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Valsugana - Viareggio via Viú

di   Alberto Pedrotti.

Indice delle tappe

Scrivete a   apedrott@science.unitn.it   per segnalare imprecisioni, errori, enormità; per dare suggerimenti o per fornire un contributo alla mia per ora scarna antologia di commenti.

Nascita travagliata

Il percorso che sto per descrivere, che mescola bici e alpinismo, mare e montagna, Alpi e Appennino, Orobie e Apuane, Langhe e Cinque Terre, è per certi versi inusuale. Per spegare il perché di un itinerario tanto strampalato, devo partire piuttosto da lontano.

Precisamente, devo risalire all'infausta giornata di aprile nella quale, diretto come tante altre volte all'Università, mi trovo inspiegabilmente spalmato sulla strada, il mento raschiato dall'asfalto, la bici catapultata venti metri piú sotto nel bosco, e soprattutto la mano sinistra, sulla quale è andato a rimbalzare il manubrio, abbastanza dolorante da fare chiara mostra di essere rotta. Solo nel bosco, solo per una fortunata circostanza trovo due signori che hanno appena finito di lavorare a una fontana e, essendo diretti in città, acconsentono di portarmi in pronto soccorso. Vengo ingessato per una frattura del metacarpo; quanto al rottame della bici, tornato sul posto solo due giorni dopo, non ne trovo piú traccia.

Un altro antefatto risale invece alla fine di giugno. Tolto il gesso da piú di un mese, all'inizio di una timida ripresa, ricevo una telefonata del maestro Russo di Lucca, del quale frequentai per due anni le lezioni di musica da camera al Conservatorio di Firenze, al tempo che stavo a Pisa. Il maestro mi chiede se lo potrei sostituire a un festival che si terrà in Germania a luglio, dove lui è invitato da anni per tenere un corso sul repertorio operistico italiano: quest'anno ha degli impedimenti per cui non può andare. Maledicendo la sorte che mi concede, solo una mano e mezzo proprio laddove ne servirebbero due, resto titubante ma alla fine decido di accettare.

Le ultime ore prima della partenza con l'espresso della notte le dedico a questioni ciclistiche. Non sono infatti ancora venuto a capo dell'acquisto della nuovo mezzo, poiché nessun rivenditore di Trento aveva le misure dei modelli che cercavo. Vista la situazione di stallo, decido che dovrò fare degli studi un poco insoliti, e tiro pazientemente fuori delle diapositive della bici rubata, e delle foto del modello che vorrei acquistare, scaricate da Internet. Aggeggio un po' col proiettore fino a sovrapporre le due immagini, mi armo di righello e calcolatrice, e mi metto a calcolare tutte le distanze immaginabili. Alla fine mi sembra di essermi fatto un'idea chiara di quel che mi serve, e affido a mia madre il lucido con i profili delle due bici, e la commissione di ordinarmi il nuovo mezzo, cosí da trovarlo pronto al rientro dalla Germania.

Da Altenburg ritorno con qualche indicazione per le prossime vacanze. Primo, lo stato della mano è peggiorato, grazie anche ai ritmi di lavoro non blandi - fino a dieci ore al giorno allo strumento durante la stretta finale. Secondo, una bronchite virale che mi ero ritrovato prima di partire non ha tratto grande giovamente dalle brume del Nord. Terzo, ho avuto in consegna una certa quantità di pacchi di caffé da recapitare al maestro Russo, da parte dell'ostessa tedesca che lo ricorda affezionatamente. Quarto, ho appuntamento con una cantante polacca che era al festival e ai primi di settembre sarà a Firenze. I primi due sintomi indicano chiaramente che mi ci vuole un periodo di mare, magari da farsi in Toscana cosí da sbrigare anche tutte le faccende satelliti.

La prima metà di agosto se ne va a provare la bici, e soprattutto a passare in rassegna selle inadatte alle mie... forme. Dopo la mia esperienza, accomando a tutti coloro che avessero una sella comoda (ahimé non è il mio caso attualmente) di segnarne le sacrosante caratteritiche su pergamene, agende, dischetti e cdrom, di farsene fare un calco o quant'altro. Ferragosto si avvicina senza sensibili progressi da questo punto di vista, ma intanto intervengono dei fatti nuovi. Tommaso Calarco, valente fisico e musicista roveretano, mi invita a un concerto di madrigali che il suo coro terrà a Tenno la sera del 13 agosto, per una manifestazione detta Rustico Medioevo. Pier Marco Bertinetto mi invita, come già i due anni precedenti, a trascorrere con lui in Valle di Viú alcuni giorni da consacrare ad escursioni. Inoltre, la SAT di Levico organizza per il 19-20 agosto una gita sul Gran Paradiso, e alcuni miei amici vi si sono iscritti. Ormai la forma del giro è definita: andare a Tenno, tirare a diritto per la Val d'Aosta, indi fermarmi un poco a Viú e infine puntare su Viareggio. Alla base del Gran Paradiso, mi troverei con i trentini che mi porterebbero l'attrezzatura, il caffé e altra roba che mi servirebbe poi in Toscana; roba che caricherei direttamente sulla macchina di Pier Marco, che rientrerà a Viareggio a fine mese.

Resta solo un piccolo dettaglio: riuscire a partire. Il che significa trovare una sella che dia un minimo di garanzie. Sabato 12 pervengo in extremis a un esemplare che non mi sembra causare grossi danni, e acquisto anche delle capienti borse posteriori - una delle vecchie, tra l'altro, era sulla bici rubata. Non riesco a trovare le borse anteriori, comunque, la sera stessa comincio a raccogliere i bagagli. L'ultima è che non riesco a trovare i pali della tenda. L'indomani verso mezzogiorno la casa è stata rovistata da capo a fondo, ma i pali latitano ancora. Penso all'ultima volta che usai la tenda: fu per una traversata dell'Appennino, dopo la quale fui ospite a Pisa del mio amico senese Alessio. Anche se ha lasciato Pisa da mesi, provo a telefonargli, e lo trovo giusto nel sottopassaggio della stazione di Pisa, diretto alla vecchia dimora per pagare un conguaglio della bolletta ENEL. Male per lui, bene per la mia causa: dopo mezz'ora ho l'assicurazione che i pali, scivolati nel fondo di uno sgabuzzino buio, ove sono sfuggiti sia a me che a delle epurazioni successive, prenderanno la via di Siena, dove sono tuttora. Non mi resta che prendere confidenza con la grossa tenda che si è comperata mia madre di recente: pesa il doppio del dovuto e soprattutto ha una larghezza da venire incriminati per trasporto fuori sagoma. Tuttavia, montata su delle borse già ipertrofiche per parte loro, la si può anche spacciare per un bagaglio regolamentare.

Alle 16.30 ho approntato sia la zavorra della bici che lo zaino da diramare verso la Valle d'Aosta. Quando arriva mio padre, il quale mi vorrebbe affibbiare un telefonino che non saprei dove mettere, mi dò alla fuga: inizia dunque l'avventura.  

0. Marter-Tenno (90 km, 1700 m)

La quale si fa subito piuttosto rocambolesca. A Caldonazzo stabilisco che la via piú breve per Rovereto è il Passo del Sommo. (?) Assecondando le gambe che girano, mi inerpico con troppa foga su per la ripida salita di Centa, senza pensare che oggi sono piú pesante del solito. Quando arrivo dalle parti del passo, avverto una spiacevole sensazione come di un ago piantato dentro il ginocchio destro. Per fortuna usando un po' piú di prudenza riuscirò a far recedere questo minaccioso sintomo. A Folgaria devio per Serrada, e i manipoli di turisti stanno già accomodandosi ai tavoli per la cena quando io mi accomodo la mantellina per la lunga discesa su Rovereto. Prima scoperta del viaggio è la Valle di Terragnolo, a me ignota: grandioso il suo apparire, via via che si percorre l'unico larghissimo tornante che porta a congiungersi alla strada che scende dal passo della Bòrcola. Essa sarebbe la strada di fondovalle, se non che quest'ultimo è inaccessibile, per cui il tracciato resta aggrappato alle rocce di mezza montagna. Dopo un lungo tratto pianeggiante, a tratti ricavato nelle suggestive balze rocciose, appare finalmente lo sbocco della valle su Rovereto, e in pochi minuti, dopo le ultime bizzarrie della Via dei Colli, ci si trova comodamente depositati in Corso Rosmini. Il tempo stringe e devo pedalare con impegno verso Mori e poi, in mezzo a un traffico intenso, verso il modesto Passo di San Giovanni. Quando imbocco il piano inclinato che porta a Torbole cominciano ad accendersi le prime luci sul lungolago, animato da un gran viavai di gente. A Riva dopo qualche tentativo a vuoto riesco trovo la strada per Tenno, e la lenta salita in mezzo agli ulivi, nella brezza calda della sera, mi porta con la mente in altri luoghi. Sotto di me, la piana di Riva è tutta un disegno di luci, interrotto a mezzo dalla massa scura del monte Brione. Le acque piú lontane del lago vivono degli ultimi riflessi presi a prestito dal cielo aperto della pianura. Piú vicino, invece, sopra l'Altissimo, il cielo è buio e tra nuvole sfilacciate appare e scompare la luna. Davanti a me, la collina amorevolmente terrazzata è punteggiata dalle numerosi frazioni di Tenno, e appare come un unico grande presepe. Aggiungono suggestione alla scena, e un po' di irrequietudine, i lampi che sempre piú fitti cominciano a imperversare sopra il monte Misone. Giunto a Tenno, una rocca illuminata mi fa credere di essere arrivato al Rustico Medioevo; apprendo invece che la mia meta è piú su. Dopo un tratto di valle assolutamente buio, infatti, ecco apparire nuove frazioni e il bivio per Canale. Automobili parcheggiate per centinaia di metri dimostrano senza equivoco che ho trovato la festa e infatti, parcheggiata la bici sotto un vòlto, giungo alla piazzetta dove il concerto è già incominciato.

