mia prima esperienza al Lagastrello parte da Aulla, in mezzo alle brume
autunnali, nell'ottobre del 1995. Dopo due soli km lascio il fondovalle del
Magra per seguire, verso destra, la valle laterale del Taverone. Capoluogo
della vallata è Licciana Nardi - il secondo appellativo è in
onore di un eroe risorgimentale del luogo, che di nome faceva Anacarsi.
Sopra Licciana, alla Maestà dei Saldi, c'è il bivio tra due
strade che conducono entrambe al Lagastrello: a sinistra la statale, a
destra la diramazione che passa per il paese di Comano, sede di una celebrata
rassegna annuale di cavalli. Io seguo la strada principale, ed in breve
raggiungo l'ultimo paese della vallata, Tavernelle, che giace a soli 400
metri, laddove lungo la strada del Cerreto gli insediamenti si spingono fin
quasi a mille metri. Usciti dal paese con una breve discesa, ci si addentra
subito nella testata selvaggia della valle; piú avanti con un
imponente ponte si attraversa il largo greto del torrente, per iniziare a
scalare il fianco opposto della montagna. Lasciate ormai indietro le brume
del fondovalle, salgo sospinto idealmente da una tiepida brezza, ed ho
tutto il tempo di ammirare l'artistica composizione di colori autunnali
offerta dalle ripide pendici del Monte Bocco, che funge da pilastro
d'angolo per la costiera Orsaro-Sillara. Poco sotto il passo si incontrano
i ruderi dell'abbazia di Linari. Inquadrata tra le mura franate, la valle
del Taverone scende con dirittura perfetta, una linea ideale che si
prolunga ancora un poco nella bassa valle del Magra, prima di esaurirsi
contro le colline che proteggono il Golfo della Spezia. Complice la
limpidezza della giornata, sembra di poter arrivare ai monti delle Cinque
Terre con un unico balzo. Un gruppo di cavalli sta oziando in mezzo alla
strada, e mi fermo un poco ad accarezzare un morbidissimo purosangue arabo
che mi si è fatto incontro, immaginando non erroneamente che io
abbia qualcosa da offrirgli. Il valico vero e proprio non ha nulla di
particolare da offrire, trattandosi di un rado bosco senza panorama,
piuttosto con qualche villetta di troppo; le cose si fanno piú
interessanti quando si transita lungo il lago artificiale di Paduli, cui la
tagliente luce autunnale conferisce i riflessi di un alto lago alpino.
Oltrepassata la diga, la strada principale traversa verso sinistra in
direzione del paese di Rigoso, dall'aspetto curiosamente nordico grazie
ai numerosi tetti di lamiera. Con un unico ampio tornante si scende verso
Rimagna, e di lí rapidamente agli 820 metri di Monchio delle Corti.
Spinto dalla bellezza della giornata, ho voglia di risalire, ed imbocco la
strada che per prati aperti, a cospetto del pur lontano Cusna, conduce al
Passo di Ticchiano, 1154 metri. Avverto che, se la risalita è
abbastanza severa, la pendenza dell'opposta discesa è
addirittura selvaggia; ci si trova cosí scodellati in men che non si
dica sotto l'abitato di Casarola, cui fanno seguito Riana e
Grammàtica. È duro decidere quale sia il piú
grazioso di questi tre paesini dai luccicanti tetti di ardesia,
splendidamente isolati nell'alta Val Parma. Spettacolosa nonostante
qualche buca infida anche la discesa nel bosco di castagni, prima che gli
scempi edilizi che hanno rovinato il paese di
Corníglio, altrimenti premiato da un'ottima posizione,
riportino a tutt'altra dimensione. Ancora una volta mi viene voglia di
risalire, e ne trovo il modo. Prima di toccare il fondovalle del Parma, si
stacca sulla destra un traverso in leggera ascesa che conduce a Tizzano Val
Parma, 814 metri, meraviglioso belvedere sulla bassa parmense, una specie
di osservatorio sulla vallata dei prosciutti. La risalita verso Tizzano
è molto dolce, salvo una breve impennata in corrispondenza di una
cava, e riposante è la veduta sull'ampia dorsale del Monte
Cervellino, all'opposto versante della valle.
Mentre sono in sosta
nell'ampia piazza-belvedere di Tizzano, arriva dal basso un anziano
signore. Ha settant'anni, mi spiega, ed è salito da Reggio Emilia.
Anche lui oggi avrebbe voglia di salire ancora; mi chiede se, al posto suo,
darei l'assalto ai 1200 metri di Schia, data l'ora e la lunghezza del
rientro. Sebbene la domanda fosse stata posta per avere risposta negativa,
io lo spingo ad andare, e lo incoraggio esortandolo a pensare a me, che se
voglio prendere il treno dovrò essere fra tre ore a Suzzara, in riva
al Po. Invece che sbrigarci, però, stiamo a chiacchierare,
cosicché apprendo come ogni anno egli attraversi la Cisa in bici per
andare al mare al Cinquale, seguito in macchina dalla famiglia; ci
attardiamo a discorrere delle salite della Apuane. Quando a Pisa
descriverò l'individuo a una mia amica del Cinquale, mi
dirà: un tipo fatto cosí e cosí che va sempre in bici?
Non può essere che il signor Rossi di Reggio, gli affittiamo ogni
anno l'appartamento. Si starebbe ancora molto a parlare con il signor Rossi
ma, constatato che sono le tre e mezzo e non è giugno, conveniamo che
sia meglio muoversi.
La discesa verso il fondovalle Parma sembra fatta apposta a misura di
ciclista. Poi bisogna tornare a pedalare per raggiungere Langhirano,
Lesignano de' Bagni (di fronte al castello di Torrechiara),
Basilicagoiano e Montechiarugolo. Un ponte improvvisato a sostituire
quello spazzato via dall'Enza porta a Montecchio Emilia, dove inizia un
tratto abbastanza di routine fino a Melétole. Segue uno splendido
tratto nell'aperta campagna per arrivare a Santa Vittoria, con immense
cascine che mandano ombre lunghissime sulla terra ormai spoglia.
Pasticciando un poco fra la vecchia statale della Cisa e la nuova
tangenziale di Guastalla mi ritrovo verso buio sull'argine del Po, che con
pittoresco tratto mi conduce a Luzzara, dove alcuni quartieri quasi
interamente in abbandono danno, nella sottile nebbiolina della sera,
l'idea di una città fantasma. Pochi km ancora per finire il giro nel
freddo e nella nebbia donde era cominciato 185 prima. Altri 30 km notturni mi
attenderanno poi per raggiungere la Valsugana da Trento.
3. Lagastrello dalla Val d'Enza
Nell'aprile del 1996, parto da Carpi in direzione Corréggio e
Reggio Emilia. Attraverso la bella lungomonte di Montecàvolo e di
Quattro Castella, arrivo all'imbocco della Val d'Enza, che risalgo
constatando che non vi è nulla di paesaggisticamente rilevante,
fatta eccezione per la larghezza del greto del torrente, che a tratti occupa
l'intero fondovalle, per la gioia di pescatori e cultori
dell'abbronzatura. Lascio a sinistra a malincuore le strade per Canossa e
Selvapiana, luogo quest'ultimo dove il Petrarca fu lungamente ospite di
Azzo da Correggio (quello che ha dato il nome alla redazione Correggio del
Canzoniere). Ad un certo punto il paesaggio cambia, il largo fondovalle
termina e la strada sale in direzione di Vetto, per poi riscendere ad
attraversare un affluente dell'Enza, prima di salire per chine brulle in
direzione di Ramiseto, che però conviene non raggiungere,
svoltando alle poche case di Gàzzolo in direzione delle poche case
di Ceréggio; la strada è solo moderatamente dissestata.
Con ulteriore salita si raggiunge, in corrispondenza di un crinale
boscoso, il traverso che si inoltra da Ramiseto al Lagastrello.
Attraversando con saliscendi i numerosi valloni che confluiscono dal
massicio dell'Alpe di Succiso verso la Val d'Enza, celando vari paesini, si
arriva in vista di Succiso, alto sulla strada, in bella posizione al
cospetto della cima cui dà nome. Arroccato su di uno spuntone segue
l'ultimo paese della successione, ovvero Miscoso, prima che il traverso
finale conduca alla diga del lago Paduli, con ampia vista sui paesi
dirimpettai, arroccati alla stessa altezza sull'altro lato della valle.
Al passo il cielo è oziosamente nuvoloso; in cerca di maggiori
emozioni decido di salire al Passo del Giogo, di 60 metri piú
elevato, indi finisco per pedalare fin quasi alle
intallazioni militari sul Monte del Giogo, guardandomi bene
dall'arrivare in cima, vista l'insistenza dei divieti fin dall'attacco
della strada di servizio. Molto aperta la discesa su Comano; quasi surreale
la subitanea apparizione di Groppo San Pietro, una manciata di case quasi
scavate in uno spuntone che sembra bucare gli ampi prati. Sotto Comano
merita una visita anche il piccolo borgo di Crespiano, poco distante dalla
Maestà dei Saldi dove ci si innesta sulla "via normale" del
Lagastrello. Da Carpi ad Aulla sono 140 km.
4. I passi di Sillara, di Valditacca e il Lagastrello
Nel luglio del 1999 congegno la traversata all'insegna della
sperimentazione ferroviaria. Si tratta di cambiare treno al volo a Verona,
dove alle 7 arriva l'interregionale da Trento e alle 7.10 parte quello per
Fornovo. Comincia male perché a Mattarello abbiamo già
quindici minuti di ritardo cosicché quando, a dispetto di tutto, mi
ritrovo sul treno per Fornovo, gran parte delle palpitazioni della
giornata - anche se non tutte - sono finite. Poco dopo Fornovo lascio il
fondovalle Taro per una valletta solitaria che si inoltra in direzione
Calestano. Per raggiungere la valle del Baganza, si tratta di attraversare
un piccolissimo valico, in vista dei paesi gemelli di Bardone e Terenzo. Non
so quale sia il nesso (forse la Via Francigena?) ma non può essere un
caso che anche in Lunigiana, nella valle dell'Aulella, due paesi vicini si
chiamino rispettivamente Bardine e San Terenzio. Calestano si raggiunge
con modestissima perdita di quota; siccome è domenica la cittadina
brulica di falangi ciclistiche; per rifornirmi ad una fontana devo fare la
coda. Poco sopra, la strada prende quota sul selvaggio fondovalle del
Baganza, poi sale regolarmente fino a passare sotto la Rocca di Ravarano, a
circa 700 metri. Segue un lungo traverso, dapprima in blanda salita, indi
virtualmente pianeggiante, sempre in vista del Monte Cassio; si vedono
anche lunghi tratti della statale della Cisa, dove ero impegnato quindici
giorni fa, in direzione opposta. Poco prima di Berceto e dell'innesto sulla
SS 62, svolto a sinistra attaccando la salita del Passo di Sillara, che
piú sopra diventa molto decisa, cosicché i 400 metri di
dislivello si possono definire impegnativi. Va anche considerato che il
mio bagaglio non è dei piú leggeri, in quanto sto
trasbordando a Viareggio piccozza, ramponi e imbragatura da consegnare al
mio amico Pier Marco Bertinetto, in vista dell'ascensione al Rocciamelone
che abbiamo in programma per agosto. Contando di arrivare alla base della
montagna in bici, ho ritenuto utile consegnare in anticipo a chi ci
arriverà in macchina la ferraglia necessaria.
Dal valico è notevole il panorama sull'Appennino a nord-ovest del
Taro: chiude l'orizzonte il gruppo del Maggiorasca, al confine tra
Parmense, Piacentino e Liguria. Anche la discesa è abbastanza
ripida; si giunge in breve a una strada (non la principale) che conduce al
passo del Cirone. Dopo vari saliscendi che conducono anche sotto i 700
metri, si lascia sulla destra la stretta via del Cirone, per confluire su una
piú importante strada che sale da Corniglio.
Addentrandosi verso la testata della Val Parma, la salita si raddrizza
ben presto, stabilizzandosi per qualche km su pendenze del 15%. Questo
tratto arrembante si esaurisce davanti al cartellone del Parco Naturale. A
destra si dirama pianeggiante una mulattiera in direzione Lagdei, base
della salita al celebrato Lago Santo Parmense (da non confondere col Lago
Santo della Valle delle Tagliole, in zona
Abetone). Io seguo invece a sterrata di sinistra, che in mezzo al gradevole
bosco conduce con lungo traverso a due pozze d'acqua dette Lagoni, 1350 m,
assediate da una moltitudine di gitanti domenicali. Dopo il ristorante dei
Lagoni la sterrata diventa per breve tratto infame, prima di lasciare
spazio ad un breve tratto asfaltato che con pendenza mozzafiato conduce in
men che non si dica alla Colla di Valditacca, suggestiva nel suo isolamento.
Dai quasi 1500 metri del Colle si potrebbe raggiungere in brevissimo
spazio, per prati e roccette, la cima del monte Navert (1654 m) a nord oppure,
per aperte pietraie, lo spartiacque appenninico a sud. Mancando di tempo
per le diversioni, comincio a scendere per uno sterrato molto ripido,
ghiaioso e dissestato, in mezzo a prati ricchi di sorgenti d'acqua. Giunto
al paese di Valditacca, mi lascio sfuggire il raccordo che mi dovrebbe
condurre senza perdere quota alla strada del Lagastrello. Sotto
Pianadetto una ripida discesa mi fa capire chiaramente che sono sulla
strada sbagliata. Torno sui miei passi e trovo il traverso; resistendo il
piú possibile alla tentazione delle innumerevoli fragole che
cospargono il ciglio della strada, ovvero, cedendo solo agli spiazzi
piú irresistibili, raggiungo Trefiumi e comincio a salire. Al lago
di Paduli altro assembramento di gitanti, che qui hanno un bel da fare con la
pesca. Dal passo e da Linari mi butto a capofitto sulla valle del Taverone:
inizia la lotta contro il tempo per arrivare a Sarzana in tempo per il treno.
