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Rimini -Cortona (Agosto 2002)


By Stefano Corsi secundus@libero.it, Wed, 4 Sep 2002 12:12:05 +0200

Agosto: torna la bicicletta, non la consueta e consunta dei tragitti cittadini, ma quella delle vacanze, con le borse enormi sul portapacchi, mille cambi e il contachilometri di precisione. Prenderemo la ferrovia, prima e dopo; in mezzo, la sfida dei pedali e il rito della doccia, della cena, del sonno presto in pensioncine e alberghetti dai nomi subito dimenticati.

Siamo un professore e un farmacista. Figurarsi: scendiamo a Rimini al termine di un buon viaggio (c'era addirittura la promessa carrozza-bici, nel treno che di Lombardia arrivava fino a Pescara!) e subito voltiamo le spalle alla beltà. Adolescenza sciama dalla stazione verso gli alberghi e il mare. Noi no. Stoici, affrontiamo la calura del mezzogiorno nella città interna. Cercheremo prima una piadina come si deve, non di quelle gessose che per solito vengono ammannite alle nostre latitudini, e poi la Strada Statale Marecchiese.

Intorno alla sua piazza centrale, Rimini sonnecchia, zitta e deserta. È domenica, si vede solo qualcuno che esce da una messa tardiva. Troviamo infine una specie di tavola calda. Madre, figlia, un po' di gastronomia pronta, subito la larga parlata cordiale di qui.

Il farmacista spiega che servono carboidrati. Un piatto di patate e, appunto, la piadina. Il professore si adegua. Acqua naturale dalle prime di innumeri bottigliette che acquisteremo lungo tutto il viaggio. Vaga attenzione a chi viene e chi va. Gambe rovinate di una vecchia, come squamose. Poi entra un uomo sulla cinquantina, stropicciato, con una piega amara sul volto. Informa la padrona che tornerà a pranzare di lì a dieci minuti. A sua volta, la padrona lo ripete poco dopo a una cliente pure di mezza età subito trinceratasi dietro un po' di bianco fresco e le notizie del quotidiano locale: evidentemente sono avventori fissi, o almeno domenicali. Penso che la vita in qualche modo ti deve aver vinto, se risolvi così i tuoi pranzi festivi. Però mi guardo bene dall'azzardare ipotesi di infelicità. È dal colloquio erodoteo del saggio Solone con il ricchissimo re Creso che sappiamo di non dovere, perché un uomo lo si giudica soltanto dopo il suo ultimo respiro. Posso io escludere che, in fondo, quel pasto in una angusta rosticceria non avrà più calore o comunque meno annoiata freddezza di certe domeniche consacrate a incravattatissimi banchetti familiari? Domanda retorica.

Quando (ri)saliamo in bicicletta per finalmente iniziare la prima tappa, regna immobile la calura.

La Marecchiese è come tutte le statalone che solcano la pianura in cerca dell'Appennino: un nastro insieme torpido e trafficato, ma buono per riscaldare i muscoli. Pedaliamo convinti: il farmacista davanti, il professore dietro. Nell'afa deserta dei paesi che attraversiamo, mi sovviene soltanto qualche scorata parola di Paolo Conte: "Quando il leone starà / ad aspettarti sulla tua strada / a mezzogiorno ti guardi intorno?/ Neanche il Signore non c'è / è seduto a pranzo con i suoi amici / e la sua bici non ti presterà"?


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San Leo Senza la bici del Signore, il farmacista e il professore, non più ventenni né allenatissimi, patiscono l'ascesa a San Leo (del resto paradigmatica per Dante, con Noli e Bismantova, nel quarto canto del Purgatorio). Dove la strada prende a inerpicarsi, si riforniscono d'acqua a una fontana. Vicino, un piccolo bar in legno, qualche albero, le poche case di una frazione. Mentre stanno bevendo, arriva un uomo corpulento che sconcerta i presenti gesticolando e gridando "via, tutti via di qua, non si può stare qui, andate via, capito? Via!". Poi se ne va lui, improvvisamente acquietato. Quante volte al giorno reciterà quelle povere, scalmanate sortite contro fantasmi? Sembra uscito da un racconto di Tonino Guerra o da un film di Fellini. Dietro le imposte di una delle finestre intorno, forse, la pena di sua madre.