A un certo punto la pioggia caccia musicisti e spettatori in uno scantinato dove il concerto continua. La colpa è tutta di Tommaso, che ha appena finito di pregiare la convenzione stipulata per l'occasione dall'APT con le autorità meteorologiche. Segue uno spuntino dopo il quale la compagnia si scioglie. Io trovo una sistemazione in uno dei numerosi vòlti del paese, e questo mi dispensa dal raggiungere il campeggio presso il lago, dove dovrei mettermi a montare, a quest'ora tarda, la tenda, e per giunta sul bagnato.  

1. Tenno - Presolana (149 km, 4150 m)

Al mattino presto scendo la stradina di Canale, e solo in fondo mi accorgo che sulla bici manca qualcosa: non vedo infatti penzolare il casco dal manubrio dov'era appeso. È piú che evidente che qualcuno dei monelli che giravano la sera prima per le osteria del paese se lo sarà preso; ma per lo scrupolo di vedere se non fosse solo uno scherzo balordo, torno indietro a cercare. Invece non è uno scherzo balordo.

Passo il lago, infossato dietro una barriera morenica, e raggiungo in breve il Passo del Ballino, sulla cui spianata spicca un simpatico agglomerato di case vecchie. Proseguendo verso Fiavé, raggiungo una specie di altipiano, presidiato dalle nebbie. Prendo a sinistra verso i paesini del Bleggio e, superato un profondo avvallamento con successiva risalita a Cavrasto, mi fermo in paese a fare colazione. Segue l'ascesa ai mille metri del Passo del Durone, un percorso senza nessuna particolare attrattiva, se non un discreto panorama sulla sottostante spianata dove quel poco sole che è arrivato sta sciogliendo le nebbie e rivelando la trama regolare dei prati. Piú avventurosa la discesa verso Tione. Sul rettilineo iniziale sono sorpreso dalla scenografica apparizione della sagoma del Carè Alto, che spicca sugli altri rilievi, con la sua cupola nevosa, quantum inter viburna cupressi, verrebbe da dire. Quanto alla strada, il meglio viene sotto, allorché il percorso si restringe in corrispondenza di rampe al sedici per cento. L'arrivo in vista dei prati e del paese di Zuclo è quasi un sollievo; da lí la discesa sul fondovalle del Sarca è breve e piú tranquilla. A Tione inizia la risalita verso Breguzzo, Bondo e Roncone, modesto dislivello che passa senza patemi, anche per l'interesse del panorama, il quale si amplia ulteriormente sulla spianata sommitale che ospita i tre paesi. Comincia la comoda discesa per la Valle del Chiese, nella quale comincio ad avere le prime avvisaglie dei patimenti da sella stretta che mi tormenteranno per il resto del viaggio. Passato Storo, noto un tempo per la polenta ma adesso anche per i suoi carnevali, arrivo a Lodrone e torna il tempo di risalire. Infatti, voglio puntare al passo di Croce Dominii attraverso la provinciale di Riccomassimo, anziché seguire la statale che si dirama dalla sponda del Lago d'Idro, percorso presumibilmente piú riposato ma anche notevolmente piú lungo. Che la salita per questo paesino posto nell'ultimo angolo di Trentino fosse dura, lo avevo sospettato già sulla carta, ma che non concedesse proprio un metro di respiro non lo immaginavo. Il sole impietosamente sottolinea la fatica, e arrivato in paese mi butto sotto il getto della fontana. La carta Touring, poi, non spiega che la strada, passati i 755 metri dell'abitato, sale fino agli 850 metri di un ponte sul torrente della Val Marza, che qui indugia in due-tre belle piscine. Data l'ora decido di fermarmi per un bagno seguito da una corposa pastasciutta.

Fatto tutto ciò, scendo su Bagolino, ove la salita al passo ricomincia abbastanza in sordina, per poi proporre qualche impennata, tra cui quella che dopo il ponte di Dasaré sale a superare lo sbarramento dell'omonimo laghetto. A Val Dorizzo, popolato da numerose tende e campers, sono in tanti i turisti che passeggiano sotto il sole, ma già si vede che verso nord si va creando un minaccioso ambiente temporalesco. Presso la Casa del Soldato mi abbevero ad una fontana, detta del Lupo, e caratterizzata da uno spruzzo di lunga gittata, ma anche abbastanza asmatico, che col variare della sua forza fa curiosamente tremare il basamento di legno. Le nubi temporalesche mi fanno considerare se sia il caso di non disprezzare le garanzie offerte dal vicino tetto. Poi però decido di proseguire, e il temporale mi sorprende quando sono a poche centinaia di metri dall'albergo Campras, onde con un'accelerazione riesco ad evitare il peggio. Facendo la spola fra lo stanzone interno, il sottoscala dove si sono ammassate decine di escursionisti, e da ultimo addormentandimi su una panchina, riesco a far trascorrere l'ora e mezzo che il maltempo ha riservato per sè. Quando la strada cessa di sembrare un torrente, riparto e, passata Malga Gaver, una serie di gradevoli tornanti che di tanto in tanto incrociano una pista da sci, mi solleva fino al Goletto di Gaver. Una leggera discesa porta alla Malga Cadino della Banca, sita al centro di un incantevole anfiteatro: una valle qui appena abbozzata, stretta fra cime minori, dietro le quali spunta minaccioso il Cornone di Blumone ancora cinto di nuvole arrabbiate. Mentre qualche comitiva di escursionisti si avventura su per la mulattiera, presumibilmente ciclabile, che risale la spianata fino a metà percorso per il Lago della Vacca, e altri si fermano alla malga a comperare formaggio, io affronto gli ultimi quattro tornanti che risalgono il versante opposto. Dopo una lunga sosta per salutare il panorama, raggiungo la vicinissima croce del Goletto di Cadino (1943 metri) donde scendo sul passo di Croce Dominii; qui ritrovo il percorso dell'anno precedente, allorché scesi dalla sterrata che piomba sul passo da sinistra. Con attenzione raddoppiata, dopo che l'amico ciclista Marco Buffa mi ha informato di un suo brutto incidente su questa discesa, affronto lo stretto "budello" che porta al bivio di Astrio. Basso di fronte a me, e pure ben alto sulla Valcamonica, intravedo fra colonne di pioggia, giochi di nuvole e penetranti raggi di sole, il verde altipiano di Borno, ovvero la mia prossima salita. Infatti, dopo essermi rifocillato a Breno, dal vicino paese di Malegno comincio a salire per pigri tornanti, in mezzo a un traffico di un'intensità decisamente inattesa. Le ombre sono già alte sulle ripidi pendici del Gruppo dell'Adamello, ma per fortuna è solo effetto delle nubi: ad Ossimo ritrovo, quale piacevole sorpresa, il sole. A Borno consiglio di ribellarsi all'ampia circonvallazione, che allunga inutilmente il percorso e costringe ad affrontare un'inutile rampa. Con una blanda salita arrivo al valico della Croce di Salven, 1108 metri, scoprendo mano a mano la maestà del Pizzo della Presolana, le cui creste stagliate contro nubi luminosissime sembrano ancora piú finemente cesellate di quanto non siano in realtà, per effetto dell'acuto controluce. Voltandomi indietro invece vedo le ombre che, risalendo stancamente, si stanno ingoiando i dossi arrotondati attorno al passo di Crocedomini, che visto da qui appare veramente come un'improvviso mancamento della catena dell'Adamello. Al valico ci sarebbero praticelli adattissimi al campeggio; le voci che arrivano dalle villette suggeriscono all'unanimità che è ora di cena. Tuttavia dopo un po' di dubbio decido di raggiungere la meta che mi ero prefisso per la giornata, ovvero il Passo della Presolana. Dopo i prati degradanti di Palline, la strada affronta una cornice rocciosa affacciandosi sulla profonda valle di Scalve; un lungo traverso conduce al paese di Dosso, tutto bardato con striscioni colorati; i pochi metri quadri pianeggianti che la montagna concede sono affollati di gente che festeggia essendo la vigilia dell'Assunta. Un'ultima picchiata rapida porta al fondovalle, a poco piú di 700 metri di quota, presso Dezzo di Scalve. Qui accendo il fanale, metto a tracolla le strisce riflettenti, e mi avvio per l'ultima salita. Tutto tranquillo fino al bivio per Colere, al quale ho praticamente riguadagnato la quota di Dosso, donde continuano a venire musiche festanti. Poi ecco un cartello che segnala la pendenza del 14 per cento: esso non si riferisce a uno strappo isolato, ma a tutto il susseguente percorso fino in prossimità del valico. Davanti a me le poche case illuminate di Albareto, che sembrano quasi appese in cielo, eppure la strada le punta con la massima dirittura. Dopo un paravalanghe, impressionante l'attraversamento di un vallone dove imponenti mucchi di sabbia, strappati dall'acqua alla parete incombente, minacciano da vicino la strada. Segue un gruppo di tornanti; quando riappare l'insellatura della Croce di Salven, si vede che è già notevolmente piú bassa. Sopra di essa la luna piena sembra un grande pallone appena rimbalzato sui prati. Un ultimo gruppo di tornanti presenta una pendenza ormai sopita, e dei lampioni cominciano ad annunciare la vicinanza al passo. Poco oltre quest'ultimo, mi fermo presso un edificio moderno che devo guardare due o tre volte prima di rendermi conto che è una chiesa. Essendovi luce, entro per vedere; delle pie donne stanno recitando il rosario in dialogo con un corifeo, mentre un frate che sovrintende silenzioso alle operazioni. Mi associo alle ultime decine di orazioni e, appena finita l'ultima sillaba le pie donne, che già da tempo hanno notato la presenza forestiera, si voltano di scatto ed accorrono per intervistarmi. Riassunte le mie due puntate, chiedo ragguagli su cibo e possibilità per dormire. Quanto alla cena, il corifeo mi indirizza con decisione da Ivo al Forno Antico; quanto al dormire, sono le pie donne ad avere le idee chiare. La chiesa ha un bel portico, duro ma in compenso asciutto. Piantando la tenda in un prato avvertirei gli effetti nefasti dell'umidità, ma soprattutto, potendo dormire cosí vicino a Gesú, cosa che dà le maggiori garanzie, sarebbe impensabile andare a cercare fortuna altrove. È il drappello stesso a controllare che io mi sistemi nel luogo stabilito; salutati tutti, dirigo verso Ivo dove, benché mi colpiscano i caratteristici piatti, di dimensione spropositata, nei quali vengono serviti i primi, opto per una pizza. Faccio poi l'errore di buttarmi sul duro pavimento direttamente col boccone sullo stomaco, pregiudicandomi in questo modo il sonno.  