Calura e vento contrario oppongono fiera resistenza. Gli amici di Pisa
dicono di avermi trovato, all'arrivo, insolitamente provato.
Il Cerreto
Sono particolarmente affezionato al Passo del Cerreto, sia per l'essere
stato il mio primo valico appenninico, sia per l'essere molto bello
indipendentemente da considerazioni personali. L'accesso da nord
è molto lungo e nel complesso impegnativo; di questo ci si dovrebbe
rendere conto tenendo traccia dei numerosi saliscendi che
elencherò.
5. Cerreto da Baíso
Pasqua 1995: sono invitato per un breve soggiorno in Corsica, ed avendo
appena comperato la bici cerco a tutti i costi di farla entrare nel progetto.
Che si articola cosí: in bici fino a Trento, indi in treno fino a
Modena; in bici fino alla Spezia dove mi imbarcherò per Bastia; di
nuovo in bici fino a Calvi che è la mèta. Lascio Modena alle
15.30 con la consegna di raggiungere La Spezia entro le otto del mattino
seguente. Dirigo verso Sassuolo, dove imbocco la superstrada del
fondovalle Secchia, che mi porta con gran dirittura a Roteglia, dove inizia
la prima salita, in direzione del crinale di Baíso. Pedalare per la
prima volta fra i calanchi dell'Appennino, per uno abituato ai paesaggi
alpini, è un'esperienza molto interessante. A Baiso inizia un
piacevolissimo tratto in cresta, indi la strada si addentra in un bosco di
carpini sul fianco del monte Valestra, per raggiungere Carpineti.
Traversando ulteriormente con qualche saliscendi, arrivo a Felina, da non
confondere con il Felino parmense dei salami - tanto piú che qui
siamo in terra reggiana, e da queste parti ogni imprecisione in proposito
è sgradita. A Felina mi è di grande conforto psicologico il
cartello che indica fin d'ora la Spezia; in effetti qui sto confluendo sulla
SS 63 del Cerreto che seguirò fino ad Aulla. Scendendo ad un grosso
ponte, traversando un tunnel e poi risalendo a decisi tornanti raggiungo
Castelnuovo Monti, capoluogo dell'Appennino Reggiano, situato al
cospetto della Pietra di Bismàntova,
nota pietra di paragone per l'asperità del Purgatorio, e col cui
profilo si ha tutto il tempo di familiarizzare sui tornanti non meno
purgatoriali del Monteduro che conducono, fiancheggiando anche una bella
chiesetta, nel bosco che occupa la sommità del Monte Fiorino, a
circa mille metri; c'è qualche ristorante e una postazione
radiotelevisiva. Segue la discesa su Cervarezza, prima della risalita che
conduce sopra il paese di Busana, su uno sperone dal quale si osserva tutta
l'alta valle della Secchia, al cospetto dell'ingombrante mole del Cusna.
L'aria della sera diventa via via piú suggestiva, nonché
piú gelida. Seguono Nismozza ed Acquabona dove, si capisce,
c'è una grande fontana, detta Fonte dell'Amore, recentemente
rinnovata in legno dagli Alpini. Un repentino strappo conduce all'abitato
di Collagna. La quale un tempo si chiamava Culagna, e forse qualcuno
ricorderà le terribili disavventure del Conte di Culagna nella
Secchia Rapita del Tassoni; è stato un regio decreto ottocentesco
ad... addolcirne il nome. Ormai si è fatto notte; sono le otto e mezzo
e sta giusto per iniziare la cerimonia del Giovedí Santo. Quando
questa termina, alle dieci e mezzo, mi rimetto pazientemente in strada.
Considererei volentieri concluse le fatiche odierne, se non fosse che
lasciare per l'indomani la scalata del passo ignoto mi farebbe dormire poco
tranquillo. Nella discesa verso il ponte Biòla mi accorgo di aver
dimenticato fra i banchi la borsa con il materiale fotografico; per fortuna
ritrovo la chiesa aperta e anche la borsa. Al ponte ci si trova a m 778, poco
piú della quota di Castelnuovo Monti. La vista notturna sul fianco
innevato ed incombente (detto Costa del Mainasco) del monte Casarola, m
1979, è veramente potente. Con due tornanti la strada si eleva di un
centinaio di metri e raggiunge la Cantoniera del Piagneto, donde prosegue
scavata nella roccia fino al bivio per Cerreto dell'Alpi, della cui
esistenza giungo a dubitare non vedendovi nemmeno una luce. Al Ponte del
Barone, 935 metri, decolla finalmente l'ultima salita, cinque km o poco
piú, che però a notte fonda mi sembrano interminabili,
finché l'improvviso apparire di due lampioni dietro una curva mi fa
capire che sono al passo. Il vento freddo a sua volta mi fa capire che qui non
è posto buono per il mio sacco a pelo; sono infatti privo di tenda,
avendo stabilito in Corsica non serve. Inizia una discesa per me
memorabile. La valle che si stende sotto di me è completamente buia,
ma all'improvviso appare dal nulla una montagna la cui ampia spianata
sommitale illuminata a giorno da luci arancioni. Apprenderò in
futuro che si tratta delle installazioni dell'Aeronautica sul Monte del Giogo. In seguito mi appare, in fondovalle, il
paese di Sassalbo, un incrocio di poche vie illuminate in modo spettrale da
radi lampioni. Ricordandomi di avere fame, mi fermo presso una stalla
dotata di fontana per cucinare una minestra. Provo anche a distendere il
sacco a pelo, ma insistenti ululati che provengono dal bosco soprastante,
incrociandosi col ronfare e ruminare degli animali dentro la stalla,
suggeriscono che la notte qui potrebbe non essere tranquilla. Scendo
ancora, finché in corrispondenza di un lungo ponte trovo una
piccola risalita. Il ponte è preceduto da un gruppo di stalle dalle
quali mi si avventa conto, reso furioso dal rumore della mia dinamo, un cane
di proporzioni enormi, lasciato inspiegabilmente libero. Il momento
è delicato, e con il cuore che sembra scoppiare per lo sforzo e la
paura corro su per la salita piú che posso, ma la tenacia
dell'indesiderato compagno di strada è notevole. Per mia fortuna
riprende la discesa e la partita è vinta. Dopo ululati e
inseguimenti è con un certo sollievo che raggiungo l'abitato di
Pieve San Paolo, qualche casa e un albergo raccolti intorno alla bella pieve
romanica. Davanti alla quale ci sarebbe un bel praticello,
senonché una comitiva di giovani l'ha giusto scelto per fare
schiamazzo alle due di notte. È forza proseguire ancora;
finirò praticamente per accasciarmi a terra su un selciato dentro
la rocca di Verrucola, alle porte di Fivizzano. Trattasi di un antica
fortificazione, abitata - come ho appreso in seguito - da un eccentrico
pittore. Quanto a me, a farmi compagnia sul selciato rimane un mansueto
gattone nero.
Verso le cinque del mattino si pone il problema di ripartire. Una nebbia
fittissima mi accompagna fino ad Aulla. Quando passo sotto la rocca di
Caprígliola, comincia già ad albeggiare, e al piccolo
valico di Buonviaggio, dove inizia la planata finale verso il mare, capisco
che mi posso permettere la colazione. Sul lungomare sento un grande
strombazzamento; è una della famiglia che mi ospita, che ha perso
ieri il traghetto a Livorno e ha dovuto rilanciare per oggi, e quindi alla
Spezia. Nonostante una precoce coda al botteghino facciamo in tempo ad
imbarcarci: la prima traversata appenninica è dunque andata a buon
fine.
6. Cerreto da Scandiano
Nello stesso anno 1995, a dicembre, torno al Cerreto, con qualche piccola
variante di percorso. Parto sempre da Modena, seguo la via Emilia (pessima
esperienza) fin oltre Rubiera, indi piego a sinistra per Scandiano ove
inizio a risalire la valle del Tresinaro. La strada è deserta e
inizia debolmente a nevischiare. Da Cigarello un piccolo strappo porta a
Carpineti, sul percorso che già conosco. All'attacco del
Monteduro, dopo le poche case del Terminaccio, svolto a sinistra per una
stradina che inizia in lieve discesa e conduce attraverso vari paesini;
dopo l'ultimo (Talada), risale a decisi tornanti verso la statale del
Cerreto che viene raggiunta presso Cervarezza. È una variante
simpatica, anche se nel complesso non è che si risparmi fatica. Dopo
Collagna ho il piacere di vedere meglio il paesaggio che di notte avevo solo
intuito, anche stavolta però solo fino a un certo punto,
perché dopo Cerreto dell'Alpi la nevicata si fa piú fitta.
Molto suggestiva è la salita nella faggeta decorata dalla
galaverna. Quando sono in vista del passo metto mano alla borraccia, ma
trovo solo un pezzo di ghiaccio. Meglio allora concedersi un ponce al
ristorante Giannarelli, ma faccio appena in tempo a svoltare che, sul
piazzale dove non è stato sparso il sale, scivolo malamente su un
invisibile strato di ghiaccio, con la bici carica che mi rovina addosso.
Dolorante stabilisco che oggi al Cerreto è destino che io non beva, e
mi avvio in giú. Al primo tornante, dove ci si affaccia sulla valle
del Rosaro, cessano d'incanto neve e nebbia, che lasciano spazio a un cielo
grigio ma innocuo. Inutile precisare, essendo dicembre, che quando arrivo
ad Aulla, dopo 170 km di strada, è buio ormai fatto.
7. Cerreto e Monte Alto
In un sabato di fine febbraio 1997 torno a casa per partecipare, l'indomani,
al Meeting dei Lagorai. Prendo il treno Lucca-Aulla, scendendo alla
stazione di Gragnola - ma avrei potuto scegliere ugualmente le stazioni di
Fivizzano-Gassano o di Fivizzano-Rometta-Soliera. Il sole che
accompagna le prime pedalate verso Gassano, situato in simpatica
posizione su di una collinetta tra la strada e il torrente, fa capire che si
tratterà di una giornata particolarmente tersa. Il clima della
salita è già pienamente primaverile: venticello caldo che
sale dalla terra, bordi della strada cosparsi di primule. Mi fermo a
visitare la Pieve di San Paolo, e anche alla cantoniera del Passo del Romito
è d'obbligo una sosta per uno sguardo retrospettivo sulle sagome
slanciate delle Apuane, con Pisanino e Pizzo d'Uccello in prima fila. Dopo
il Passo del Romito invece l'attenzione si concentra sulla sottostante
valle del Rosaro, e sul fianco opposto dove si discerne chiaramente il
tracciato della sterrata che va da Bottignana a Sassalbo - vi dovrebbe
essere anche una diramazione per Comano, nella valle adiacente. Passato il
ponte sul quale fui rincorso da un cane furioso, indi il giardino botanico e
il ristorante da Giannino, arrivo al tornante isolato in
prossimità passo, e qui devio per la sterrata che porta al Passo
dell'Ospedalaccio, il quale occupa, rispetto al Cerreto, l'opposta
estremità di questa ampia depressione dello spartiacque
appenninico. Legata la bici, mi avvento su per i ripidi pendii del Monte
Alto, tralasciando il sentiero che mi condurrebbe al Passo di Pietra
Tagliata, e rinunciando quindi a salire l'Alpe di Succiso. Intuisco
infatti che la traversata dei pendii settentrionali innevati del Monte
Alto potrebbe essere problematica in scarpe da ginnastica. La cresta del
Monte Alto, comunque, mi ripaga totalmente della rinuncia: in alto essa
diventa una elegante successione di cocuzzoli via via piú elevati,
in magnifica esposizione sui Groppi di Camporàghena, ampio pendio
profilato da calanchi, che scende con balzo unico di oltre mille metri
sull'omonimo paese. Se il panorama sulla Lunigiana è superbo, ad
attirare la mia attenzione è un triangolo bianco sospeso sul
Tirreno, triangolo che diventa piú nitido via via che salgo.
Conosco abbastanza l'orografia della Corsica da non avere dubbi: si tratta
del pendio nord-ovest della costiera Monte Padru (2390 metri)-Punta
Licciola, orientato cosí a proposito da rilucere come un brandello
di carta stagnola. Abbandono la segreta speranza di arrivare a Pietra
Tagliata per la cresta, e anzi vengo bloccato già due cocuzzoli
prima della vetta dalla neve che si protende fin sopra i precipizi
meridionali. Che il gruppo del Succiso, per quanto innocuo all'apparenza,
vada preso con criterio, verrà dimostrato nei primi mesi del 2000 da
tre incidenti mortali succedutisi sulla montagna nell'arco di tre
settimane. Maledico un poco la mole del monte Alto che mi sta nascondendo il
Monte Rosa, come estrapolo dal fatto che dietro Pietra Tagliata fanno
capolino le Orobie e dietro la Costiera Giannandrea (la cresta che chiude i
Groppi) si vedono chiaramente le Marittime. Manco di poco, insomma, l'
en-plein che feci in una memorabile giornata d'ottobre sulla Tambura (Alpi
Apuane), unendo in un unico colpo d'occhio il Monte Cinto, le Alpi
Marittime, il Monviso, il Monte Rosa e la lontana Weissmies. Ma anche la
prudenza vuole la sua parte.