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Di San Leo, almeno la perfezione di un dettaglio: l'incrociarsi in dissolvenza dei mattoni al vertice delle volte nella cripta della Pieve. Magia preromanica, misterioso incanto di abilità e armonia.

Poi ripartiamo. Dormiamo a Pugliano, in un tipico albergo d'Appennino, arredi invecchiati forse senza mai avere avuto pretese, ma confortevoli. La prima lunga salita è quasi terminata: domani esordiremo con i suoi ultimi tre chilometri. Passato il valico, dovrebbe attenderci una buona discesa. La pregustiamo nelle conversazioni prima del sonno, davanti alla cartina squadernata sul letto.

(4 agosto 2002)

Il mattino è di aria fresca e vasto silenzio. La strada sale, le borse danno stabilità e pesantezza alla bicicletta. Poco sotto la Serra San Marco, il passo che ci regalerà una lunga discesa verso Urbino, incontriamo l'incitamento di un anziano turista a passeggio. Nel breve scambio di battute, fa in tempo a dirci che percorre una quindicina di chilometri al giorno. Piccola debolezza degli umani vantare le proprie ostinate prove di efficienza fisica anche, o proprio, di fronte al passare degli anni. Superandolo, gli gridiamo i nostri complimenti. Del resto, una volta tornati, anche noi non mancheremo di raccontare dei 1006 metri sul livello del mare che, in cima, un diligente cartello ufficializza con burocratica precisione.


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Esiste una pedagogia della salita, una sua risaputa lettura simbolica: l'ascesa / ascesi alla meta. Non esiste una pedagogia della discesa. Eppure, mentre godiamo i chilometri che scivolano senza la necessità di una sola pedalata, e la strada divalla decisa verso Nova Feltria, penso che una si potrebbe ricavare, meno evidente, forse, ma più sottile: la pedagogia della consapevolezza. Vale a dire che i tratti facili e felici, in bicicletta come nella vita, andrebbero attraversati con la capacità di riconoscerli e gustarli, non con la superficiale distrazione che in genere coglie quando tutto va bene. Nei percorsi appenninici e in fondo anche nel paesaggio di ogni esistenza, la salita prima o poi ritorna: tanto vale, durante i tratti di discesa, essere lucidamente coscienti e contenti, sapere dirsi che lì l'unico sforzo è quel po' d'attenzione nell'uso dei freni, mentre l'aria ci sfiora fresca, il sorriso ci nasce spontaneo, per una volta il volto non è maschera di fatica.


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Il Palazzo Ducale a Urbino Urbino evoca ricordi e immaginazioni. Il centralissimo Albergo Italia, dove ho già dormito due altre volte, ha perduto la sua aria romantica e vetusta: ai vecchi, severi arredi sono stati sostituiti moderni mobili in legno chiaro, come l'attempato signore alla reception ha lasciato il posto a due ragazze di morbida eleganza. Oltre la finestra della camera, però, i tetti sacri e profani sono gli stessi: il palazzo ducale, le chiese, le mille tegole tagliate da viuzze strettissime e scoscese, impossibili felicemente alle automobili e difficili anche ai pedoni. Immagino impegnato in passeggiate e conversazioni con l'amico Leone Traverso un poeta che amo, Mario Luzi, qui docente di Letterature comparate qualche lustro fa. Ricordo un mio esame sostenuto all'istituto di filologia, poco utile gloria, ma cui penso con affetto: ci venni con mio padre, e chiuse una stagione di studio quieto, se non appassionatissimo. Qualche anno dopo, proprio lì di fronte, con un caro ex-compagno di liceo avrei mangiato sublimi gnocchi nevicati di tartufo. La memoria che ne conservo è ugualmente viva, e non vedo perché non dovrebbe.