2. Presolana - Verceia (152 km, 2900 m)

Ancor prima delle sei del amttino vengo svegliato dal passo frusciante di alcuni escursionisti sul vicino prato; al che prendo esempio e mi appresto alla partenza. Il momento clou della giornata è quello in cui mi appoggio alla sella: scopro che il sedere rifiuta completamente il contatto; piaghe vive e all'occorrenza sanguinanti rifiutano qualsiasi posizione io tenti. A pensarci bene, questa non è una situazione ottimale per uno che voglia fare ancora parecchia strada in bici. Per fortuna l'incoscienza mi aiuta a proseguire senza disperare, e nella lunga discesa su Castione della Presolana provo gradualmente a prendere contatto con la sella. A Fino del Monte la strada spiana, e devo escogitare qualcosa. Armeggio un poco al reggisella, ma senza grossi benefici; per fortuna però il fastidio si stabilizza; nei giorni seguenti finirò quasi per abituarmici. Lasciando a sud un groviglio di collinette, la prosegue verso ovest aggirando Clusone e calando in Val Seriana presso Ponte Nossa, dove ho qualche difficoltà a trovare la strada per il Colle di Zambla, grazie a un'insegna un po' maldestra. Il bivio è fuori dal paese; la valle da percorrere, inizialmente solo uno stretto intaglio del fianco del Serio, appare solo all'ultimo. Una salita decisa, al cospetto del monte Alben, conduce a Gorno; indi con lungo traverso si guadagna Oneta, ove appare un ampio pratone che scende direttamente dal colle, punteggiato di gruppi di case, tutti sfiorati presto o tardi dalla strada che sale con ampi tornanti e pendenza assai moderata. Sui tornanti ci si trova di fronte all'ampio fianco del Monte Grem, 2049 metri, che deve essere una primizia scialpinistica: prati e boschi vi si alternano ordinatamente fino ad alta quota, prima di lasciare porto al liscio costone sommitale. Nella parte alta della salita comincia a far caldo; ai 1250 metri del colle la fontana è affollata di ciclisti giunti da entrambi lati, ma specialemente dal versante brembano. Quasi a portata di mano c'è la croce dell'Alben, appena visibile tra la selva di cocuzzoli che caratterizzano questa montagna, della quale Bonatti scrive, nel primissimo paragrafo della sua autobiografia alpinistica: " l'Alben, la cima che piú di tutte innescava la mia fantasia grazie ai suoi bianchi calcari aguzzi spesso avvolti nelle nubi. " A destra la Cima di Grem cessa di essere protagonista, perché sono comparse ormai cime piú illustri; in particolare il maestoso Pizzo Arera, 2512 metri, caratteristico per i suoi fianchi di roccia liscia con striature verticali.

Successivamente, per dimenticare il male al sedere, mi impongo di capire la complessa idrografia del luogo. Superato il paese di Zambla, si raggiunge Oltre il Colle, il centro piú grosso, addossato a una piccola gibbosità che sta nel bacino idrografico del torrente Parina, affluente del Brembo. La strada però abbandona ben presto questa valle, portandosi con una piccola forcella (1039 metri) nella vallata di un altro affluente ma, anziché scendervi, rimane alta sul paese di Serina e rimonta ben presto verso Dossena, in ottima posizione soleggiata. Di qui il percorso, lungi dalle scendere lungo il solco di un terzo affluente, punta verso un costone boscoso dove sorge una chiesetta dopo la quale finalmente si è nel bacino del Brembo. Prima di scendere sopra il santuario di San Gallo, in un tratto di strada pianeggiante rivolto verso nord mi appaiono come un miraggio lontano le Alpi Orobie e in particolare degli altissimi prati: sono proprio quelli del Passo San Marco, la mia prossima meta. A San Giovanni Bianco tocco il fondovalle, 401 m, e comincio a risalire. In questo tratto pianeggiante le sofferenze da sella toccano forse il momento piú delicato; piú volte mi fermo a tentare qualche aggiustamento, senza invero grandi successi. Aspetto con impazienza che la strada si metta a salire in modo deciso, cosí da poter scaricare quanto piú possibile il peso sui pedali. A Lenna diffido per prudenza del lungo tunnel che immetterebbe direttamente nel ramo occidentale della Val Brembana, evitando del resto solo un modesto dislivello. Sopra Olmo al Brembo la valle assume caratteri decisamente alpestri; quando appare, su un pendio soleggiato, il paese di Mezzoldo, ultimo della vallata, la salita del Passo San Marco può già dirsi a tutti gli effetti cominciata. Durante il percorso raccolgo un po' di statistiche: tutti mi gridano un'unica domanda, ossia se sono diretto al San Marco, e tutti, ricevuta risposta affermativa, scuotono tutti eloquentemente la testa.

Poco sopra il paese comincio a capire che la salita, al di là del dieci per cento di media che si evince dalla carta, è realmente impegnativa. Dopo un panoramico tornante che permette di salutare il simpatico paese, si entra nel bosco, dove cominciano i primi strappi. Il piú duro permette di guadagnare il bordo di un piccolo lago artificiale; poco dopo il Ponte dell'Acqua si esce con pendenze piú contenute al pianoro che ospita la Madonna delle Nevi. Qui la strada abbandona la riva del fiume, per guadagnare a suon di tronanti un piccolo spartiacque che bisogna superare per arrivare al passo. Questo, infatti, si trova propriamente alla testata di una laterale, la Val Mora. Verso la fine dei prati sopra la chiesetta la strada si impenna, raggiungendo per breve, spettacolare tratto una pendenza di sicuro non inferiore al diciotto per cento. È proprio all'inizio di questo bel cimento che due altri ciclisti si avviano verso l'alto; di lí a poco li raggiungo e per un breve tratto sono confortato da un po' di compagnia. Ben presto però i due si staccano cosicché, superata una nuova fascia boscosa, sugli splendidi prati soprastanti li vedo arretrare sembre piú in basso. Immagino che ci ritroveremo al valico, il quale mi appare ormai vicino. Ma è solo un tranello: infatti il grosso casamento affollato che mi sovrasta è solo un rifugio, posto ben al di sotto il valico. Il quale tuttavia viene raggiunto, dopo un breve tornante impegnativo, con un tratto di mezzacosta non troppo duro. L'ultima occhiata verso il basso mi convince che i colleghi hanno desistito; in ogni caso, ai 1985 metri del valico, pur latitando i ciclisti in genere, c'è grande vita, addensata in particolare attorno a un piccolo chiosco-roulotte che vende bibite e porchetta. Seduto sul prato, considero la gravità dello stato del mio sedere, nonché della mezza ustione che mi ritrovo sulle braccia, esposte lungo tutta la salita al sole a picco, la cui azione qui al passo è meno percettibile a causa della brezza che spira da nord. Dopo un po' di quiescenza decido di avviarmi verso la vicina cimetta, un picolo panettone di 2150 metri dal quale sarebbe buona cosa dirigersi verso il Monte Fiorano, la cui cresta appare alquanto panoramica ma anche piuttosto lunga, per cui decido di tornare alla base. Sono infatti ancora convinto, benché il pomeriggio sia ormai avanzato, di volermi togliere già stasera un pezzo di salita dello Spluga.