Dopo aver cosí saziato gli occhi, la discesa su Reggio Emilia
diventa un po' di routine. Devo fermarmi alla Fonte dell'Amore: visto
infatti che l'Osler di Pergine (quello che mi ha venduto la bici) me ne parla
sempre, per l'essersi lungamente allenato su queste strade, voglio
portargli un campione di acqua della restaurata fonte. Passato
Castelnuovo seguo ad oltranza la SS 63: un lungo traverso, con panoramici
saliscendi, da Felina e Casina, e di qui un'unica volata giú per la
stretta valle del Cròstolo.
Il passo di Pradarena
8. Attraverso l'Orecchiella
L'incanto della traversata che sto per descrivere, effettuata
nell'ottobre del 1995, è indubbiamente inscindibile dai magici
colori dei quali l'autunno riveste i boschi dell'Alta Garfagnana. Possono
esserci anche motivi extra-ciclistici per avventurarsi da queste parti.
Alcuni miei amici vi hanno raccolto, senza troppo sforzo, tre chili di
porcini in due ore. Mostrandoli trionfanti ai locali, si sono sentiti dire:
sí, infatti in questi giorni noi non andiamo perché ce
n'è pochi. Io tornai a Sillano in macchina qualche settimana dopo la
traversata in bici, e vi raccolsi in un'ora qualcosa come venti chili di
castagne. Il programma della giornata prevede un piccolo antipasto
ciclistico antelucano, Pisa-Lucca, per raggiungere il treno che mi porta a
Castelnuovo Garfagnana, base di innumerevoli salite di grande interesse.
Seguendo la strada delle Radici, dopo qualche angusto tornante proprio
sopra la stazione, si esce ai riposati pendii di Pieve Fosciana. Qui si
svolta a sinistra in direzione San Romano di Garfagnana, e poco dopo a destra
in direzione Villa Collemandina. Tiranneggia il panorama la solida mole
della Pania di Corfino, con il suo aspetto carattaristicamente brullo; ai
suoi piedi si attraversano paesini tipo Magnano e Canigiano, prima di
giungere a Corfino. Faccio un giro per il mercato e per le strette vie, prima
di ricominciare a salire. A mille metri si incontra Pruno, un gruppuscolo di
case con tetti d'ardesia in magnifica posizione, indi dopo una voluta
attorno alle Capanne di San Romano si arriva al cospetto della parete della
Pania di Corfino. Un canalone sassoso porta giusto alla croce; la
tentazione è grossa, ma il programma della giornata non lascia
spazio a diversioni. Raggiunti i 1230 metri presso il Centro Visitatori del
Parco Orecchiella, la strada si addentra in piano in una fittissima pineta
dove a stento filtra qualche raggio di sole. Si tralasciano sulla destra la
sterrata per Campaiana e sulla sinistra la strada asfaltata per Piazza al
Serchio sulla quale, per chi volesse, poco distante c'è il
ristorante La Greppia, ritrovo simpatico e caro in particolare
agli scialpinisti lucchesi. La sterrata che si diparte piú avanti,
ai Casini di Corte, conduce infatti in piano alle Valli Calde, donde parte la
via per il Monte Prado, la cima piú elevata della Toscana che offre
anche un ottimo panorama. (In bici credo si possa arrivare fino ai 1720 del
rifugio).
Dai Casini di Corte, 1200 metri, si scende con tornanti agli 885 m della diga
di Vicaglia. Si perde ancora quota fino al ponte sul Serchio di Soraggio,
prima di risalire con severo strappo ai pittoreschi insediamenti di Villa e
Rocca. Segue una tranquilla discesa su Sillano, 735 metri, dove inizia
l'ascesa al Passo di Pradarena. Notare che quanto descritto fin qui si
può tagliare raggiungendo Sillano da Piazza al Serchio; dalla
stazione del treno sono solo sette km. Sopra Sillano, si raggiungono con
modeste pendenze le Capanne di Sillano; poco oltre, pedalando tra i prati,
si attraversa il paese di Ospitaletto e, tornati nel bosco, con un unico
ampio tornante si raggiunge il Passo di Pradarena, dopo aver incontrato
anche una piccola sciovia. Consiglio, a chi abbia tempo, di abbinare la
traversata del passo con la salita al Monte Cavalbianco, prima per un
suggestivo bosco di faggi, indi per la cresta. Tale cima, essendo
leggermente eccentrica rispetto allo spartiacque appenninico, è
un belvedere scelto sui vicini Laghi del Cerreto (chiudendo un occhio
sull'orrendo casermone alla base degli impianti sciistici), sul Cusna, e
su tutto l'Appennino Reggiano, che qui si può ammirare nel suo
andamento dolcemente digradante, contraddetto solo dal subitaneo
slancio della Pietra di Bismantova. Al valico
sono le 14.30, mi restano meno di quattro ore per coprire gli oltre 80 km che mi
separano dalla stazione di Reggio Emilia. A sorpresa, lungo la discesa
incontro un altro Ospitaletto, quasi alla stessa quota del gemello
meridionale; poco sotto segue Ligonchio, donde una strada traverserebbe
il deserto fondovalle Secchia per raggiungere, con quasi 300 m di risalita,
la statale del Cerreto a Busana. Io preferisco costeggiare, con panoramico
traverso, tutto il versante settentrionale del massiccio del Cusna;
deliziato dalla splendida luce pomeridiana, attraverso Casalino, Piolo,
Cerré e Sologno ed arrivo a Villa Minozzo, dove una rapida volata mi
porta sul fondovalle Secchia, al ponte di Gatta dove si esaurisce la
superstrada che risale la valle da Modena. Anziché seguire questo
percorso scontato, risalgo per trecento metri fino a Felina, dove mi
innesto sulla statale del Cerreto. Chiacchierando con un estemporaneo
compagno di strada arrivo a Casina, dove resta solo la volata finale per
Reggio, 160 km da Castelnuovo Garfagnana.
Le Radici
Le Radici sono un passo unico, per diversi motivi. Innanzitutto la
varietà degli accessi, con almeno otto possibilità sul
versante emiliano. In secondo luogo, la lunghezza delle salite dalla
Pianura Padana: quella piú breve, da Ponte Dolo, misura poco meno di
quaranta km, da sommare ai trenta della marcia di avvicinamento da
Sassuolo. Dal fondovalle garfagnino, si segnala invece il curioso
dualismo tra un accesso di 31 km, seguendo la statale 324, e uno di soli 17 km,
attraverso San Pellegrino in Alpe. Il primo tracciato è
consigliabile in discesa; presenta una breve contropendenza in
corrispondenza del Casone di Profecchia, ma in seguito, e fino al
fondovalle, costituisce una delle discese piú piacevoli e
riposanti. Il secondo tracciato, unico nel suo genere, costituisce una
salita di grande impegno e una discesa avventurosa. Snodandosi con
condotta inusitatamente panoramica lungo la cresta di una marcata dorsale
secondaria, nell'ultimo tratto la strada letteralmente decolla
guadagnando 400 metri in 2 km e mezzo, con pendenze fino al 20 per cento, che si
placano nella piazza di San Pellegrino in Alpe per poi continuare,
leggermente attenuate, fino al passo del Pradaccio, 1600 metri. Su una
recente pubblicazione ciclistica ho trovato per questo valico il toponimo
di Passo del Giro del Diavolo, del quale però non ho avuto nessun
altro riscontro. Questo originale tracciato ha una sua storia: nel
Settecento, allorché vi fu l'unificazione dei domini di Massa e
Carrara con il Ducato di Modena, a seguito di un opportuna combinazione
matrimoniale, l'ingegner Domenico Vandelli fu
incaricato di costruire (1738-1751) una via che unisse Massa e Modena
passando a debita distanza dai confini, condizione quest'ultima che
forzava a superare arditamente l'Appennino al passo del Pradaccio, e ancor
piú arditamente le Apuane, che prese veramente di petto. In effetti
la Via Vandelli è conosciuta soprattutto agli
escursionisti apuani, per l'eccezionale tracciato selciato che sale da
Resceto ai 1620 metri del Passo della Tambura. Ma anche il ciclista che sale a
San Pellegrino ha da ringraziare l'ingegnere, perché la moderna
provinciale (ottimanente asfaltata e mantenuta) segue fedelmente
l'antico tracciato.
Già prima di Vandelli, comunque, il passo delle Radici veniva
transitato per motivi "amministrativi." La Garfagnana fu per un lungo
periodo dominio estense, e per tre anni il duca di Ferrara vi mandò
come governatore Lodovico Ariosto - in realtà, gli stava
infliggendo un dispettoso esilio. Anziché stare tranquillo a
limare le sue ottave, l'Ariosto doveva pattugliare le boscaglie della
vallata per tentare di stanare, coi dodici alabardieri che aveva in
dotazione, i banditi che vi imperavano. Oltre ad essere perduta in
partenza, la battaglia non faceva proprio alla sua indole:
O stiami in Rocca o voglia all'aria uscire
accuse e liti sempre e gridi
ascolto
furti, omicidi, odî, vendette ed ire
Ed anche i trasferimenti da Modena a Castelnuovo sono dipinti con tinte
molto fosche. Ogni tanto, pedalando fra le fitte faggete delle Radici, mi
immagino l'Ariosto con la sua carovana che muove, sconsolato, verso il suo
governatorato, al tempo in cui queste strade dovevano effettivamente fare
paura. (Un diffuso resoconto delle disavventure dell'A. in terra
garfagnina e sulle vie dell'Appennino si trova nel libro di A. Flamigni - R.
Mangaroni, Ariosto).
L'accesso piú logico dal versante emiliano non è
certamente costituito dalla SS 324 delle Radici, che da Silla nella valle
del Reno corre parallela allo spartiacque appenninico per poi, con un
ultimo arco, traversarlo e scendere su Castelnuovo Garfagnana. Nemmeno la
SS 12 dell'Abetone e del Brennero costituisce un accesso diretto come
linea, non già come altimetria, specie per la laboriosa salita del
Barigazzo. L'accesso preferenziale al passo è dunque dato dalla SS
486 di Montefiorino, che sale da Modena seguendo le valli della Secchia
prima e del Dragone poi, sostanzialmente senza dislivelli superflui, e si
innesta sulla strada delle Radici due km e mezzo sotto il passo, al Casone
dell'Imbrancamento. Qui in tempi passati le carrozze lasciavano,
d'inverno, i viaggiatori, che venivano caricati sugli slittoni che
facevano la spola tra l'Imbrancamento e il Casone di Profécchia.
Alle Radici nevica molto anche al giorno d'oggi; leggere sotto per credere.
La SS 486, benché commissionata dal Duca di Modena solo nel 1850,
segue un'antica via di passaggio, detta Via Bibulca, frequentata anche dai
pellegrini che si recavano al santuario di San Pellegrino in Alpe, che la
tradizione vuole fondato da due monaci irlandesi, San Pellegrino e San
Bianco, nel secolo VII. La SS 12, nel tratto Modena-Maranello-Abetone
è invece detta Via Giardini, dal nome di uno dei due
ingegneri ce la progettarono nell'Ottocento, Pitro Giardini e Leopoldo
Ximenes.
La SS 486 tra Modena e Sassuolo è praticamente introvabile.
Qualora esista, non se ne trovano le tracce per via della costruzione di
nuove strade; le indicazioni in particolare mandano lungo una variante
trafficatissima. La cosa migliore è, arrivati dalle parti di
Baggiovara e di Casinalbo, riuscire a svicolare verso Magreta, dove un bel
rettilineo lungo la Secchia conduce a Sassuolo senza patemi di traffico.
Arrivati sulla lungomonte, astenersi dal seguire le indicazioni per il
passo delle Radici. Cosí facendo, si verrebbe irreversibilmente
istradati sulla nuova variante del fondovalle Secchia. Conviene invece
raggiungere il centro di Sassuolo e, poco sotto il palazzo Ducale,
individuare la strada che porta al ponte sul quale, correndo accanto alla
ferrovia dismessa, si superano sia il fiume che la variante, per arrivare
alla vecchia 486. A Castellarano si è costretti a confluire sulla
strada nuova, ma l'averla evitata per buon tratto è già un
notevole risultato. A Rotéglia si può avere un po' di tregua
dal traffico passando in mezzo al paese. A Lugo si può scegliere se
arrivare a Cerrédolo per la strada nuova, che corre interamente su
piloni sopra il greto del torrente (a quest'altezza il traffico è
già sufficientemente rarefatto), o per la strada vecchia un po'
piú accidentata, complice anche qualche cedimento del terreno.
Non c'è da spaventarsi se a ora di pranzo, seguendo quest'ultimo
percorso, ci si trova ad un certo punto stretti fra due file di bisonti
parcheggiati: c'è un ristorante particolarmente indicato
all'ingresso del paese, ed i camionisti lo sanno. Da Cerredolo si arriva in
breve a Ponte Dolo, e qui si comincia finalemtne a salire.