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Fino a sera vaghiamo invaghiti: della città monocroma, della pietra mirabilmente omogenea di cui si materiano i suoi palazzi, delle studentesse sedute in piazza. Scriviamo qualche cartolina e viene ora di cena. Chiuso il ristorante citato, per malaugurato turno, entriamo non del tutto ignari nel più pretenzioso del centro. Io in particolare vesto come lì non dovrei, jeans e magliettina bianca (la camicia, troppo pesante per l'afa di giornata, è rimasta nelle borse sul portapacchi).

Il giovane cameriere ci guarda e tratta con malcelato sprezzo. Finiamo in evidente stato di sudditanza psicologica. Farmacista e professore sotto scacco. Vince il sussiego altezzoso di un ragazzotto da cui senza remore in altro ambiente e vestito reclameremmo l'ostentazione della ricetta medica o la risposta esatta di latino. Nel "suo" ristorante l'abbigliamento ci condanna. Così, ci servono rapidamente e rapidamente mangiamo, perché il comune supplizio abbia fine. Mentre usciamo, arriva un inequivocabile gruppo di professionisti con mogli. A loro sì che il cameriere riserva ossequiosi sorrisi. Altri monaci, forse. Ma soprattutto altri abiti. Tanto per smentire il proverbio.


5.8.2002

Gola del Furlo In un mattino leggermente immusonito di nubi, abbandoniamo Urbino per il Furlo, spacco di acqua e pietra bellissimo da pedalare. La strada nella gola rimane quasi del tutto libera dalle automobili, visto che alla loro fretta provvede un tunnel che buca la montagna qualche chilometro in là. La vecchia via altro non è che la Flaminia. Anche dopo il Furlo ne percorriamo lunghi tratti. Fa un poco tenerezza. Da quando al suo fianco corre la superstrada, l'Anas evidentemente la trascura. Peccato di insipienza. La chiudessero definitivamente alle macchine e ne facessero una grande pista ciclabile, attivando adeguate strutture di accoglienza (oh, le Zimmer danubiane di un'altra mia estate su due ruote!?) e dando pubblicità anche all'estero, quanti cicloturisti biondi e accessoriati calerebbero per pedalare da Rimini a Roma?

La Flaminia ha la poesia delle vecchie statali del Centro-Italia, che collegano borghi mai privi di qualche bellezza artistica, di un centro che sappia di etrusco, di romano antico, di papalino settecentesco. L'atmosfera giustifica anche suggestioni cinematografiche in bianco e nero: da dietro una curva ti aspetteresti di vedere prima o poi sortire un'auto anni Cinquanta con a bordo Sordi, Gassman o la Mangano. Che in alcuni punti già lascino sfarsi questa via destinandola alle crepe dell'asfalto e alle erbacce, è una prova in più della nulla lungimiranza italica.

Ovvio: la storia in certo modo decide la geografia e la sorte dei luoghi. Per i Romani la Flaminia era via importantissima, la più comoda che portasse all'Adriatico settentrionale. Il censore del 220 a.C. cui deve nome ed esistenza fu personaggio tutt'altro che banale, coraggioso nello sfidare il potere senatorio prima dei Gracchi e capace di morire da eroe sul Trasimeno, contro le truppe di Annibale. Prova che la strada fosse frequentata forniscono i molti interventi di restauro, fra cui quelli di Augusto, Vespasiano, Traiano e Adriano. Perfino dopo il quinto secolo e la caduta della parte occidentale dell'Impero, mentre altre vie di comunicazione rovinavano in mezzo a guerre, saccheggi e incuria, la Flaminia restò ben transitabile: conduceva ai bagliori dei mosaici e dell'ultima dignità italica, alla Ravenna di Galla Placidia. Retrocedendo al turbinoso 69 d.C., anno di anarchia dopo la morte di Nerone, colpisce un rapido dettaglio che Tacito offre alla sua maniera: quando l'effimero imperatore Vitellio, metu et odio ("per paura e odio") volle eliminare il possibile rivale Dolabella, lo convocò a Roma con una lettera in cui gli consigliava di passare per Terni. Lì gli avrebbe fatto tendere un agguato dai suoi sicari. Pretesto a giustifica della deviazione, il fatto che il viaggio sarebbe stato più agile vitata Flaminiae viae celebritate ("evitato il gran traffico della via Flaminia"). Oggi evidentemente la celebritas non è più della Flaminia, se pedaliamo chilometri senza incontrare nessuno: le sue curve quiete male si addicono alla moderna velocità come l'affollarsi di carri, cavalli e uomini sarebbe stato d'impiccio ai criminosi disegni di un imperatore antico.