L'accesso al San Marco da nord non ha nulla da spartire con la dirittura del versante meridionale; qui la strada infatti indugia variamente lungo i fianchi di alcuni rilievi, prima di decidersi a scendere su Albaredo. La posizione di quest'ultimo paese ha qualcosa di veramente improbabile, per la pendenza esagerata del pendio cui s'appoggia. Le case sono allungate ma strettissime, probabilmente per contenere il dislivello tra i due lati di uno stesso edificio. Tutt'attorno, i prati sono verdissimi anche grazie a un minuzioso sistema di irrigazione per mezzo di canali trasversi. Sotto Arzo, l'ultimo paese prima del fondovalle, trovo una fontana adatta alla pastasciutta del giorno. Sul fondo della Valtellina mi attendono invece nuovamente afa e problemi di sella; traverso l'Adda al piú presto, per giungere alla strada secondaria che segue la sponda destra. Tengo gli occhi puntati sull'imponente mole del monte Legnone, il quale incombe per 2400 metri da sinistra sul fondovalle: vera e propria pietra angolare delle Alpi Orobie, nonché mia antica fissazione per via del panorama che sono convinto passa offrire. Arrivo al cosiddetto piano di Spagna, che divide l'ultimo lembo settentrionale del lago di Como dal laghetto di Mezzola. Qui l'attenzione è calamitata da un'altra possente montagna, il Berlinghera, ultimo rilievo di una catena secondaria che si stacca dalla cresta di confine. Poco prima di Verceia, uno sbarramento roccioso è superato dalla strada statale in una galleria vietata ai ciclisti. Costoro sono invitati a seguire una stradina che gioca un po' ad attraversare la ferrovia privata Colico-Chiavenna, sulla quale, meraviglia, ci sono per davvero dei treni, come dimostra il fatto che ne arriva proprio uno pochi istanti prima del mio passaggio. Appoggiato alla stanga piuttosto che alla sella, posso comodamente godermi l'anticipazione di panorama che la galleria del treno concede su Verceia, sita al di là di un piccolo naso roccioso che la ciclabile invece aggira. Le acque del lago sono cosí tranquille che mi lascio prendere dalla tentazione di un bagno. Tentazione che si tramuta in decisione quando alla fine del paese trovo un campeggio, dove monto la tenda e mi metto direttamente a mollo.

Nuotando verso un mucchio di bianchi detriti spinti nel lago dal torrente che scende dalla soprastante val Codera (parzialmente difesa da un gran salto roccioso) ho modo di ammirare nella luce della sera tutti i severi rilievi che proteggono questo tratto di valle. Mi informano poi che a Novate c'è una pizzeria, e quando mi avvio è già notte. Il pizzaiolo riterrebbe di aver già lavorato abbastanza, ma alla fine accondiscende ad un'ultima fatica. Il prodotto è ottimo, ma purtroppo deve essersene accorto anche un nugolo di moscerini che fatico a tenere a bada. Sotto, sulla statale, una lunga teoria di automobili probabilmente raccoglie i vacanzieri di Ferragosto reduci dagli ameni luoghi dell'Engadina, e diretti verso la bassa lombarda. Prima di andare a dormire, ci sono anche i fuochi d'artificio in paese; purtroppo salta fuori anche un gruppo di monelli, fornito di petardi, che li vuole imitare. Rintanato nella tenda, intercetto il piano di farne esplodere uno sul mio sellino. Diffidando che questa sia la cura risolutiva per le mie sofferenze, esco sforzandomi di mostrare un'aria minacciosa verso il gruppetto che sta dando fuoco alle polveri. I compari negano l'evidenza e per giunta si rifiutano di andarsene; solo quando mimo l'entità dei ceffoni che queste rivendicazioni stanno per procurare loro, il nugolo si disperde ai quattro angoli del campeggio. Purtroppo il perdurante frastuono di una non lontana discoteca fanno sí che anche questa notte in campeggio, benché sulla carta dovesse essere la piú tranquilla di tutte, non mi dia il riposo di cui avrei bisogno.  

3. Verceia - Cannobio (171 km, 2800 m)

Altro aspetto negativo del dormire in campeggio è che non si può partire alle sei quando i cancelli aprono alle otto e mezza. Se questo mi permette di fare un altro bagno, e di ammirare la cerchia di monti in una luce del tutto diversa, nel tratto di fondovalle fino a Chiavenna ho modo di dolermi ampiamente di non aver potuto partire all'alba. A Chiavenna faccio colazione con le pizzette di un'ottima panetteria, posta proprio all'imbocco della statale dello Spluga. Alcuni ciclisti diffidano di questa salita per il dislivello (1800 metri) e soprattutto per lo sviluppo (oltre 30 km), ma tali timori sono infondati, poiché l'interesse continuo del percorso e del paesaggio non possono mancare di distrarre dall'eventuale fatica. Il primo paese che si incontra è San Giacomo Filippo, con due belle fontane; indi in corrispondenza di una serie di stretti tornanti c'è il Santuario della Madonna di Gallivaggio. Prima di Cimaganda, il paesaggio ai lati della strada è caratterizzato da enormi massi franati dalla montagna in tempi non recenti; parecchi edifici dell'abitato si appoggiano in parte a qualcuno di questi macigni. Segue Campodolcino, centro di soggiorno piuttosto frequentato; qui la valle è abbastanza spaziosa e per un tratto pianeggiante. Usciti dall'abitato, si incontra il bivio tra la strada di fondovalle, che ha l'aria di essere stata ampliata di recente, e il percorso che sale piú direttamente verso Pianazzo.

Bisogna assolutamente non perdersi quest'ultimo; non so se ci siano percorsi dove, al pari di questo, sia la strada stessa, piú ancora del panorama pur notevole, a farsi spettacolo. Ricavata in maniera del tutto improbabile in una parete rocciosa quasi verticale, una successione di altissimi muri, ponti, tornanti impilati talora uno sopra l'altro, o seminascosti in galleria. Si stenta a credere che tutto ciò sia stato immaginato e costruito nel 1834. La strada originale, infatti, fu tracciata nel 1818-22, ma la variante diretta fu realizzata dopo; a quei tempi, la strada rimaneva aperta tutto l'anno. Ma a sconvolgermi è soprattutto l'immaginazione titanica di chi, vedendo questa parete, vi ha immaginato sopra un tracciato; non a caso il proprietario di questa immaginazione era l'ingegner Donegani, lo stesso della strada dello Stelvio. Mentre si sale per questo incredibile tratto, si ha l'ulteriore occupazione di guardare a un piccolo tracciato che sale sul ripido versante opposto, e dapprima non si capisce bene dove vada. Solo dopo aver guadagnato sufficiente quota si scopre, ospitato da una conca appartata sopra il ripido fianco lisciato dai ghiacciai, il minuscolo abitato di Starleggia. Finita questo tratto eccezionale, si arriva all'abitato di Pianazzo, introdotto dallo scroscio di una immane cascata che, sotto la strada, compie un salto di 180 metri verso il lontano fondovalle. Da un esposto belvedere, cinto da un confortante muricciolo, si può ammirare lo spettacolo. Unico problema è l'insoppostabile odore di detersivo che sale dall'acqua, sporchissima come dimostra l'abbondanza di schiuma in una pozza sopra il salto. Anche l'aria, satura delle goccioline che salgono dalla cascata, è completamente ammorbata, e dopo un poco devo fuggire.