Paesaggisticamente, il passo delle Radici vero e proprio non è
eccezionale. Basta però imboccare lo stretto budello che porta con
pendenza incredibile al Pradaccio, e scendere al paese di San Pellegrino,
per trovarsi nella posizione piú eletta di tutto l'Appennino
tosco-emiliano. San Pellegrino è un inestimabile belvedere sulla
Garfagnana e sul profilo delle Apuane. Trovarsi qui, in pieno inverno, al
tramonto, è un'esperienza che non ha uguale. Scendendo dal
Pradaccio, la neve ventata riflette sulla la sua dura crosta i colori del
tramonto che fiammeggia sopra la Foce dei Carpinelli; ogni pendio, ogni
gibbosità assume una tonalità diversa. Arrivati in paese,
vale la pena di andare a bersi un ponce da Pacetto, per ammirare al caldo
attraverso le ampie vetrate l'inestimabile spettacolo. Bevuto il ponce,
conviene scendere per la galleria che passa sotto il nucleo di case stretto
attorno al santuario, e passeggiare fino alla croce panoramica, al
cospetto del gruppo delle Panie. In ogni caso, se il vento dovesse
sospingere neve fresca sulla strada, è meglio organizzarsi in
maniera da scendere il primo ripidissimo tratto prima del buio, in modo da
evitare seri rischi.
9. Radici per Riccovòlto
Il mio primo attraversamento del valico, che avviene nell'agosto del 1995,
segue per cosí dire la via normale. Provengo dalla Corsica, dove ero
giunto mediante una traversata Aosta-Nizza attraverso sette passi alpini
(Piccolo San Bernardo, Iseran, Galibier, Izoard, Vars, Bonette,
Couillole) e quindi mi sembra equo tornare attraverso un adeguato valico
appenninico. La salita avviene attraverso San Pellegrino, e sulle rampe
finali mi aspetto il peggio, per via del carico notevole, ma l'allenamento
fatto sulla Alpi mi aiuta a passare indenne. Per aiutarsi psicologicamente
durante la lunga salita, conviene crearsi dei punti di riferimento: dopo il
bivio di Pieve Fosciana (500 m) è utile guardare il Sillico (700 m),
che giace sul crinale piú ad est, e che lentamente si inabissa. Poi si
punta a Chiozza (900 m) tenendo come riferimento il grosso campanile;
attraversato il paese (anche con una strettoia molto ripida), l'ultimo
punto fermo è dato dalle Case Boccaia (1110 m), dove inizia il tratto
folle dell'ascesa. Gli ultimi tornanti che conducono alla piazza del
paese, quasi come si raggiunge un piano superiore per una scala a
chiocciola, sono veramente esaltanti. A Piandelagotti faccio ricerche di
un amico pisano che ha una casetta in legno quassú - anche se in genere
con lui parliamo di Valsugana, dove ha fatto per sette anni l'alpino. Trovo
il posto quasi per caso, ed accetto la proposta di fermarmi per la notte.
Siccome sono partito da Pisa in bici, infatti, è già
pomeriggio inoltrato. Il rischio di fermarsi da queste parti in agosto
è che non ci sono due giorni di bel tempo consecutivi; infatti al
mattino il tempo è molto incerto. Attraverso le brume prima, e un
caldo infernale piú sotto, arrivo al treno a Crevalcore, 225 km da
Pisa.
10. Radici per il Barigazzo
Nell'ottobre del 1995 parto da San Giovanni in Persiceto, già con un
po' di fatica alle spalle in quanto una levata intempestiva mi ha costretto
alla prestazione per me insolita di arrivare da Marter a Trento in 59 minuti.
Anche la giornata, oppressa da un cielo plumbeo, non collabora alla
definizione di un'impresa memorabile. Una specie di contrappasso per la
magnifica traversata del Passo di Pradarena effettuata la settimana
precedente. Attraverso Ponte di Samoggia, Bazzano, Savignano e Marano
arrivo al bivio (m 203) dove devo lasciare il fondovalle Panàro per
salire all'altipiano del Frignano: qualche tornante fino a Coscogno, indi
un tracciato abbastanza lineare in mezzo ai prati. A 750 metri confluisco
sulla statale dell'Abetone, che conduce a Pavullo. La strada aggira poi lo
spuntone dove sorge la rocca di Montecúccolo. È questo, e
non il paese di Montecúccoli che domina
la valle del Bisenzio (sopra la caratteristica rocca che si nota dal treno
scendendo verso a Prato), il luogo d'origine del condottiero Raimondo
Montecuccoli, lo scrittore di arte militare che fu tra i protagonisti della
Guerra dei Trent'anni (assieme ai personaggi del Wallenstein di
Schiller...). Seguendo il crinale, con un panorama che si barcamena tra la
valle dello Scoltenna e quella del Rossenna, la strada sale a Lama Mocogno
che, dopo aver visto cento cartelli in proposito, uno ammette per
sfinimento essere un gran centro di Soggiorno e di Turismo. Segue la salita
del Barigazzo, che porta a 1217 metri e se
affrontata in un bel giorno d'autunno, esposta com'è verso sud, ha
l'aria di essere molto bella. Nella discesa su Pievepelago sono da mettere
in conto due severi strappi in contropendenza. Per salire alle Radici
scelgo la SS 324 attraverso Sant'Anna Pelago. Come spiegherò in
seguito, non è la soluzione migliore, ma come primo approccio
può andare. Arrivo al passo alle 17, proprio mentre alla chiesetta
presso l'albergo Lunardi inizia a suonare il carillon dell'Ave Maria, che
diventerà una specie di appuntamento fisso dei transiti
successivi, complice l'orario dell'ultimo treno utile dalla Garfagnana
per Pisa, che passa da Castelnuovo alle 18.33. Senza salire al Pradaccio,
scendo in maniera piacevolissima per la statale, arrivando al treno, a 165
km dalla partenza, con ampio anticipo.
11. Radici e Centocroci
Magnifica la traversata che effettuo alla fine dell'ottobre del 1996, in
mezzo a uno scenario autunnale di prim'ordine. Come accade spesso nelle
migliori uscite, la partenza non promette bene, e le brume della Garfagnana
sono infatti particolarmente fosche. A metà strada fra Pieve
Fosciana e Chiozza, comunque, le nebbie si dissolvono lasciandomi a tu per
tu col profilo nitido delle Apuane e in particolare dell'Uomo Morto,
silhouette di persona un tantino pingue che giace supina, formata dalla
Pania Secca (fronte), dal Puntone di Mezzo al Prato (naso), e dalla Pania
della Croce (il pezzo grosso, ossia la pancia). Questa salita è un
osservatorio privilegiato su questa curiosità. Fra il turbinare
di foglie secche sospinte dal vento, arrivo alle Case Boccaia dove visito la
semplice chiesetta, che una volta tanto trovo aperta. Al successivo
decollo della strada, distratto da uno scenario cosí nitido, e
senza bagaglio, non ci faccio nemmeno caso. La giornata mi sembra meritare
ancor piú della quota del Pradaccio: lascio
quindi la bici per salire ai 1700 metri dell'Alpe di San Pellegrino, dove
posso osservare tutta la costiera appenninica in direzione del Monte
Giovo, e la strada che, prima selciata e poi sterrata, percorre questi
altissimi prati per scendere poi su Renaio e Barga. Ripromettendomi di
esplorare il percorso in futuro, mi accontento di assaggiare qualche
mirtillo residuo, decisamente fuori stagione. In discesa passo per
Roccapèlago, staccandomi dalla SS 324 poco sotto
l'Imbrancamento. Questa soluzione mi fa risparmiare qualche metro di
salita sulla strada dell'Abetone, scodellandomi quasi a Sant'Andrea
Pelago. Una strada secondaria entra zigzagando nel paese,
particolarmente soleggiato e tranquillo (qui visse per lungo tempo il
"poeta maledetto" Ceccardo Roccatagliata Ceccardi), ne esce verso
l'alto, diventa sterrata e conduce, da ultimo con un traverso in falsopiano
e anche con una leggera discesa, al passo di Centocroci, la cui quota
è di poco inferiore ai 1200 metri. Registrato il transito sul libro
custodito nella piccola Maestà del valico, inizio a scendere per la
strada asfaltata che, dopo qualche tornante iniziale, inizia un lungo
mezzacosta sul fianco destro della vallata. A Boccassuolo (m 1001) devo un
po' portare la bici a spasso per il fango causa una grossa frana; segue
Palàgano (m. 703), nome che deriva nientemeno che dalle pepite
d'oro (palagae) di cui evidentemente esisteva qualche traccia. A
Lama di Mónchio (m. 794), posto proprio di fronte a Montefiorino,
inizia la discesa che porta in breve al luogo dove la Secchia riceve il
torrente Rossenna. Traversando quest'ultimo, inizio a salire verso
Prignano; senza entrare in paese, poco sopra il cimitero animato
dall'andirivieni dei giorni precedenti i Santi, svolto a sinistra, per
iniziare un lungo mezzacosta che, amministrando la quota in maniera molto
oculata, porta direttamente a Sassuolo. Sarebbe un modo molto gradevole
per risalire il solco della Secchia, se non fosse per l'incomodo di dover
perdere tutta la quota a metà strada. Avendo ancora tempo e voglia di
pedalare, attraverso Modena, Nonàntola e Sant'Agata Bolognese,
ed arrivo quando orami è buio alla stazione di Crevalcore, 175 km
dalla Garfagnana.
12. Radici per Frassinoro
La scure prendi su, Lombardo,
da Fiumalbo e da Frassinoro!
Il vento
ha già spiumato il cardo,
fruga la tua barba d'oro.
Lombardo, prendi su la scure,
da Civago e da Cerú:
è
tempo di passar l'alture:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!
(Pascoli, La partenza del boscaiolo )
C'è da meravigliarsi che, fra il Gran Lombardo di Dante, quello
della Conversazione in Sicilia e questo, la letteratura italiana
scovi Lombardi nei luoghi piú inusitati; c'è meno da
sorprendersi che il Pascoli conoscesse questi luoghi che, grazie al passo
delle Radici, distano meno di 50 km da Castelvecchio. (Sarò poi
grato a chiunque mi sappia dire dov'è Cerú).
Nel dicembre 1996, dopo lo scontato tratto Modena-Ponte Dolo, inizio la
salita per i tornanti di Montefiorino e dopo i primi due giro a destra per una
strada che si inoltra nel bacino del Dolo, rimanendo sempre alta sul
fondovalle. Passato Rubbiano e la sua pieve romanica, svolto a sinistra per
una via che arriva in centro a Montefiorino (laddove la SS 486 di
Montefiorino non si avvicina nemmeno all'aabitato). In paese la salita
prosegue in direzione Frassinoro; la salita è concentrata nei
tornanti iniziali. A Frassinoro (m 1127), "capoluogo" dell'alta valle del
Dragone, i prati cominciano a essere rigati di neve a dispetto della
posizione molto soleggiata; segue un piacevole traverso verso la Madonna
di Pietravolta (m. 1151), posta su una notevole depressione del crinale. La
trasparenza dell'aria invernale mi permette, dal piazzale del santuario,
di scorgere le sagome bianche delle Prealpi bresciane. Dopo la breve
discesa con la quale la provinciale va a confluire sulla SS 486 (che da ultimo
si è fatta sotto con una sequenza di tornanti), devo salutare il
sole; traversare Piandelagotti è come entrare in una ghiacciaia.
Piú sopra, verso le Radici, i faggi sono ancora carichi di neve
polverosa. Magnifico il tramonto a San Pellegrino; solo che mi attardo un
poco e affronto la discesa col buio, rischiando di incocciare in un gregge di
pecore che sta silenziosamente attraversando la strada. Fortunatamente
la cosa si risolve al meglio: l'esito di una frenata improvvisa su pendenze
simili, infatti, non è per niente scontato. Da Modena a Castelnuovo
sono 170 km.
13. Radici per Strettara
Nel novembre del 1997 parto da San Giovanni in Persiceto, e muovo verso la
pedemontana che fiancheggia, molto panoramica, le colline di
Castelvetro. A Maranello comincio a salire per Via Giardini, ovvero la
vecchia statale dell'Abetone, che fino all'altipiano del Frignano
è totalmente deserta, grazie alla nuova strada che risale molto
direttamente il fondovalle del Tiepido. L'inizio è tra ville e
vigneti in meravigliosa veste autunnale; la progressione è
rallentata da numerose quanto doverose fotografie. Sopra la chiesa di San
Venanzio si segue il crinale, dopo Stella si scavalca la collina che
nasconde Serramazzoni, 791 metri. Segue una discesa di cento metri e dopo,
tra vari saliscendi in mezzo alle fabbriche di ceramica, che popolano
l'altipiano non meno della fascia pedemontana, arrivo a Pavullo, che, con i
suoi grattacieli svettanti dai campi, ha un'aria straniata di metropoli
relegata in esilio. Costeggiando nientemeno che l'aeroporto, e aggirando
il Montecúccolo, arrivo a Lama Mocogno, dove abbandono Via
Giardini per imboccare il raccordo che con qualche tornante scende a
Vàglio, indi ai 580 metri del Ponte di Strettara, sul torrente
Scoltenna, per andare a congiungersi sull'altro lato con la statale delle
Radici. Tale raccordo è in fase di ampliamento, e questa non
è una cattiva idea, perché a conti fatti si tratta
dell'accesso meno laborioso alla zona di Pievepelago, e quindi
all'Abetone. Per ora le migliorie sono limitate al tratto di risalita dopo
il ponte: un tunnel di 1500 metri, contraddistinto da un rimbombo
incredibile, indi un tratto su piloni, asfaltato di fresco, che io
stupidamente non imbocco. Rispettando il divieto di accesso, risalgo
invece qualche tornante in direzione Montecreto, per riperdere la quota
subito dopo. A Pievepelago scelgo di passare per Roccapèlago, il
che mi permette di godere dell'ultimo sole. Indipendentemente da
ciò, questo tracciato è molto piú vario e
panoramico rispetto alla statale che sale per Sant'Anna. Attraverso San
Pellegrino, arrivo al treno in tutta comodità.