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Ricorderemo la Flaminia anche per come nei suoi chilometri dopo Cagli ci assale un violentissimo nubifragio, e ci inseguono i fulmini. Abbiamo paura, per cinque minuti pedaliamo contro un muro d'acqua e sotto lo schiantarsi di lampi e tuoni. Un farmacista e un professore in balia della forza improvvisa e cieca della natura. Bagliori e fragori si abbattono sui fianchi del monte Appennino che stringono la valle. Le borse non pesano più, tocchiamo i trenta all'ora senza che sia la discesa a consentircelo, urge trovare un riparo, da dietro gli occhiali si vede poco o nulla, il vecchio asfalto si riga di fiumiciattoli lutulenti e improvvisi, i piedi sono a mollo, forse entrambi pensiamo silenziosamente alle notizie di cronaca estiva, che almeno un paio di uccisi dalle saette li prevedono ogni anno. Ci immaginiamo stampati con foto, o rapido passaggio di telegiornali regionali. Fantasie non esattamente entusiasmanti che vengono interrotte da un provvidenziale tratto sopraelevato proprio della superstrada: ripariamo fradici sotto i suoi piloni, accanto a un torrente e a una piccola cava. Che gli operai continuino a lavorare ci rincuora come segno di perdurante normalità, mentre al rumore della tregenda si aggiunge il rimbombo dei motori in corsa sulla nostra testa. Meriterebbe possedere la penna di Gadda, magistrale narratore di temporali, come nell'Adalgisa delle "fulgurazioni" inopinatamente scaricatesi il 21 luglio 1931 sulla villa Maria Giuseppina di proprietà Bertoloni. Sprovvisti di tanta prosa, possiamo solo attendere che l'ira funesta si plachi. In fondo, abbiamo ore di margine. Per Gubbio e la camera prenotata c'è tempo.


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Ai piedi della salita della Contessa, ultimo baluardo prima della meta, ritorna il sole. Gubbio avrà poi la limpidezza delle sere in cui è appena spiovuto. La piazza centrale ci accoglie su tribune lignee innalzate per chissà quale spettacolo. Indugiamo nel tramonto. In molti (francesi, tedeschi, italiani) scattano fotografie. Rubano scorci, catturano frammenti di altrove per portarli alla propria casa. Mi viene da pensare come un'immagine di questa nitida sera umbra potrà essere preziosa anche rivista in un brumoso pomeriggio d'inverno, fosse pure (o tanto più) alle pareti di un appartamento della periferia di Marsiglia, di Mannheim o di Milano.


6.8.2002

Ultimo giorno, sforzo maggiore. Decidiamo che, prima di raggiungere il Trasimeno e Cortona, passeremo da Perugia. In un bar, a Gubbio, un ragazzo ci ha spiegato le due vie possibili: quella più lunga, ma piana, che passa da Umbertide, e quella che non aggira i monti frapposti, ed è dunque più breve ma più impegnativa.

Scegliamo la seconda, fascino irrinunciabile della fatica e della sfida, per modeste che siano. Fortuna audaces iuvat, e così le nubi del mattino pian piano dileguano. La salita detta del Piccione la affrontiamo con paziente umiltà. In alto è molto bello, il panorama si apre. Sfioriamo il sentiero che si vuole percorso da San Francesco quando appunto raggiunse Gubbio. Perugia è un nido candido in lontananza, pure arroccato su un rilievo. Ci costerà l'ultimo sforzo vero, ma ci regalerà l'allegria turistica del suo centro affollato in una tarda mattinata di Agosto. Leghiamo le biciclette in corso Vannucci. Meriggio pieno.