Poco sopra il paese la strada si congiunge al tracciato alternativo; di lí a poco segue l'imbocco del tunnel per Madesimo; la nota stazione sciistica infatti si trova defilata rispetto alla vallata principale. Un lungo tratto sotto un paravalanghe conduce alla Cantoniera di Teggiate, 1679 metri, apparentemente affittata a dei turisti che stanno pranzando numerosi sul prato. Il posto è assai panoramico, e un ciclista tedesco con il mezzo carico all'inverosimile è intento a fotografare la vallata. Superato un altro paravalanghe, una decisa svolta a destra svela la testata della valle, un luogo davvero appartato dove i prati si alternano a scabre rocce, il tutto sorvegliato dalla roccia chiara del massiccio del Suretta, che alcuni squarci nelle nubi lasciano intravedere molto suggestivo. Superate le poche case di Boffalora, si raggiungono, ormai in vista dello sbarramento del lago di Montespluga, quelle de La Stuetta. È quest'ultimo un curiosissimo insediamento, anomalo rispetto agli standard alpini, perché sembra che le case, sparpagliate sul largo prato, abbiano scelto di stare non troppo lontane ma nemmeno troppo vicine; quando ci si trova girati verso la pianura lombarda, grazie a un brevissimo tornante, non può non venire in mente un paragone con l'affollamento di laggiú. Nel tratto pianeggiante che costeggia il lago incontro un altro paio di ciclisti; il vento ci sospinge rapidamente, superato un lungo ponte, verso il paese di Montespluga, veramente l'ultimo di questa lunga valle, raccolto attorno a La casa, ovvero l'antica posta-dogana.

Mentre mangio un'ultima razione delle pizzette di Chiavenna commiste a spicchi d'aglio, adocchio una cartolina che mostra il paese in una versione quasi veneziana, con l'acqua che penetra fino a lambire le case. Vado subito in cerca di questo scorcio, e mi rendo conto con sorpresa che il luogo raffigurato dista pochi metri, ma che il lago è molto sotto il livello abituale... quindi lo spettacolo semplicemente oggi non si dà. Come in tutti i valichi di frontiera, si trovano in vendita le piú strampalate primizie italiche; particolarmente in auge è qui il Chianti che, insieme al paesaggio acquatico, mi fa sentire improvvisamente vicina la meta del viaggio. Per la prima volta realizzo quanto sarebbe stato assurdo puntare sulla Versilia per un percorso diverso da questo... Una breve salita porta ai 2115 metri del valico, donde credo sarebbe ottima prassi salire al Pizzo Tambò se solo le nubi fossero meno affezionate ai fianchi delle piú alte montagne, di quanto non si mostrino oggi. Per sfuggire a pericolose tentazioni alpinistiche, supero il passo di volata, complice il fatto che la postazione doganale svizzera è piú giú, al cosidetto Berghus, 2000 metri tondi. Segue uno spettacolo che mi era già stato preannunciato da una cartolina di Montespluga: la strada descrive una serpentina di dieci tornanti perfettamente regolari. Se un giorno avessi l'occasione di scrivere un libro sulle Alpi in bicicletta, questa sarebbe la copertina ideale. La serpentina mi ricorda un tratto della strada della Tremola, tra Airolo e il Gottardo - e un pavè rosso come quello della Tremola si trova proprio arrivando in paese a Splügen. La discesa nel suo complesso mi ricorda invece quella dal Passo Umbrail su Santa Maria di Monastero.

Il percorso della testata della valle in direzione delle sorgenti dello Hinterrhein è una vera lezione di ecologia. A parte i prati irrealmente verdi, a parte belle vedute retrospettive sulla spoglia catena di montagne che chiude la valle dietro la svolta della Rofla, tiene banco la curiosa configurazione delle vie di comunicazione. All'inizio, la strada ordinaria corre a lato dell'autostrada del San Bernardino, separata da questa da un alto reticolato che degli oprai in alcuni punti stanno ulteriormente alzando. L'autostrada è divisa a sua volta da una solida barriera nelle due carreggiate, senza che nessuna abbia una vera corsia di sorpasso. Poco piú avanti, dalla strada normale germina anche una pista ciclabile parallela a strada ed autostrada. Caratteristica comune delle tre vie, l'essere praticamente vuote. La strada normale lo è letteralmente; sull'autostrada circola ogni tanto qualche furgone; sulla ciclabile c'e' solo il mio convoglio. In corrispondenza di ognuno dei tre paesi che si incontrano, un groviglio di svincoli, grande probabilmente piú dell'abitato, tenta di sbrogliare la matassa tra le tre strade. Credo che tutto ciò abbia a che fare con la tanto pregiata ecologia degli Svizzeri. Ognuno di questi paesini consiste di per sè in un agglomerato di case che affiancano per un centinaio di metri la strada, con deliziosa profusione di fiori e fontane. Dopo Nufenen, la ciclabile reclama la sua indipendenza, e si inerpica senza preavviso su per un prato; dove voglia andare, non è chiaro. Tuttavia la cieca fiducia viene ampiamente ripagata in quanto, passato un piccolo costone, il percorso attraversa un declivio erboso d'una tale irreale amenità, che la fisarmonica di tornanti dello Spluga è retrocessa d'ufficio alla quarta di copertina del libro sulle Alpi. Quel che segue è di nuovo oscuro: entrata in un'abetaia, la ciclabile guadagna alacremente quota e, raggiunto un anonimo passaggio sopra un ripido valloncello roccioso, scende in picchiata su Hinterrhein, l'ultimo paese.

A Hinterrhein la matassa stradale è ancora piú spessa delle precedenti perché c'è anche di mezzo l'uscita del traforo, con tanto di piazzole di sosta per camion e via dicendo. Mentre le grandi vie di comunicazione piegano ad angolo retto verso meridione, il Reno tira solitario a diritto per un ampio catino piatto che si esaurisce al cospetto del massiccio dell'Adula, il baricentro, il cuore sconosciuto e un poco misterioso dell'arco alpino. Come al solito, il bagliore di qualche lembo di ghiacciaio nel controluce pomeridiano suggerisce l'idea di quello che dovrebbe essere il massiccio, se non fosse anch'esso amorevolmente custodito da spesse nuvole. Ero tanto curioso di vedere l'Adula e la piramide del Rheinwaldhorn, che dovrò... tornare un'altra volta. Quello che mi aspetta è una nuova regolarissima sequenza di tornanti, dei quali una vegetazione di bassi ontani impedisce di avere una visione d'insieme. Sembra non finiscano mai, anche perché si sale con una pendenza risibile, probabilmente mai superiore al cinque per cento. Trovo un altro cicilista che, probabilmente annoiato dal percorso, si è fermato presso una vena d'acqua a cucinare. Sul versante opposto della valle un tracciato sale, con una dirittura che sembra quasi una sfida, a un alpeggio piú alto di quanto non si sia noi dopo venti curve: non oso immaginare la pendenza di quel percorso. In corrispondenza di una piccola cava, c'è una svolta sia nella strada che nel panorama: superato infatti il salto glaciale, il tracciato si addentra piú direttamente verso il valico. Questo tratto ha una fortissima somiglianza col tratto omologo della strada del Gottardo, e questo per la forma della valle, le rocce montonate, la vegetazione, i "camini" di aerazione del traforo... Di tanto in tanto la strada gioca a nascondersi con agili tornanti dietro i tozzi dossi rocciosi; fosse di essere in due si potrebbe passare il tempo a fare scommesse sul nascondiglio dei prossimi cento metri. In alternativa, essendo i contrafforti dell'Adula sempre avvolti in fitte nebbie, non mi resta che ammirare i ripidissimi prati che scendono dalle creste del Piz Cavriola, sulla sinistra. Ai 2065 metri del passo si arriva piuttosto in sordina; dopo un breve tratto pianeggiante si incontrano l'ospizio ed l'innocuo laghetto della Moésola, alle cui acque increspate una nube bassa sopra il valico conferisce un colore spropositatamente cupo e minaccioso.

Lascio i quattro avventori dell'ospizio e scendo per le ampie svolte che portano al paese di San Bernardino, piú che altro un gruppo di alberghi sparpagliati in una conca boscosa, difesa da un notevole rilievo morenico. Guadagnato il sommo di quest'ultimo con una risalita di un paio di km, mi affaccio sul rapido salto della valle che conduce al sottostante pianoro di San Giacomo. Nel frattempo è riemersa l'autostrada, che perde quota con un'unica coppia di ampi tornanti, laddove la strada normale ne descrive una moltitudine, alcuni anche piuttosto ripidi e pericolosi. Al Piano di San Giacomo, 1146 metri, si ha giusto tempo di far raffreddare un poco i freni prima della successiva planata su Mesocco, 791 metri. Qui incontro ad un tempo il pavé e la cappa d'afa della cui esistenza mi ero dimenticato dai tempi di Chiavenna. Mi rendo conto comunque che il pavé, stranamente dissestato anche per l'interferenza di brandelli di diversi strati di asfaltature, è riservato ai centri dei paesi, mentre il resto della strada è pavimentato con grossi blocchi di asfalto granuloso, interrotti ogni decina di metri da una discontinuità che causa sobbalzi non necessariamente lievi. Avevo visto una pavimentazione simile l'anno precedente nell'alta val Bedretto, verso il passo Nufenen. La novità buona è che, benché il grosso della quota sia stato ormai dissipato, la strada dà l'impressione di continuare a scendere. Il fondovalle rimane selvaggio e sostanzialmente disabitato; i prati sono verdissimi anche se talora non falciati; di tanto in tanto qualche bella costruzione rurale a secco. Di rado si incontra anche qualche paesino, ma è solo a partire da Grono e Roveredo che la valle può cominciare a dirsi veramente abitata. La bici continua a volare; superato Lumino dove l'anno scorso avevo istituito una puntigliosa ricerca di un mio amico, ricerca nella quale quest'anno non mi cimento, l'ultimissima discesa mi porta alla confluenza tra Mesolcina e Leventina. Posso assicurare di aver avuto l'impressione di aver fatto dal passo, tranne la breve risalita della morena, un'unica volata che, con i suoi 42 km di lunghezza, è certamente da annoverare tra le piú lunghe delle Alpi.