14. Radici per Toano e Civago
Nel marzo 1998 abbandono la statale 486 già a Cerredolo, per puntare
verso Toano, con una salita tranquilla e regolare di 600 metri. Toano, 842
metri, è posto in posizione privilegiata sul promontorio che si
incunea tra la valle della Secchia e quella del Dolo, allo stesso modo che il
promontorio di Montefiorino separa, poco piú a monte, il Dragone
dal Dolo. La sorpresa della giornata è che a Toano si mettono a cadere
appariscenti fiocchi di neve; li interpreto come uno scherzetto del tempo,
destinato a esaurirsi in breve. Già scendendo verso l'insellatura
di Quara, 722 metri, ho la dimostrazione che invece la cosa si va facendo
seria, e intuisco che, addentrandosi verso lo spartiacque, le cose
andranno peggio. Superata la località Gova, il percorso si snoda
per contrade desertiche, delle quali vedo ben poco, grazie alla neve che mi
rende inservibili gli occhiali. Non avevo previsto che per traversare
l'Appennino fosse prudente portare gli occhiali da sci. A un certo punto
confluisco sulla provinciale che congiunge Villa Minozzo e Civago, luogo
questo che si raggiunge con una certa perdita di quota. In questo tratto ha
luogo l'unico incontro dei 45 km fra Toano e le Radici: un automobilista
abbastanza indaffarato a tenere la strada da non accorgersi della mia
presenza. Civago è posto proprio a ridosso dello spartiacque
appenninico; ciononostante, arrivare a quest'ultimo è ancora
laborioso. Bisogna infatti salire dai 1011 metri di Civago ai 1294 di
Roncadello; dopo altri 50 metri di salita si scende ai 1200 metri di
Piandelagotti, dove si imbocca il lungo traverso che porta all'
Imbrancamento. La bici comincia ormai a fare la traccia nella neve fresca.
Nell'ultimo tratto della salita al passo sono superato da una Ferrari, la
seconda automobile dopo il precedente, piú dimesso incontro. Per
vederne una terza dovò attendere fino a Castiglione di Garfagnana.
Al passo l'asfalto è coperto da 40 cm di neve; benché urga
scendere, mi riparo un attimo in un garage aperto di fronte all'albergo
Lunardi. Dall'altra parte della strada, il carillon della chiesetta, resa
invisibile dalla fitta nevicata, mi annuncia che sono le cinque, dato che
nella situazione odierna non è confortante. A dire il vero,
piú che di capire se riuscirò a scendere in un'ora e mezzo, si
tratta di vedere se riuscirò a scendere in assoluto. Comincio la
discesa inneggiando alla tenuta del mezzo, ma alla prima curva secca
quest'ultimo tira a diritto e va a piantarsi in un cumulo di neve. Io giaccio
lungo disteso in mezzo alla carreggiata, e starei anche lí
volentieri tanto è morbido il giaciglio, se non avessi fretta e non
temessi il sopraggiungere della Ferrari. Al Casone di Profecchia,
contrariamente alle mie attese, la nevicata non si calma. Stesso
bollettino alla Foce di Terrarossa, dove però sulla strada
comincia ad esserci poltiglia, fatto questo che, anziché
facilitare la discesa, propizia un secondo volo. Solo in vista di Cerageto,
a quota 800, posso aumentare la velocità quel tanto che basta a
rientrare nel ruolino di marcia. A Castiglione di Garfagnana i bambini,
impazziti di gioia, sono tutti in strada, a guardare i fiocchi che turbinano
attorno alle alte mura di cinta. Piú sotto piove a dirotto,
cosicché pochi km sono sufficienti a farmi arrivare fradicio in
stazione, appena in orario. Anche se a Lucca ufficialmente i servigi delle
ferrovie finirebbero, in quanto il treno prosegue senza effettuare
trasporto bici, il capotreno dà una pietosa occhiata al mio stato, e
decide che per oggi si farà uno strappo. Saprò in seguito
che, mentre noi scendievamo la Garfagnana, alla stazione di Firenze
Castello due treni si scontravano nella nebbia, complici forse gli scambi
gelati, con una decina di morti. Fatti i conti, se a Toano fossi tornato
indietro, con tutta probabilità mi sarei trovato su uno di quei due
treni. Da ciò deduco che talvolta (per quanto raramente) anche la
pazzia non viene per nuocere.
15. Radici per Romanoro
A gennaio 1999, parto da San Giovanni in Persiceto. Il compatto muro delle
nebbie padane ha appena lasciato spazio a un pallido sole, che fa staccare
goccioloni ghiacciati dai rami degli alberi con un curioso effetto di
grandine. Tra Castelfranco Emilia e San Cesario la strada è
orientata proprio verso la mole bianca del Cimone, la cui distanza non si
riesce assolutamente a quantificare. A malincuore a Maranello lascio
sulla sinistra la via Giardini, e proseguo verso Sassuolo e Ponte Dolo.
Svolto a destra come per andare a Frassinoro, tranne che a Rubbiano tiro a
diritto in direzione Romanoro, addentrandomi in falsopiano nell'aperta
valle del Dolo. Sulla destra domina la collina di Toano, a diritto, dietro la
bassa di Quara dominano il Monte Prampa e l'Alpe di Succiso. Ad un certo punto
appare fugacemente anche la Pietra di Bismantova.
Sulla sinistra acquista sempre maggiore imponenza la mole
bianchissima del Cusna. Uno spettacolo originale è fornito dal
versante sinistro della vallata, occupato da ripidi appezzamenti
separati da filari di alberi. La neve, infatti, si è sciolta nei
tratti esposti al sole, conservandosi in tutti i margini superiori, grazie
all'ampio riparo offerto dalle lunghe ombre invernali delle piante.
Evidente anche, alla base del Monte Penna, il tracciato della provinciale
che fu teatro, l'anno scorso, di una avventurosa traversata sotto la neve.
Poco dopo Romanoro c'è un bivio: o si scende al lago (nella
fattispecie mezzo ghiacciato) di Gazzano, riservandosi di salire poi a
tornanti a Pietravolta, o vi si sale direttamente a mezza costa. Scelgo la
seconda soluzione, piú soleggiata; superate le appartate
frazioni di Róvolo e Vallorsara, un'ultima manciata di tornanti
conduce nei pressi di una fabbrica di ceramiche (curiosamente straniata
quassú), e da ultimo al santuario. Quest'ultimo si conferma
generoso in fatto di panorama: ancora una volta, dietro le colline di
Carpineti, intravvedo il bianco delle Prealpi Bresciane. Segue la trafila
già nota, il saluto al sole con speranza di ritrovarlo sullo
spartiacque. Stavolta, con un ultimo scatto prima del Pradaccio, riesco ad
agguantarlo. Tempo due minuti, e si appoggia proprio sul Passo della
Tambura, l'altro alto valico della Via Vandelli. Goduto questo simpatico
gemellaggio, inizio la discesa; gli echi del carillon delle cinque mi
ricordano che ho un po' di tempo da spendere a San Pellegrino; è
l'occasione buona per fare qualche foto a lunga esposizione. Purtroppo mi
devo limitare alla piazza e all'interno della chiesa perché colori
che fiammeggiano sopra i Carpinelli, disegnando nitidamente i contorni
dello spartiacque ligure, o quelli che diffondono tenui dalle faggete
innevate del Monte Albano, trascolorando nella tinta violacea del cielo
sovrastante, sono al di là delle pretese di qualsiasi pellicola.
Guardando le Apuane, invece, dietro la foce delle Porchette e la sagoma del
Procinto, scorgo l'ondulato profilo delle montagne di Capo Còrso.
Poi, come sempre e come ovunque, arriva purtroppo inesorabile l'ora di
scendere.
16. Radici e Cipollaio
Sono convinto che le due piú belle discese della Toscana siano
quella dalle Radici su Castelnuovo, lungo la statale 324, e quella dalla
galleria del Cipollaio, Alpi Apuane, sulla Versilia. Da tempo desideravo
effettuare la logica concatenzaione delle due discese; il desiderio si
realizza nel 1999, a fine agosto.
Parto da Modena alle 17.30, ho appuntamento a Viareggio per le dieci
dell'indomani. La sera è tranquilla, e da ponte Dolo telefono
fiducioso che sto puntando verso il litorale tirrenico. Sui tornanti di
Montefiorino già annotta, per cui passo il tempo ad ammirare la
rocca illuminata e, di là dalla valle, la scenografica striscia di
luci che congiunge Savoniero e Palàgano. Piú sopra invece
subentra il buio, unico punto di riferimento la chiesetta di Boccassuolo,
alta sul suo spuntone, illuminata da un faro rosso. Sono un po' stupiti i
giovanotti che conversano in sella in motorino fuori dai bar di Sassatella e
di Riccovolto, vedendo passare un tipo con una bici carica a quest'ora.
Quando, passate ormai le undici, raggiungo Piandelagotti, è
già un piccolo assaggio di Versilia: una calca di gente si è
attardata a conversare in piazza, e dopo aver pedalato per ore nel deserto un
lieto brusio ha sempre un effetto vivificante. Alle 23.30 transito davanti
alla baita dell'alpino pisano, dove per mia sorpresa c'è ancora
luce, anzi di piú: sul terrazzo stanno giusto armeggiando per
chiudere baracca. È lecito disturbare a quest'ora? La risposta
ovviamente è no, ma data la circostanza corro su per il prato, deciso
quanto meno a dare un saluto. Vengo costretto prima a cenare e poi e poi a
dormire dentro; protesto per il peso della tenda che mi sarei portato
invano, ma la padrona di casa, apprensiva, dice che sapendomi fuori
all'umido dormirebbe male. Alle cinque e mezzo sguscio fuori, curioso di
vedere come sia il tempo che, si sa, a Piandelagotti non è mai bello
per due giorni di seguito. La luna c'è ma è velata ed ha un
alone; conformemente ai presagi, al Passo delle Radici mi trovo avvolto in
una nube irreale di un colore arancione, dovuto probabilmente al sole
nascente. Ma il sole, oggi, è destinato ad avere vita breve. Basta
uno squarcio nella nebbia per rendermi conto che sopra la Garfagnana, dove
le precipitazioni sono sempre piú sollecite che altrove, il cielo
ha già assunto un colore spaventevole. Se al Casone di Profecchia
piove, verso Castelnuovo diluvia, e la strada ha piú le
caratteristiche di un torrente. Nel giro di mezz'ora è atteso un
treno, e mentre sono in sala d'aspetto c'è il momento clou del
temporale. A un certo punto, penso che se le cose vanno cosí male, tra
poco non potranno che migliorare; ospinto da questa intuizione, esco sotto
la pioggia battente e, tenendo le gambe ben levate per salvarmi dagli
schizzi, punto verso la valle della Túrrite. Dopo il Mulino del
Riccio, il temporale si tramuta in leggera pioggerella. Quando sbuco dalla
galleria del Cipollaio sul versante versiliese, non piove piú. A
metà discesa, comunque, devo improvvisare una riparazione ad una
borsa che, resa marcia dalla troppa pioggia si è staccata. La tregua
è breve, un gran finale incalza. L'inferno si scatena a Seravezza:
quando arrivo a Viareggio, le strade sono allagate, le macchine devono
procedere a passo d'uomo, io mi devo trovare un percorso tra i discordi moti
ondosi che sollevano. È con un certo sollievo che arrivo al
campanello di Pier Marco. Mi apre la sorella, che giusto quindici giorni
prima mi aveva accolto in simile frangente a Viú, reduce dal monte
Lera in mutande, per l'essere il resto del vestiario in stato
improponibile. Nel vedere la condotta recidiva, scoppia a ridere e, dopo
una bella doccia calda, posso essere contento anch'io: il passo delle
Radici e il Cipollaio sono stati concatenati.
La zona dell'Abetone
17. Foce di Giovo (m. 1678) per Bocca di Ràvari, Monte Belvedere
e Sèstola
All'inizio di settembre 1995, invento una via molto macchinosa per
arrivare all'Abetone. Partendo da Bologna nel pomeriggio, salgo sulla
collina che sovrasta Casalecchio in direzione dell'Eremo di Tizzano, ben
visibile anche passando in treno sulla Porrettana. La strada segue
fedelmente il crinale con saliscendi e anche con strappi molto duri.