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Duomo di Perugia. Entriamo nel fresco della penombra. Qui ricevetti le Ceneri in un lontano mercoledì a inizio di chissà quale Quaresima. Fuori gemeva un vento aspro e ancora freddissimo, di febbraio; dentro, ricordo il vescovo in viola e una luce fioca fioca, adatta a contenere il pulvis es et in pulverem reverteris.

Ma evidentemente questa chiesa ha il destino di lasciarmi impressioni durature, perché nel mezzogiorno agostano, mentre la attraversano turisti distratti, una monaca prega e qualcuno sistema dei fiori, nel momento più banalmente anonimo, ecco d'improvviso rimbombare delle grida accompagnate da frastuono. Ci voltiamo tutti, anche chi, come noi, è lontano e non capisce che cosa si urli, anche gli stranieri. Si tratta di una giovane donna bruna e corpulenta che spinge qua e là violentemente le panche e pronuncia frasi agitate a voce altissima. Si muove con furia disordinata. Fa il vuoto intorno a sé; nessuno osa intervenire neppure quando, non lontano dalla suora in preghiera, rovescia una bussola per le offerte. Guardiamo attoniti finché non imbocca una porta laterale ed esce nell'abbaglio della piazza.

Chi sarà stata? Una povera folle? Questo ci darebbe pena, ma meno inquietudine. E se invece fosse una fedele delusa nella preghiera, una che dopo avere tanto implorato invano una grazia fosse venuta a gridare a Dio il suo dolore frustrato, il suo "perché mi hai abbandonato"? Ce lo chiediamo scendendo verso Piazza Morlacchi e la facoltà di Lettere, che pure rivedo con pensoso affetto. Mi sovviene un saggio di Sergio Quinzio sulla preghiera, sul fatto che oggi, e forse non da oggi, i cristiani chiedono al loro Dio senza davvero credere di poter ottenere, e tanto meno esiti materiali, pur così concessi nelle pagine del Vangelo (vino fino all'orlo nelle anfore d'acqua, figlie risanate, ciechi guariti, fratelli risuscitati dalla morte). Che cosa e come pregare, allora, se si crede? Che cosa e come avrà magari pregato quella donna? E con che attesa in cuore? Ci perdiamo in rivoli di discorsi che non approdano a nulla, forse anche per impreparazione teologica, ma non solo. Unico rifugio per la nostra ragione senza risposte, alla fine sembra il magistero del Padre Nostro. Ripariamo lì. Un passo oltre, è il buio, reale e metaforico, del duomo di Perugia.


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Il lago Trasimeno Nel pomeriggio viene il Trasimeno, improvviso dopo una curva sopra Magione e poi elegante fra gli ulivi della sua riva orientale. Belle ville, un'auto d'epoca. Tramonto limpido sopra il verde e l'azzurro. Poi Cortona in alto, raccolta intorno al suo Beato Angelico, per il quale arriviamo comunque troppo tardi. Concludiamo così, prima che il treno l'indomani ci riporti verso Nord passando per Firenze, Pisa, Pontremoli, la valle del Taro. Copriremo più chilometri in un giorno, sui binari di Stato, di quanti ne abbiamo percorsi in quattro con le nostre biciclette. Ma vedremo e ameremo meno, forse niente: il tempo, lentissimo sui pedali, e tanto più sulle salite, tornerà a correre la corsa precipite delle ore qualsiasi.

Lunghi giorni ci ha invece dato la bicicletta, buoni silenzi, ampi pensieri. Gli occhi si sono riempiti di luoghi e di immagini.

Sappiamo che in città, dopo le ferie, sarà altra bici e altro viaggio. Non ci chiederà di meno. Dobbiamo credere che ci darà di più.


7.8.2002