Passata Bellinzona con la sua rocca, vorrei proseguire sul lato sinistro della valle, visto che l'anno scorso percorsi il lato destro. Ma a volte il desiderio di rivedere le cose già note o, detto altrimenti, la vanità di sentirsi "conoscitori," ha il sopravvento sullo spirito di esplorazione, cosicché al primo ponte sul Ticino mi fiondo sul versante opposto. Unica differenza, rispetto alla prededente esperienza, qualche ora di ritardo, grazie alle quali le luci dei paesi che precedono Locarno si vanno già accendendo. A Locarno ferve già la vita serale; passato il tunnel di Ascona tiro un sospiro di sollievo, ritrovandomi sulla strada semideserta che porta al confine. Strada che, beninteso, è da considerarsi pericolosissima perché i rari veicoli corrono come indiavolati per questa successione instancabile di curve e controcurve. A Madonna di Ponte, come già allo Spluga, nessun doganiere si scomoda per causa mia, cosicché per la prima volta posso dire di essere entrato ed uscito indisturbato dalla Svizzera. A Cannobio mi rimangono le ultime due fatiche della giornata: trovare una pizzeria e una sistemazione. Il primo compito, sulla carta piuttosto semplice, si rivela piú delicato del previsto, perché alle dieci di sera una solo pizzaiolo è disposto a lavorare per me, e guarda caso è l'ultimissimo del lungolago. Davanti a una pizza e un quarto di rosso su un popoloso lungolago mi sento quasi un turista assennato, anziché un eccentrico che va su e giú per vie deserte. In certe giornate, quali l'odierna, infatti, ho quasi questa impressione: da Chiavenna a Bellinzona avrò incrociato poche decine di automobili, e due soli ciclisti, su strade che dovrebbero essere pur sempre tra le piú ambite dagli amanti della montagna.

Dopo essermi assorto a lungo sulla spallina del lungolago ad ammirare le luci dell'opposta sponda, da Luino a Maccagno, e poi quelle di Brissago che si arrampicano alte sul fianco della valle, e quelle piú lontane di Ascona e Locarno, imbocco la strada della valle Cannobina. Stasera non voglio neppur sentir parlare di campeggi, anche se qui ce ne sarebbe uno ogni dieci metri. Apprendo da un cartellone del'APT dell'esistenza di una chiesa di Sant'Anna all'Orrido, potrebbe essere un buon posto per stare tranquilli. La statale ha già cominciato a salire con un certo impegno quando trovo il bivio per la discesa verso tale chiesa. Qui però c'è anche un ristorante dove le acque non sono ancora del tutto tranquille, per cui proseguo a ritroso in direzione Cannobio, per vedere come vanno le cose nel vicino paesino di Traffiume. Qui c'è maggiore tranquillità, ed anche una chiesa dotata di ampio portico, dove mi posso sistemare con profitto, in ossequio alle teorie delle pie donne della Presolana. Purtroppo di lí a poco si leva un forte vento che mette in scompiglio il mio telo di alluminio. Avendo già passato, l'anno scorso, una notte niente affatto tranquilla a breve distanza da qui, comincio a temere il peggio, ma fortunatamente il tempo tiene. Il vento, però, è implacabile, e anche questa nottata, come già le due precedenti, non sarà annoverata tra quelle dormite alla maniera del... principe di Condè.  

4. Cannobio - Conthey (172 km, 2800 m)

Avevo desiderato di conoscere meglio la Val Cannobina nel momento in cui la vidi dal Monte Zeda. Ero rimasto affascinato dai gruppuscoli di case che spuntavano nei luoghi piú impensati in mezzo al folto bosco, segnalati dal luccichio dei loro tetti di ardesia. Percorrendo semplicemente la statale di fondovalle, invece, non si riesce ad apprezzare quasi nulla, in quanto il percorso rimane estraneo a tutti i paesi, e segue per lungo tempo una stretta forra. Anche quando, successivamente, guadagna quota, la vista rimane sempre chiusa dalla vegetazione. Primo incontro è l'alto ponte che porta a Cavaglio San Donnino; segue il Ponte di Falmenta dove inizia il tratto piú "orrido" della valle, che mi ricorda alcuni paesaggi delle Apuane lucchesi. Sotto i paesi di Orasso e Cursolo il percorso traversa lungamente il fianco della montagna in direzione ovest; a un certo punto la stretta strada raddoppia senza apparente motivo la sua sezione, indi supera in galleria un marcato costone il quale provoca una profonda ansa del torrente Cannobino. Credo che i ciclisti potrebbero piú vantaggiosamente evitare la galleria seguendo il percorso vecchio. Poco dopo la carreggiata ritorna alla larghezza originaria, attraversa il paese di Fínero in posizione finalmente panoramica; poi si nasconde dietro un altro costone per toccare una prima focella, che mette a un catino dal quale, con ultimo strappo, si raggiunge il valico del Piano di Sale, 935 metri. Con percorso inizialmente ripido e stretto, poi piú tranquillo, arrivo a Malesco, centro di soggiorno abbastanza frequentato. Qui finalmente vedo un po' di gente, perché nei 25 km da Traffiume in su avrò incontrato sí e no due automobili. Faccio colazione nella bella piazza della chiesa, passo alle poste per imbucare le cartoline acquistate a Montespluga e scritte sul tavolo della pizzeria di Cannobio, indi imbocco il rettilineo che porta a Santa Maria Maggiore, il punto piú alto di questa valle che in Italia prende il nome di Val Vigezzo, per essere ridenominata Centovalli in Svizzera. Ovviamente, rinunciando alla Val Cannobina avrei potuto arivare qui in maniera diretta da Locarno.

Dopo Druogno il percorso comincia a scendere; in corrispondenza di un tratto stretto della valle dove la strada è spesso difesa da gallerie di riparo contro le frane la pendenza diventa impegnativa. In breve arrivo all'indicazione per il Sempione che, pur essendo diretto al Sempione, ho estrema cura nel non seguire, in quanto certamente mi manderebbe sulla superstrada costringendomi a percorrere, e per giunta in salita, il tunnel del Montecrevola. Piego a destra per il centro di Masèra, annunciato da una graziosa chiesetta di sassi, appoggiata a un immane masso erratico. Seguendo le indizazioni per Montecrestese e poi attraversando il ponte sul Toce, arrivo a Crevoladossola dove sono in vista della vecchia statale del Sempione. Potrei raggiungerla a mezzo di una ripida scorciatoia, ma per risparmiare energie e non perdermi il bel ponte Crevola preferisco allungare il percorso attraversando due volte la Diveria. Dopo l'uscita della superstrada dal tunnel, inizia tutto un gioco di intrecci piuttosto confuso tra le due strade; io finisco per seguire una indicazione per Varzo che mi porta nella parte alta del paese, dove devo farmi strada in mezzo al mercato, per poi riscendere alla strada del Sempione. Passata la Cairasca, inizia la parte piú stretta e interessante della Val Divedro. Mi fermo a fare uno spuntina a Iselle, posto particolarmente amato perché tante volte, rientrando dalla Svizzera, vi si torna a bere il primo caffé fatto come Dio comanda. Un doganiere dalla barba rossa stavolta vuol sapere tutto sui miei documenti nonché piani di viaggio. Conviene che è molto logico passare di qui per raggiungere Aosta in quanto, a parte la seccatura di questo valico e del Gran San Bernardo, la strada è tutta diritta. Mi fa giustamente notare che la carta d'identità scade tra dieci giorni, ma preciso che per quell'epoca conto già di essere arrivato ad Aosta. Poi mi augura ognibene e mi riconsegna alla salita, la quale mi conferma che le gambe oggi sono in sciopero; fra Gondo e Gabi mi sento come se qualcuno mi avesse nascosto dei macigni nelle borse. Ovviamente la causa è il sonno non recuperato; bisogna solo portare pazienza, non innervosirsi e accettare invece di godere con piú calma il grandioso panorama della Gondoschlucht.