Superati i solitari villaggi di Lagune (533 m) di Medelana, si scende
leggermente su Montepastore, confluendo nella strada che risale la
raccolta valle del Lavino, strada che conviene seguire fino oltre
Tolè. Poi, anziché assecondarla mentre perde quota in
direzione Ceréglio, è meglio imboccare un breve raccordo
che, toccando la chiesa di Santa Lucia, porta fra boschi alla Bocca di
Ràvari, 790 m. Questa variante non manca tuttavia di strappi duri. A
Bocca di Ràvari mi accampo in un prato, anche se dormo molto male
causa la luce della luna piena che filtra abbondantemente attraverso la
tenda. Perdute le speranze di riposare, parto prestissimo al mattino e,
attraversato Castel d'Aiano (luogo dove tornava regolarmente in visita
George Bush, che qui combatté nella Seconda Guerra mondiale,
perdendovi se non mi sbaglio un braccio) raggiungo l'impercettibile Passo
Brasa (878 m), che dà il nome alla strada statale. Strada che lascio
poco dopo per puntare verso Montese, località turistica molto
popolare da queste parti, arroccata a 841 metri su uno spuntone di roccia a
dominio della valle del Panàro. Subito dopo devio a sinistra verso
la frazione Maserno, dove inizia un panoramico traverso gradualmente
ascendente che porta ad aggirare a una quota intorno ai novecento metri il
Monte Belvedere, dietro il quale si scende su Querciola dove, girando a
destra, si può ritardare la confluenza sulla statale SS 324 delle
Radici. Toccati i 424 metri al ponte sul torrente Dardagna (che origina al
lago Scaffaiolo), il percorso prima risale, poi ridiscende per
attraversare il fondovalle del Panaro, infine risale a Fanano,
località di soggiorno che si vanta di diventare, d'estate, una
specie di museo di scultura all'aperto. Il ciclista sarà comunque
piú interessato al ventaglio di cinque salite che si dipartono
dall'abitato: lago Pratignano, Croce Arcana, Taburri, lago della Ninfa e
Cimone; l'ultima, quella che imbocco io, sale con tranquilli tornanti a
Sèstola, 1020 m, primizia dello sci emiliano. Segue una discesa su
Montecreto, sito su una rocca, e una ulteriore fino al fondovalle dello
Scoltenna, che si raggiunge poco sopra il Ponte di Strettara. Questo
tratto, con l'acqua verde del torrente che scorre stretta fra boschi e
lucidi affioramenti rocciosi, è piuttosto interessante.
Superate alcune vestigia medievali, tipo il paese di Riolunato (dove si
vede decollare la strada che porta alle Polle) e il ponte a schiena d'asino
della Fola, si entra in Pievepèlago. Decido di salire in direzione
Abetone; il dislivello è piú contenuto ma la salita
piú ripida rispetto alla corrispettiva dalla Valle della Lima. A
tre km dal passo però opto per la strada secondaria che si inoltra
nella Val di Luce, con l'intenzione di deviare poi per la Foce di Giovo, 1674
metri. Questo alto valico è percorso da una
strada, detta Strada del Duca che, si potrebbe dire, sta all'Abetone come la
Via Vandelli. sta al Passo delle Radici. Gli
ingredienti sono analoghi: Maria Luisa duchessa di Lucca che vuole un
collegamento con Modena senza passare attraverso le
dogane del Granducato di Toscana (non a caso la foce è dominata
dall'Alpe Tre Potenze). L'opera fu completata fra il 1819 al 1829, ma cadde
in disuso dopo una ventina d'anni. Il libro di Grillo-Pezzani cita il
giudizio di un poeta, tale Giuseppe Liparini: "chi pensò una via
in questa altezza e in questa solitudine era un poeta piú che un
architetto di strade." La cosa strana è che il foglio Toscana
del Touring segna questo bizzarro tragitto come strada asfaltata.
Fiducioso, io lascio il tragitto della Val di Luce presso Casa Coppi, ma
già di là dal torrente mi si presenta un selciato che non
lascia dubitare di un grosso errore di stampa. Piú che al Toring,
bisogna plaudere ai costruttori di una volta per come è conservato
bene questo selciato; con un bagaglio sobbalzante come il mio però
questi grossi sassi costringono a procedere a spinta, sistema che ho modo di
praticare per piú di cinque km prima di raggiungere la foce, e che
suscita la compassione di numerosi gitanti domenicali. Il tracciato passa
bel presto dalla Val di Luce a quella delle Tagliole,
dove si apre un panorama molto ampio sui pendii settentrionali del Giovo e
del Rondinaio, che nascondono anche numerosi laghi di origine glaciale.
Pochi metri prima del passo, si presenta uno spettacolo originale: il
pendio occidentale dell'Alpe Tre Potenze, alto trecento metri, è
tutto colorato di piante di mirtillo, incredibilmente cariche di frutti;
consiglio a chi dovesse transitare di qui nella stessa stagione di
stanziare del tempo e di dotarsi di adeguata attrezzatura.
Alpinisticamente, invece, la meta piú prelibata sarebbe
l'incombente Rondinaio, la cima piú interessante di questo tratto
di Appennino, ben distinguibile anche dalla piana pisana. Ignorando le
condizioni della lunga discesa sul versante lucchese, io preferisco non
attardarmi. Un esposto traverso sul fianco orientale del Rondinaio (ben
distinguibile, d'inverno, dalla stazione piú alta degli impianti
sciistici della Val di Luce) porta in un bel bosco rado, alla fine del quale si
ha un ottimo panorama sulla bassa valle del Serchio, paragonabile a quello
che vi si gode da Montefegatési. Lo stato della strada su questo
versante è comunque molto migliore, in quanto la Provincia di Lucca
si cura di mantenerla. Al Rifugio Casentini, 1180, inizia l'asfalto ed una
scivolata verso il fondovalle di 23 km, paragonabile come divertimento
alla discesa delle Radici. Superato il bivio per l'orrido di Botri e
Montefegatesi, si arriva a Teréglio, arrocato su uno spuntone e
cinto da una cerchia ovale di mura. La visita del paese ripaga
abbondantemente di una breve risalita. Poi, arrivato in fondovalle,
pedalare fino a Pisa è operazione di routine. Da Bologna a Pisa per
questa via sono 225 km, dei quali cinque a spinta.
18. Passo di Croce Arcana (m. 1690)
Con i suoi 1690 metri, sedici piú della Foce di Giovo, la Croce Arcana
è il valico piú alto dell'Appennino settentrionale. A
dispetto della quota e del tratto di strada sterrata, costituisce un
passaggio molto sbrigativo tra Pisa e Bologna. Un tracciato logico di
fondovalle porta infatti da Pisa a Cutigliano, 670 m, base della salita da
sud; un altro fondovalle di assoluta dirittura conduce da Fanano, 640 m,
alla Pianura Padana. L'improvvisa impennata che porta a superare lo
spartiacque è notevole come dislivello, ma brevissima come
sviluppo. Io mi sono trovato su questa strada nell'ottobre del 1997. La
salita a Cutigliano e alla Doganaccia, tra un frusciare di foglie secche
portate a spasso dal vento, mi ha ampiamente ripagato dalla marcia di
avvicimento fatta da Pisa, nell'umida frescura mattutina dei fondovalli
del Serchio prima e della Lima poi. Sopra Cutigliano, chi fosse attratto
dalla testata della valle della Lima, che si para davanti maestosa in
direzione Abetone, ha la possibilità di deviare per un traverso che
da Melo porta alla SS 12 in località Pianosinatico - attenzione: si
chiamava Piano Asinatico perché carrozze dovevano affidarsi alla
trazione supplementare di asini onde vincere la pendenza. Continuando, si
raggiunge invece la Doganaccia, zona residenziale
posta oltre i 1500 metri, cui sale da Cutigliano anche una funivia che
però ha l'aria di essere dismessa. Il nome del luogo deriva dalla
dogana granducale (una di quelle che Maria Luisa duchessa di Lucca voleva
evitare passando per la Foce di Giovo). Superato questo che in ottobre
è un abitato fantasma, la strada diventa sterrata, e i boschi cedono
improvvisamente il passo alle praterie sommitali. La guida di
Grillo-Pezzani riporta la seguente osservazione di Lazzaro Spallanzani
(il naturalista toscano, ovviamente, non il personaggio dei Racconti
d'Hoffmann): Dopo la regione dei faggi se piú in alto si prosegue
il cammino, s'incontra una fila di secchi e lunghi rami di questi alberi, i
quali rami sono stati ivi conficcati per servire di scorta ai viandanti in
tempi di altissime nevi. Imperocché restando di essere allora
tutto coperto, facilmente potrebbe smarrire la via, e precipitare in un
vicino burrone. E va detto che questi brevi prati sommitali danno
veramente il senso dell'ampiezza, specie se si guarda verso il tratto di
cresta che cela il lago Scaffaiolo. Stesso senso di ampiezza si ha
all'insellatura del passo, cui si arriva in leggera discesa, dove io trovo
un forte vento. Salutato il panorama toscano, sul versante emiliano mi
addentro subito nel bosco. Il percorso è sterrato fino a Capanna
Tassone, 1150 metri; piú sotto, il paese di Fanano si raggiunge con
una risalita non trascurabile, finita la quale, la discesa verso Vignola e
il treno a San Giovanni in Persiceto è solo routine (175 km da Pisa).
19. Lago Scaffaiòlo (m. 1775)
Premetto che mi attirerò gli strali delle persone oneste inserendo
fra le traversate riuscitela presente che riuscita non è del tutto,
avendo passato sí l'Appennino, ma avendolo in definitiva fatto in
treno. In una domenica di maggio 1999, scarico la bici dal treno a Porretta,
intorno alle dieci, impegnandomi subito nella ripida salita verso
Capugnano, salita che sarebbe proficuamente evitabile passando per
Silla. Il paese di Castelluccio domina il percorso da una postazione
scenografica; un primo piano ideale sullo sfondo del Corno alle Scale.
Scendo verso la Valle del Silla (mancando per poco l'operazione di arrotare
una grossa vipera), dove mi immetto sulla statale delle Radici, che mi porta
a Lizzano in Belvedere, famoso se non altro per ospitare la caserma del
carabiniere Alberto Tomba. Abbandono la statale a Vidiciàtico,
duecento metri piú in alto, e imbocco la strada che conduce agli
impianti del Corno alle Scale. Con salita non proibitiva, e da ultimo con un
traverso pianeggiante, raggiungo la Madonna dell'Acero, nascosta a 1195
metri nel folto del bosco. Qui inizia uno strappo durissimo che porta ai 1415
metri del Rifugio Cavone. Fatico abbastanza per effetto del grosso
bagaglio che mi sono portato dietro, con l'intenzione di andare poi a vedere
il Giro d'Italia sul Colle di Fauniera, desideroso di fare un revival della
salita effettuata l'anno precedente. Il progetto fallirà per
mancanza di tempo, ma il bagaglio per intanto c'è. Al Cavone,
proprio sotto la cima del Corno alle Scale, c'è un laghetto; devo
improvvisamente buttare all'aria i miei biscotti per andare a tirare fuori
dall'acqua una bambina che sta annaspando, tra l'indifferenza dei
numerosi gitanti, intenti a scorticare braciole in riva al lago. La
consegno gocciolante in braccio al padre, quando questi si accorge che
l'evento lo può interessare. Poco sopra trovo gli impianti
sciistici, dall'aria molto fatiscente, finché la strada, sempre
ripida, non si esaurisce in un parcgheggio. Sto per iniziare la discesa,
consigliato dai nuvoloni nerissimi che stazionano sopra lo spartiacque,
quando individuo una sterrata che sale, e la curiosità mi spinge a
seguirla. In vista dei Piani di Baggioledo e del Rifugio Le Mandrie, 1630
metri, grossi depositi di neve cominciano ad ingombrare la carreggiata.
Superatone qualcuno, mi rendo conto che è meglio lasciare il mezzo.
Salgo di corsa per il ripido prato che porta in cresta, incrociando i
tornanti della sterrata che continua, avventurosa, fino al lago
Scaffaiolo, 1775 metri, dominato dalle lamiere gialle del Rifugio Duca
degli Abruzzi. A questo punto, se individuassi il sentiero che traversa
verso Croce Arcana, sarei disposto anche a spingere la bici fin
quassú. Gli escursionisti mi assicurano però che di
lí a poco troverei delle lingue di neve che, sul fianco ripido della
montagna, renderebbero pericoloso il trasbordo della bici. Meglio allora
fermarsi un attimo a godere l'inusitata diversità di accento fra le
comitive emiliane e toscane che si incrociano in riva al lago. Fincé
non mi scappa l'occhio sul Corno alle Scale: una croce di dimensioni
eccezionali lo fa sembrare molto vicino. Decido all'istante di salirlo:
facendo i conti ho al massimo mezz'ora disponibile all'uopo. Parto di corsa
per il lungo traverso che conduce alla salita finale. Solo continuando a
correre fino in cima riesco a trovarmi, allo scadere della mezz'ora, presso
un segnale trigonometrico su quello che mi sembra effettivamente il punto
piú alto. La croce sta su un cocuzzolo cento metri a nord, piú
appariscente per via dell'esposizione sul versante emiliano, ma non
piú elevato. Mi precipito alla bici, e con questa verso il
fondovalle. Nello spirito del festina lente, a metà della
pazza discesa il portapacchi anteriore mi si svelle dalla bici. La
riparazione non mi fa comunque perdere il treno.
Pistoia e Prato
A oriente del Corno alle Scale, lo spartiacque appenninico ha un subitaneo
abbassamento; fino al Monte Falterona, ormai in territorio aretino, le
cime non riescono nemmeno a toccare i 1300 metri. I valichi sono tutti sotto i
mille metri, i due piú bassi sono quello delle Piastre (740 m), alla
testata della Valle del Reno, e il Montepiano (755 m). Nel fondovalle del
Reno scorre la maggiore arteria stradale appenninica, la SS 64 che tutti
chiamano familiarmente la "Porrettana." Essa supera lo spartiacque con un
tunnel, che il ciclista può per correttezza evitare salendo per il
vecchio tracciato al valico di Collina, che tutti chiamano impropriamente
"Passo della Porretta." Tale valico è il transito piú
diretto, ma non il piú basso, fra il bacino del Reno e Pistoia:
passando per le Piatre, infatti, si risparmiano duecento metri di
dislivello; in compenso, si fa qualche km (peraltro molto bello) in
piú.
Il Montepiano mette invece in comunicazione Bologna e
Prato; a sostanziale parità di chilometraggio e dislivello
è piú diretto della Porrettana, anche perché vi
mancano i numerosi saliscendi che caratterizzano quest'ultima nella
bassa valle del Reno. Paesaggisticamente, comunque, il Montepiano
è una delle scelte meno interessanti, e la consiglierei solo in caso
di particolare fretta (situazione nella quale anche il treno è una
soluzione plausibile...).
20. Il valico di Collina (m. 932)
Nel febbraio del 98, volendo essere a Pisa per le due del pomeriggio, non ho
altra scelta che attraversare un basso valico del Pistoiese, cosí
per la prima volta mi cimento con la Porretta. Essendo una giornata molto
tersa, sul tratto un po' monotono fino a Porretta posso comunque passarmi il
tempo guardando intorno. Il traffico è dapprima intenso, poi
però cala sensibilmente. Un brutto momento è il passaggio
per la nuova galleria che taglia l'abitato di Riola: è lunga 2500
metri, in leggera salita, e mi pare di soffocare tanto è inquinata.
Consiglio di evitarla accuratamente. Sopra Porretta, raggiunta
Pàvana Pistoiese (pistoiese piú di nome che di fatto; basti
pensare che è il paese di Guccini), la valle diventa molto angusta:
in un punto prima di San Pellegrino al Càssero, c'è spazio
solo per la strada, il torrente Limentra, e una stretta casa da cui un filo per
stendere i panni raggiunge il lato opposto della valle, passando sopra la
strada. Poco prima della galleria di valico, devio a destra sulla salita che
porta all'abitato di Collina, un gruppo di case molto isolato e raccolto,
con un grandissimo panorama sulla piana pistoiese. Il fatto di provenire da
una valle alquanto stretta aumenta l'effetto scenografico di questa
improvvisa apertura. La discesa è prudente fino all'innesto sulla
statale appena uscita dal tunnel, a causa del fondo molto dissestato. Poi,
è un'unica volata sulla città di Pistoia.
21. Prunetta e le Piastre (m. 958)
Il 20 novembre 1998 si vota in Trentino, e io parto da Pisa alle cinque del
mattino, per essere sicuro di arrivare a casa per tempo. Esco verso
Calcinaia e l'altipiano delle Cerbaie dove, cessato l'effetto protettivo
del Monte Serra, mi scontro con un potente vento di tramontana. Ad
Altopascio telefono a casa per avvertire che devo rinunciare al giro in
bici; dovrò cercare qualche soluzione di fortuna con i treni. Poi
però rifletto che se riuscissi, anche con grossi sforzi, a
raggiungere Montecatini, dopo sarei di nuovo protetto dalle montagne. E le
cose vanno proprio cosí: quando inizio a salire in mezzo agli
uliveti della Valdinievole, al cospetto della bellissima rocca di
Montecatini Alta, l'aria è ferma e il clima è decisamente
primaverile. Guardando in alto, invece, un sistema di cumuli altissimi
sembra volersi protendere verso la Toscana, ma si interrompre bruscamente
sopra lo spartiacque. Superata Marliana, a Goraiolo confluisco sulla
strada che sale da Vellano e dalla Svizzera Pesciatina. Poco dopo
però mi aspetta una sorpresa: c'è neve fresca ai bordi della
strada e, al di là della nuvolaglia che copre la Valle della Lima,
riesco a scorgere che anche il Balzonero e i monti dell'Abetone sono tutti
imbiancati. In effetti, scendendo da Prunetta verso le Piastre comincia a
nevicare. Dopo le Piastre, fino al bivio per il Passo dell'Oppio, nevica
fitto ma con il sole, un basso sole invernale che riesce a penetrare
obliquamente sotto il sistema di nubi, cosicché mi trovo a
inseguire la mia ombra curiosamente stampata nella fitta rete di fiocchi.
In seguito, scompaiono gli effetti speciali e la situazione si fa seria. Al
Molino del Pallone comincio a incontrare macchine che salgono con le
catene, e poco dopo devo anch'io fare i conti con problemi di tenuta. Per
fortuna la Porrettana è vicina, e grazie a un po' di sale lí la
neve non ha attecchito. Lo stradone nuova è totalmente deserto, per
cui posso scendere di volata per tunnel e viadotti, per una volta in mezzo
alla carreggiata. Perfino il tunnel di Riola quest'oggi è immune da
smog. A Vergato nevica ancora, e io ho bisogno di un caffè per non
addormentarmi sulla strada deserta. Gli avventori che mi vedono entrare
cosí ben innevato mi lanciano delle occhiate interrogative, ma
ormai posso telefonare a casa che è fatta. Mancano solo 40 km, e
devono per forza andare meglio dei precedenti 140. Se per queste elezioni
regionali si griderà all'assenteismo, non sarà certo per
colpa mia.
22. L'Acquerino (m. 1000 ca)
Nel dicembre del 1995 provo la mia prima via attraverso l'Appennino
Pistoiese. Trovo un treno a Lucca abbastanza sul presto, e alle 7.30 parto da
Pistoia. Dopo il lungo rettilineo che conduce a Candeglia, la strada
comincia ad arrampicare, traversando tutta la fascia degli ulivi, che
improvvisamente si interrompe per lasciare posto a una vegetazione
incolta. La strada aggira il monte Pozzo di Bagno, 1042 metri, con un tratto
spettacolosamente panoramico sulla spianata di Pistoia, Prato e Firenze.
Girata la montagna si trova un'ottima fontana, dove mi vesto pesanetemente
perché dalla valle della Limentra esce un vento gelido che non
lascia presagire nulla di buono. Una discesa ripidissima porta in una
specie di catino, ove sorge il Rifugio dell'Acquerino, del quale sento solo
abbaiare i cani. Una fitta nebbia ha infatti chiuso tutta la visuale, e
comincia lentamente a nevicare. La strada stretta e ricca di bizzarrie
altimetriche - ripide discese e strappi altrettanto duri in
contropendenza - si cerca uno spazio accanto al torrente; dove la valle si
allarga un poco, si comincia a trovare qualche abitato: Monachino, L'Acqua
e Lentula, nome quest'ultimo forse noto a qualcuno per via dell'acqua
minerale. Segue una fase di lenta ma costante risalita per raggiungere
Badi, alto sul lago di Suviana; dalla sella sopra il paese riesco a scorgere i
tetti innevati di Porretta. Scelgo comunque di continuare nella valle
della Limentra, dalla quale esco a Rocchetta Mattei, dove smette anche di
nevicare. Segue una noiosa discesa lungo la Porrettana. A Marzabotto sento
la ruota posteriore ondeggiare in modo sospetto. Al semaforo di
Casalecchio, infatti, mi scoppia una gomma. Avendo frenato troppo sugli
strappi sotto l'Acquerino, lo sbalzo di temperatura tra il cerchione
rovente e la strada innevata ha messo a dura prova il fascione che ha ceduto.
Con qualche riparazione di fortuna riesco a tirare avanti per qualche km, ma
gli ultimi quattro che mi separano dalla stazione di Bologna li devo fare a
spinta. Ovviamente non mi lamento: avrebbero potuto essere molti di
piú.
23. Il Montepiano da Prato
Racconterò qui come nel giugno del 1996 ho usato il Montepiano come
viatico per il... Gavia. La strana circostanza è maturata nel modo
seguente. Il giovedí sera, avevo preso ormai da tempo l'impegno di
accompagnare una violoncellista in un concerto al Conservatorio di
Firenze. Il giorno seguente, il Giro d'Italia passava sul Manghen, ed
ovviamente ero tristissimo di non esserci all'appuntamento. Tuttavia, il
sabato il giro passava sul Gavia, e lí volevo rifarmi. Le cose
rimanevano lo stesso complicate, mancando treni abilitati al trasporto
bici sul tratto appenninico, collo di bottiglia di ogni iniziativa. Ho
quindi agito come segue: con una breve pedalata antelucana, ho raggiuto la
stazione di Nozzano, fra Viareggio e Lucca e sono arrivato in treno a Prato.
Passando magnis itineribus il Montepiano, sono riuscito a
prendere a Bologna un interregionale che mi portasse a Mezzocorona, in
tempo per risalire le valle del Noce, accamparmi all'inizio della salita
del Tonale e, il giorno seguente, passare il Tonale, precedere il Giro sul
Gavia, lasciarlo passare, per andare a concludere la giornata sullo
Stelvio onde essere a casa il giorno dopo.
Da Prato fino a Vernio si
costeggia il Bisenzio, dirimpetto alla linea ferroviaria
Firenze-Bologna; una volta tanto, passano piú treni sulla
ferrovia che non macchine sulla strada. A un
certo punto appare, il pittoresco rudere della Rocca Cerbaia, sotto il
paese di Montecúccoli. A Vernio si comincia a salire in solitudine
ancora maggiore. Il valico è costituito proprio dall'abitato di
Montepiano, m 704, dove inizia un tratto in lievissima discesa, prima della
risalita di Baragazza. Niente a che fare con la quasi omonima risalita del Barigazzo sulla SS 12, comunque: qui si tratta solo
di una settantina di metri. A Castiglione dei Pepoli il panorama si apre
all'improvviso, specie verso le colline ad occidente. La discesa è
molto scorrevole, a Làgaro si ritrova la ferrovia, appena uscita
dal tunnel dell'Appennino: da Vernio in qua, si è fatto quello che il
treno fa in un quarto d'ora... Da notare che il tunnel, contrariamente a
quanto potrebbe sembrare, non è quello che entra sotto gli ultimi
due tornanti della strada; per vederlo occorre seguire una variante. A Sasso Marconi si confluisce sulla
Porrettana; da Prato a Bologna sono cento km tondi.
24. Il Montepiano per le Croci di Calenzano e la Crocetta
Nel 1997, alla vigilia di Natale, inizio la giornata con un'ottima figura da
impostore. Salendo infatti da Rifredi alle Croci di Calenzano, compero un
litro di latte per la colazione. Siccome mi diverte l'imprevedibile
variabilità del prezzi del latte in Toscana, mi preparo sempre le
monete in maniera da soddisfare ogni richiesta dalle 1900 alle 2500 lire.
Preso dall'aspetto combinatorio della faccenda, me ne sto andando senza
pagare i due biglietti da mille... Il negoziante vorrebbe scorticarmi, io
tento di giustificarmi con lo stato di scarsa vigilanza indotto dalla
levataccia; in effetti sono le sette appena passate. Valicate le Croci di
Calenzano, la strada scende giocando a incrociare l'autostrada fino alle
porte di Barberino. Appena fuori dal paese, imbocco sulla sinistra la
stretta stradina che di lí a poco si biforca: a destra si sale a Villa Dogana, a sinistra si punta verso
Montepiano. Detta stradina gioca un poco a Davide e Golia con l'autostrada
del Sole, indi sale decisamente verso il paese di Mangona, dove una panchina
e un tiepido sole creano le condizioni ideali per bere in tutta
tranquillità il latte dell'ignominia. Nella salita alla
Crocetta, 817 metri, cerco di cantare, e di farlo con la migliore
intonazione possibile: la strada è infatti presidiata da
cacciatori, e mi preme far capire di non essere un cinghiale. Trovata a Montepiano la SS 325, il tracciato
diventa quasi obbligato, ma mi concedo una piccola variante: tra
Castiglione e Lagàro mi tengo sul versante orientale del crinale
seguendo una provinciale che corre alla stessa altezza dell'autostrada
sul lato opposto, per poi confluire, in vista della stazione di San
Benedetto val di Sambro e del tunnel dell'Appennino, sulla statale.
Mugello
25. Futa e Raticosa
A maggio del 1995, parto da Firenze piuttosto tardi, salendo in direzione di
Pratolino, salita forse piú panoramica di quella vicina alla Vetta
Le Croci. Discesa volante su Cafaggiolo (celebre per essere la residenza
estiva dei Medici) nell'alta valle del Sieve. Senza arrivare a Barberino,
salgo per il crinale di Poggio Muraccio, scelta che comporta un po' di
dislivello supplementare, ma che è infinitamente superiore dal
punto di vista paesaggistico, non ultimo per le belle case coloniche che si
possono ammirare lungo il percorso. A Bivio le due strade si riuniscono per
la salita finale alla Futa, senza particolare interesse panoramico.
Superata il caratteristico monumento annesso al cimitero militare
tedesco, la strada si addentra con traverso panoramico verso il Passo di
Raticosa. Si giunge al paese di Pietramala, noto per il santuario e per i
cosiddetti fuochi, piccole manifestazioni vulcaniche che nei secoli
scorsi si facevano notare di notte per il loro bagliore. Lo strappo finale
del passo è duro ma passa presto; quasi piú dura la
contropendenza che si trova sull'altro versante in corrispondenza del
paese di Filigare, poco prima di Monghidoro, piú noto alle folle per
essere patria di Gianni Morandi che non per le sie virtú di stazione
turistica. Segue, sempre in buona posizione, Loiano, del quale Michel de
Montaigne scriveva: "Loyan, un villaggetto assai scomodo, dove non si
trovano che due locande, ben note fra tutte quelle d'Italia per il tranello
teso ai viaggiatori di pascerli con belle promesse d'ogni sorta di
comodità, prima che mettano piede a terra, e di burlarsi poi, quando
sono ormai accalappiati: sulla qual faccenda corrono anche dei proverbi."