All'hotel Gabi si apre la vista sulla selvaggia Laggintal, dominata dalla mole immensa della Weissmies. In pochi altri posti delle Alpi il confronto con una montagna tremila metri piú alta è tanto ravvicinato e schiacciante. Passato il tornante, il lungo tratto sotto un paravalanghe porta ai ripiani superiori dove sorge Simplon Dorf, paese per il quale devio. Trovando deserto anche questo (ma dove saranno quest'anno tutti in vacanza, mi chiedo?), proseguo per le cave di Eggen - Egga sulla Carta Nazionale Svizzera - dove c'è una fontana adattissima al mio pranzo. Nel tempo che l'acqua della pasta impiega a bollire, si raduna anche un minaccioso temporale sopra il valico. Quando riparto, devo fermarmi dopo cento metri sotto un ponte che si rivela ben presto insufficiente contro i forti straventi. Devo tornare agli edifici delle cave per una piú valida protezione. Terminato il non breve rovescio, mi avvio su per l'ultimo tratto, in mezzo al tipico odore di strada bagnata suscitato da una pioggia che segua un lungo periodo di secco. Intanto esce la luce magica del dopo-temporale, e quando la strada si affaccia sul pianoro dove sorge il meraviglioso Alter Spittal, con la sua aria da vecchio castello delle favole, l'atmosfera ha veramente qualcosa di irreale. Anche la mole del Fletschhorn, dove la neve fresca ha neutralizzato i perfidi riflessi del ghiaccio vivo, sembra oggi piú benevola del solito. Ai 2005 metri del valico, appaiono i monti di là dal Rodano, dove le Alpi Bernesi si mostrano dal Bietschhorn al Finsteraarhorn in spettacolare parata. Solo qualche nuvola si prende ora l'Aletschhorn, ora i Fiescherhörner, ora il Grünhorn; e si alternano con studiata cura, in modo che i Quattromila di quella catena non siano mai visibili tutti contemporaneamente. Un bianco lembo dell'imponente lingua dell'Aletsch sfugge alla barriera della Bettmeralp. Penso a quando, a metà del secolo scorso, il ghiaccio era cento metri piú spesso: forse allora dal Sempione si vedeva tutto il lento serpentone di ghiaccio. Poi guardo all'Eggishorn; ho appena letto il libro di Leslie Stephen il quale narra di rocambolesche salite notturne a quella vetta - dove oggi arriva una funivia e già allora c'era una locanda - al termine di altrettanto rocambolesche traversate dei retrostanti colossi ghiacciati. Mi chiedo, se ancora noi oggi possiamo girare le Alpi con una certa soddisfazione, quali godimenti potessero trarre dalle loro esplorazioni quei primi pionieri, che veramente clapestavano l'ignoto, in una natura che, anche astraendo da tutto il contorno, era forse già di per sè piú imponente allora di adesso.

Ovviamente tutte queste problematiche filosofiche potrebbero vantaggiosamente essere riassunte dicendo che non ho voglia di lasciare il luogo e cerco ogni scusa per tirar tardi. Ad un certo punto, devo darmi un ultimatum e iniziare la discesa, la quale è tutt'altro che noiosa. Va anche considerato che in bici si possono assecondare tutte le piccole curiosità sulle quali in automobile si è costretti a tirare dritto. Cosí, sotto i paravalanghe che riparano la strada dalle insidie del Monte Leone, mi fermo ai finestroni per ammirare le copiose cascate che scendono dai ghiacciai sovrastanti. Mentre io sono alla finestra, arriva un ciclista con un mezzo stracarico. Non ha l'aria da cacciatore di passi alpini, se non altro perché sta spingendo su una pendenza piuttosto moderata; come ipotesi alternativa penso che potrebbe essere un pellegrino in marcia per il Giubileo. L'ipotesi mi affascina e, il solo fatto d'averla formulata mi fa sentire la differenza tra l'essere sul Sempione e l'essere, che so, sul Manghen oppure in Vezzena. Sullo spettacolare ponte sotto Berisal, posso affacciarmi ai parapetti a guardare il fondo della valle e l'ampio arco che la vecchia strada deve compiere per superarlo. Giunto a Briga, credo di essere sceso in un girone piuttosto avanzato dell'inferno. Mai piú avrei pensato, dopo il salutare temporale del passo, di trovare nel Vallese una simile fornace, una micidiale mistura di sole battente, di umidità e di aria stagnante. Anche il traffico (oltre indovinate a cosa) contribuisce a rendere penosa la discesa lungo il Rodano. Mi fermo a Visp per bere un paio di litri di latte, e poi penso di affidarmi alle fontane, che però latitano. Per fortuna ho la confortevole certezza di trovarne una a Sierre, dove potrò prendere una adeguata scorta.

La fontana di Sierre forse merita una digressione. Si tratta di una storia che risale al 1996, e che prende le mosse da Zinal, il paesino alla testata della Val d'Annivieres, la cui strada si dirama appunto a questa fontanella. Con Gabriele, il mio compagno di cordata, partiamo per salire l'Obergabelhorn attraverso l'Arête du Coeur. Dopo due giorni di maltempo, possiamo attaccare la cresta e in tempo di record, dico ovviamente in relazione alla nostra scarsità, ci affacciamo alla spettacolare cornice sommitale. Poi vengono i problemi: il gelo dei giorni precedenti ci costringe a una delicata successione di doppie sia sulla piramide sommitale che sul Gran Gendarme. A farla breve, siamo costretti a bivaccare in cresta a 3750 metri, stretti schiena contro schiena, poco sotto la Wellenkuppe. Non ricordo di aver mai trascorso una notte altrettanto panoramica; in compenso ricordo di averne dormite di migliori. Il mattino dopo, essendomi io del tutto dimenticato che era possibile un rientro non troppo difficile attraverso il Trifthorn, scendiamo alla Rothornhütte, indi a Zermatt. Per la modica cifra di 60 franchi a testa, il noto trenino che raggiunge quella località ci scarrozza per i 65 km che dividono Zermatt da Sierre, donde si pone il problema di risalire a Zinal. Mentre ci aggiriamo pensierosi davanti alla stazione, appare come un miraggio una lussuosa auto blu targata Roma, dotata di autista con tanto di fiocchino. Fin qui, niente di apparentemente correlato alla nostra umile causa. Dopo pochi minuti, però, esce dalla stazione tale Luigi Arialdo Radicati, Conte di Brozolo, già Direttore della Scuola Normale di Pisa ai tempi che c'eravamo anche noi. Con Gabriele scambiamo sguardi interrogativi: oseremo noi, con la nostra aria bisunta di reduci, chiedere aiuto a un tale personaggio? La questione è di non immediata soluzione, però a un certo punto io lancio un deciso cenno di diniego, giustificato da un ragionamento di ferrea logica: con tutte le stazioni turistiche dei dintorni, in primis Crans-Montana, sarebbe irragionevole pensare che quella lussuosa automobile prenda la via della sperduta Val d'Annivieres.

Fin qui la ferrea logica. Due anni dopo apprenderò che Radicati possiede uno chalet a Zinal.

Intanto però noi ci avviamo sotto i nostri pesanti zaini, con gran tintinnio di piccozze e ramponi, verso l'imbocco della valle, dove faremo autostop. Dopo tre km troviamo il bivio e, appunto, la fontanella, che anche in quell'occasione non giunge indesiderata. Ma, tornando dall'avventura di allora (che si concluse al meglio, ovvero con un passaggio, dopo qualche altro km di scarpinata) alla presente, eccomi intento a contendere il modesto getto d'acqua ad un camionista che, messo alle corde dal clima proibitivo, sta cercando di improvvisare un bagno. Nel frattempo una macchina proveniente da Zinal deposita sulla piazzola un giovane olandese che si applica subito a un nuovo autostop. Abbordo l'individuo e comincio a intervistarlo; mi spiega come usi girare le Alpi senza una meta precisa; di tanto in tanto si ferma e fa qualche arrampicata. Poca roba, mai oltre il settimo. Chiedo se sia stato al Besso e ci indovino; chiedo se ha fatto il Chemin des Dames e qui ovviamente lo offendo; apprendo infine che punta verso le Aiguilles di Chamonix. Poi il discorso si interrompe, perché il prossimo passaggio è già pronto...