Ma è noto come il tipo fosse sempre scontento. Da Loiano fino a
Bologna la discesa, pur con un paio di risalite insidiose, è molto
scorrevole; questo mi permette di prendere, pur con qualche sacrificio, il
treno delle due e mezzo essendo partito da Raticosa poco prima dell'una.
26. Futa per Monte Adone e Brúscoli
Anche su un passo di per sè semplice come la Futa ci si può
rendere la vita difficile. A tal proposito, conviene nel centro di Bologna
cercare la strada per Sabbiuno e la Pieve del Pino. Per uno che non conosce la
città, non saprei indicare altro metodo per trovarla che quello
seguito da me a settembre 1997: tenersi stretti alla collina, seguire
l'intuizione e chiedere. Poi ci pensa la strada a portare su con qualche
strappo e qualche inedito panorama sulla Madonna di San Luca, due colline
piú ad ovest. Avvicinandosi a Sabbiuno i segue con tracciato
pittoresco il sommo di alcuni calanchi. (Chi non avesse voglia di fare
fatica può supplire andandosi ad ascoltare l'opera contemporanea
I Calanchi di Sabbiuno, fresca acquisizione del catalogo
Ricordi). Passata la Pieve del Pino, le indicazioni da seguire sono quelle
per Bàdolo, dove si arriva da ultimo con una discesa nel bosco. A
Bàdolo inizia il tratto del Monte Adone, una strada stretta che
sembra voler portare, anche con forti pendenze, in vetta a questo imponente
avancorpo roccioso, prima di cambiare improvvisamente idea e puntare
sull'insellatura di Monterúmici. Piú riposante la salita
verso Monzuno, donde inizia il traverso che conduce nella deserta testata
della Valle del Sàvena, costeggiando lungamente il Monte
Vènere, per uscire da ultimo sul crinale di questo, dove sorge la
Madonna dei Fornelli. Da qui scendo su Piano del Voglio, posto su un
cocuzzolo a guardia dell'autostrada. Inizia poi la lunga e graduale salita
alla Futa, dapprima in panorama molto aperto e, dopo il paese di
Brúscoli dove si comincia già a precepire qualche accento
toscano, in un bosco di conifere. Lasciate a destra due successive
diramazioni per Roncobilaccio, si guadagna quasi in piano il passo. Qui stavolta vado in cerca del percorso
pioneristico, proponendomi di raggiungere per una sterrata fra i rovi la
Villa Dogana. Solo che dopo poco mi lascio tentare da una strada piú
larga che scende: scoprirò troppo tardi che essa serve il cantiere
di una nuova rotabile che scende dal passo su Barberino attraverso il
fondovalle. Constatato che la costruenda strada per ora termina in un
campo, non mi resta che risalirne il largo tracciato che, in attesa di essere
un poco appianato, offre dei saliscendi da brivido quali non si
troverebbero in un'opera compiuta. Arrivato quasi di nuovo al cimitero
tedesco, decido di perseverare sulla sterrata invasa dai rovi.
Effettivamente, dopo aver incrociato a novanta gradi l'autostrada, mi
ritrovo a Villa Dogana. Qui arriva una strada che somiglia piuttosto a un
bassorilievo per quanto è butterato l'asfalto. Scendendo con gran
prudenza, esco su strade piú ragionevoli a Barberino, dove mi
rimane solo da affrontare le Croci di Calenzano.
27. Raticosa e Giogo di Scarpería
Nel marzo 1999 parto da Firenze alla volta del Giogo di Scarpería.
Salgo come già altre volte attraverso la Valle del Mugnone alla
Vetta le Croci, una strada piacevole lungo la quale si possono osservare i
lavori di ristrutturazione della vecchia ferrovia che raggiungeva Borgo
San Lorenzo, con ben altra dirittura rispetto al tracciato odierno
attraverso Pontassieve. Quasi all'inizio della salita si incrocia a
novanta gradi un rettilineo che, simile a una pista di bob, si avventa sul
fondovalle dal paese di San Domenico di Fiesole, per risalire con uguale
incredibile pendenza sul versante opposto, in direzione Careggi. In
discesa dalla Vetta le Croci, sperimento una variante consigliabile. Da
Polcanto seguire le indicazioni per Salaiole; in realtà la strada
prosegue fino al fondovalle del Sieve, dove sbuca in prossimità di
Sagginale. La deviazione comporta una leggera risalita (non scoraggiarsi
per il primo muro), una vertiginosa discesa, e poi un tranquillo tratto di
fondovalle. Anche dopo Borgo San Lorenzo riesco a complicarmi la via
seguendo una strada per Grezzano dalla quale si stacca un traverso per
Scarpería che affronta di petto tutta una serie di colline e di
valloncelli. Superata un grazioso complesso chiesa-canonica-orto, e
aggirato il chiassoso autodromo del Mugello, senza bisogno di toccare il
paese si comincia a salire. A 624 metri, in corrispondenza di un piccolo
valico, un cippo ricorda eventi della Seconda Guerra mondiale; qui passava
la Linea Gotica. Al passo vero e proprio osservo una sterrata che dirama sul
fianco settentrionale del Monte Pratone, 1081 metri: ipotizzo che possa
arrivare fino alla Colla di Casaglia. In discesa, lasciando da parte
l'incerta tentazione della Badia di Moscheta, il cui accesso da valle
è giudicato severamente dalla Carta Touring, proseguo attraverso
i graziosi insediamenti di Rifredo e Puligno, dove si apre la vista sul
fondovalle del Santèrno. Prima di arrivare a Firenzuola,
l'attenzione è captata da una sterrata che scende da una collina
brulla, con un tracciato simile alle serpentine di uno sciatore in neve
fresca. Mi informano a un bar di Firenzuola che si tratta della strada di
servizio dei cantieri del Treno Alta Velocità, la nuova linea
appenninica che passerà per queste vallate, abbastanza
piú a est quindi della ferrovia attuale. Lasciata Firenzuola (422
m), con i suoi portici e il suo bel quadrato di mura, salgo in direzione delle
Casette, 831 metri, dove ci si innesta sulla statale della Futa.
Paesaggisticamente, questa risalita è la parte migliore del
percorso; essa alternando tratti di crinale e prati aperti, sempre con
ampie vedute sulla testata della valle del Santerno. Seguono il traverso a
Pietramala e lo strappo finale della Raticosa, dove abbandono la SS 65 per
puntare verso il fondovalle dell'\'Idice, che si raggiunge in breve
trascurando a destra la deviazione per Piancàldoli. A San
Benedetto del Querceto lascio il fondovalle per salire con duro strappo a
Quinzano, al fine di scendere in Val di Zena. Per fare ciò serve,
appena passate le prime case, individuare una stradina poco visibile che si
dirama in piano sulla destra. Sembra vada a esaurirsi contro la parete
rocciosa; invece essa imbocca l'inizio di una valletta tortuosa che alla
fine sortisce l'effetto: su asfalto da ultimo infamemente rammendato, si
cala sul paese di Zena. La valle di Zena è un cavallo di battaglia dei
ciclisti bolognesi e di Romano Prodi in particolare; vi trovo due
personaggi molto agguerriti che mi tirano la volata fino in pieno centro;
è solo grazie a loro che arrivo per tempo al treno, con il magro
margine di cinque minuti.
28. Casàglia, Sambuca e Faggiola
In una poco promettente domenica di marzo 1998 parto dalla stazione di
Firenze in direzione Mugello. Se a Firenze pioviggina, alla Vetta Le Croci
diluvia. A Borgo San Lorenzo non piove piú, ma un'alta cupola di nubi
nere sovrasta tutto il Mugello. Salgo in direzione di Ronta, ma i ciclisti
che incontro mi segnano il cielo chiedendomi dove credo di andare. A Ronta,
ultima stazione della linea faentina prima della Galleria degli Allocchi,
faccio per prudenza studi sull'orario dei treni. Poi mi avvio verso la Colla
di Casaglia. La valle è uno stretto imbuto che ospita solo la strada e
il greto del torrente. Spettacolare l'ultimo incrocio con la ferrovia, che
fa capolino per una decina di metri in un valloncello discosto dalla strada,
e poi si inabissa di nuovo. Al paese di Razzuolo, la valle si allarga e questo
è provvidenziale perché gli ultimi 300 metri di salita
hanno bisogno di qualche tornante. Ormai in vista del valico, si raggiunge
Fonte dell'Alpe, un casone abbandonato per quanto la fonte sia ancora
vivissima. Un ultimo tornante mi porta al vento freddo ed umido che spazza il
passo (913 m). Anziché scendere nella Valle del Lamone, imbocco il
traverso che verso sinistra porta al valico della Sambuca. Dopo un tratto di
discreta salita, segue una sezione in discesa. L'unica cosa che riesco a
percepire nella nebbia fitta è che, passato un piccolo ruscello,
inizia la salita finale al valico, 1060 metri. Qui la nebbia cessa come
d'incanto: a parte qualche nuvola sfilacciata, il cielo sopra la Romagna
è sereno. Il panorama è reso ancora piú luminoso
dalla brulla roccia gessosa che predomina in queste vallate. In ambiente
molto ampio la strada scende al piccolo santuario di Acquadalto, ormai alle
porte di Palazzolo sul Sènio che, nonostante la quota di soli 437
metri, è ancora ben lontano dallo sbocco della Valsenio.
Confortato dall'insperato bel tempo, decido di salire ancora,
traversando verso l'adiacente valle del Santerno. Il percorso è
molto simile alla traversata tra Corniolo e Premilcuore, sei vallate
piú a est; devo confessare che i due ricordi si accavallano. Ho
dimenticato, per esempio, il nome del valico che si raggiunge a 880 metri, ma
credo si chiamasse Passo del Paretone; comunque la strada provinciale
è detta della Faggiola dal nome dell'adiacente monte (1030 m). In
discesa incontro un gruppetto di donne che salgono molto agguerrite:
guardando la data sull'orologio capisco che stanno festeggiando in
maniera arrembante l'otto marzo. La valle del Santerno non offre
particolari emozioni; dopo una blanda risalita in corrispondenza di
Valsalva, la strada plana su Castel di Rio, 215 metri, dove studio il modo di
salire ancora. Traverserò nella valle del Sillaro. Il percorso
è aperto: su un ampio crinale si toccano i 500 metri, poi si scende sul
fondovalle, ampio e deserto. Le discese si fanno via via piú
gradevoli; dal freddo della Colla di Casaglia siamo arrivati allo scendere
in maniche corte. Perché allora non risalire ancora? Con lo strappo
piú duro della giornata raggiungo Sassonero, dove mi sento in
dovere di riposare sull'ottimo viale alberato che porta alla chiesetta.
Raggiunto con salita piú ragionevole un nuovo spartiacque in vista
della Rocca di Monterènzio, inizio a scendere per una strada
dissestatissima, minata dal cedimento del terreno, una serrata
successione di buche e di montagne russe. Raggiungo il fondovalle
dell'Idice che, in assenza di altre possibilità di traversata,
devo seguire pazientemente per venti km. A Castel de' Britti, luogo di culto
per i seguaci di Tomba, sono ormai in pianura. A San Lazzaro di
Sàvena, luogo di culto per i seguaci di Guccini, sono ormai alle
porte di Bologna: l'aver traversato internamente di vallata in vallata mi
ha permesso di ridurre al minimo la dose di Via Emilia, accorgimento
obbligatorio di giorno feriale, ma consigliato anche la domenica.
Conclusioni
Per concludere vorrei elencare - sempre da ovest a est - "quello che manca,"
ovvero altre possibilità di traversata che sulla carta sono
interessanti, riservandomi in futuro di togliere materiale da questo
paragrafo per aggiungere ai precedenti...
- Il passo del Brattello, poco a ovest della Cisa, anche in abbinamento
alla Foce del Rastello per arrivare alla Spezia;
- il passo del Cirone, sopra Pontremoli;
- il passo delle Fòrbici, variante sterrata al Passo delle
Radici. Fuori dal periodo invernale dovrebbe essere cicliabile la lunga
sterrata che, attraverso l'Abetina Reale e il rifugio Battisti, scende per
la Val d'Ozola a Ligonchio;
- la sterrata che collega il Passo del Pradaccio a Renaio, sopra Barga,
della quale ho verificato che l'arrivo a Renaio è molto dissestato,
mentre la parte alta è estremamente
panoramica;
- il passo dell'Abetone, assente eccellente dall'elenco soprastante.
Causa di questo fatto, e in effetti unico torto dell'Abetone, è
quello di essere circondato da valichi piú interessanti...;
- due varianti minori alla Porrettana e all'Acquerino sono fattibili da
Collina: arrivare a Sambuca per il crinale, oppure passare per la Badia a
Taona. Quest'ultima soluzione può essere combinata con la salita
all'Acquerino da Tobbiana, salita che mi è stata descritta da
autorevoli fonti come spaventevole;
- il percorso attraverso il Montepiano potrebbe essere reso piú
interessante deviando per il Lago Brasimone;
- nel Mugello, raggiunto Marradi da Forlí, dovrebbe essere
molto interessante la traversata al Passo del Muraglione attraverso
l'Eremo di Gamogna.