Di lí a poco, salutato il camionista che non è ancora pago dei suoi lavaggi, seguo anch'io l'avventuriero verso Occidente. Da Sierre in poi il Vallese mi è sconosciuto, e devo dire che il paesaggio è abbastanza nuovo rispetto all'alta valle. A fare la differenza nel paesaggio sono soprattutto le vigne: non un metro quadrato esposto al sole è lasciato qui inutilizzato; i filari sono allineati con la precisione che ci si può aspettare in terra svizzera. Spesso piú che seguire delle linee rette girano concentrici attorno alle numerose collinette moreniche depositate in questo tratto di valle dal Ghiacciaio del Rodano. E in cima a ogni collinetta troneggia il nome del clos, ovvero dell'appezzamento, con un maniacale accanimento onomastico quale avevo visto finora, applicato ai vini, soltanto in Corsica. Quando transito per Sion è già notte fatta. Mi piacerebbe tanto cercare il Chateau de Muzot, ove Rilke compose le Duiniser Elegien (sí, non già a Duino ma qui in Vallese!) però viste le circostanze realizzo che è meglio se cerco una sistemazione per la notte. Quelli che dicevano primum vivere deinde philosophari non avevano tutti i torti, ma stasera per fortuna la vita sarà abbastanza semplice. Al Pont de la Morge svolto a destra, in quanto le prime pendici del gruppo dei Diablerets sembrano proporre una molteplicità di paesini e vigneti dove di sicuro troverò un angolino adatto alla mia causa. Ed è in fondo al paese di Conthey che trovo una spendida chiesetta praticamente isolata, detta di Sant Séverin, circondata da aiuole di fiori e dotata di un portico riparato. Rischia di diventare un'abitudine, ma il posto è troppo bello per non fermarsi qui. Prima di sistemarmi per la notte, sosto lungamente a guardare i corposi agglomerati di luci del largo fondovalle, giú fino a Martigny, che fanno da singolare contrasto alle luci sperdute di Nendaz e Veysonnaz, arrampicate sulla montagna che ho di fronte. Poi mi addormento con la compagnia della vicina fontana: finalmente è arrivato il momento della grande dormita della quale avevo tanto bisogno.  

5. Conthey - Valsavarenche (154 km, 3700 m)

Il giorno dopo sono molto tentato dalle salite, che avrei a portata di mano, al Col du Sanetsch oppure all'Alp Derborence. Il tempo non mancherebbe, visto che ho ancora un giorno abbondante per arrivare ai piedi del Gran Paradiso, ma penso che sia meglio riservare un po' di spazio per gli imprevisti o anche semplicemente per fare le cose con calma. Mi incammino quindi verso Martigny. Lo spettacolo di quest'alba è forse quanto di piú originale ho visto nel corso di tutto il viaggio. Mentre il sole si leva dietro la piramide del Bietschhorn, e sull'alta valle il cielo è quasi sgombro, sopra i Diablerests imperversa, benché non siano ancora le sette del mattino, un temporale che illumina in maniera spettacolare i ripidi valloni e gli avancorpi rocciosi del massiccio. Mentre un varco di sereno presidia abbastanza stabilmente il centro della valle, verso sud, anche se non c'e' vero e proprio temporale, il cielo è plumbeo. Di tanto in tanto il temporale dei Diablerets riesce a guadagnare la mia verticale, ma dopo ogni breve acquazzone l'area di sereno riconquista terreno, cosicché la pioggia si scioglie in vapori rossi che salgono dalla strada e dai filari delle vigne, tagliati dai raggi obliqui del sole nascente. Verso oriente, lo scudo ghiacciato dell'Aiguille du Tour, primo baluardo del gruppo del Bianco, avvolto in una luce fredda e impassibile sembra sorvegliare in maniera imparziale i sommovimenti che hanno corso nella vallata del Rodano.

A Saxon passo sotto la cima sdentata della Pierre Avoi, che domina da oltre duemila metri di dislivello. La sua quota di 2473 metri, non uno in piú o in meno rispetto al Gran San Bernardo, mi dà una misura delle fatiche che mi attendono. A Martigny ci sarebbe la tanto pubblicizzata mostra di Van Gogh, ma apre fra un'ora e mezzo e non ho voglia di fermarmi cosí a lungo. Non mi resta quindi che attaccare i 45 km di salita che mi riporteranno in Italia. La differenza di andatura rispetto al Sempione, dopo una notte ben dormita, si fa sentire da subito. In men che non si dica sono a Sembrancher e a Orsières, dove la strada, sorvegliata dai tornanti che sul fianco opposto portano a Champex, si alza con una larga curva. Mentre i tetti del paese si inabissano, si vede sempre piú vicino il tratto superiore della valle, che si raggiunge con un tratto a mezzacosta superando anche un paio di frazioni. Già prima di Liddes si fa la conoscenza con la sagoma che dominerà la salita da qui in poi: la tozza cupola ghiacciata del Mont Vélan. Parroco di Liddes era quell'abate Murith che nel 1779 riuscí a trascinare quasi a forza dei cacciatori di camosci ad accompagnarlo sulla vetta del Vélan, scalinando il ghiaccio per loro; l'impresa, sette anni prima della conquista del Monte Bianco, è certo una delle pietre miliari dell'alpinismo degli inizi. Fino a Bourg Saint Pierre seguo un tratto di... Haute Route. Il tracciato classico del raid scialpinistico Chamonix-Zermatt, infatti, scende attraverso la Combe de l'A su Liddes, e riprende al paese soprastante dove inizia la salita alla Cabane de Valsorey. A Bourg Saint Pierre devio verso il centro per fare una robusta colazione a base di latte, yogurt e aglio; indi, abbandonando la stradina che prosegue bassa in direzione del Barrage del Toules, rientro sulla via maestra. Dopo altri trecento metri di quota guadagnati precipuamente sotto un paravalanghe, comincia il bello. Mentre la superstrada si infossa nel traforo, il vecchio percorso schizza solitario verso il Passo, al nove per cento di pendenza media. Superata una prima strettoia, la strada gioca con le rocce montonate, indi si aiuta con qualche tornante per superare il tratto finale, dove il versante è piuttosto ripido. Non stupisce che nel 1178 il monaco inglese John de Bremble scrivesse, transitando di qui in inverno: "Signore, rendimi ai miei fratelli perché possa raccomandare loro di non venire mai in questo luogo di tormento dove soltanto uno strato di ghiaccio ricopre, come marmo, la roccia, e il piede non ha presa." Verso il termine di questo entusiasmante percorso vengo superato con passo agile da una bici da corsa. Sugli ultimissimi tratti, tuttavia, un vento fortissimo dà filo da torcere ad entrambi. Nel frattempo è sorto solenne il Grand Combin, che supera il Vélan di ben seicento metri ma, essendo parecchio disassato rispetto al fondovalle, lascia al vicino minore una lunga supremazia, per ristabilire le giuste gerarchie solo all'ultimo. Sul versante italiano appare invece una catena di montagne che io non so assolutamente classificare; per venire a capo dell'equivoco ho bisogno della carta geografica. Il fatto è che il valico vero e proprio è disposto lungo un asse est-ovest, anziché sud-nord, cosicchè il massiccio che ci si trova davanti (che è quello del Grand Golliaz) appartiene ancora alla cresta di frontiera.

Dato il vento che c'è fuori, siamo in molti a visitare puntigliosamente l'interno dell'ospizio. Mangio, compero cartoline, guardo giú verso il laghetto e la statua di San Bernardo da Mentone. Ero stato quassú in macchina da bambino, e conservo una foto, scattata nella nebbia, di mia sorella con me in riva al lago, accanto ai tipici cani del luogo. Dove sono oggi i cani? La spiegazione sta appena dietro l'angolo: gli Svizzeri hanno rinchiuso gli animali in un museo, in modo che non li si possa vedere se non dietro pagamento di cinque franchi. Mi fermo un attimo a leggere delle avventure di Napoleone; tra l'altro, si celebra quest'anno il bicentenario dell'attraversamento del passo. Assoldò gli abitanti di Bourg Saint Pierre per smontargli i pezzi di artiglieria e portarli al passo, dietro promessa di congruo compenso. Poi, se ne andò senza pagare nessuno. Il comune protestò per i successivi due secoli con il governo francese, e nel 1984 ottenne da Mitterrand la concessione di un medaglione simbolico affisso nella piazza del paese. La prossima volta che farò una colazione a base di yogurt, latte ed aglio nella piazzetta di Bourg cercherò di fare piú attenzione al medaglione. Intanto le gambe hanno voglia di salire, e per assecondarle mi metto a studiare le cime dei dintorni. La prima che adocchio è il Mont Mort; un manifesto affisso all'ingresso dell'ospizio garantisce che ogni sera, verso le otto e mezza, l'ombra di Napoleone si mostra fra le nere e desolate rocce sommitali. Tuttavia, dopo che non ho aspettato per Van Gogh, non posso aspettare tanto per Napoleone. Dirigo quindi verso Occidente, salendo verso due cime che sono nell'ordine la Petite, indi la Grande Chenalette. La prima è rovinata dai rimasugli di un impianto dismesso, la seconda è raggiungibile con l'aiuto di scale di ferro e cordini d'acciaio. Sul penultimo cordino supero due coniugi tedeschi in evidente imbarazzo; dal sasso sommitale individuo una vicina vetta di poco piú alta, e prima che i due attacchino l'ultimo cordino, scendo e ne trovo un altro che porta a un pianoro sottostante. Tale pianoro è cosparso di ometti in modo cosí uniforme che non credo l'orientamento ne possa venire in alcun modo aiutato; fungono comunque da ottimo primo piano per le capricciose Aiguilles del Monte Bianco, che fanno capolino tra i diversi mucchietti di sassi. Raggiungo quindi i 2949 metri di quella che apprendò chiamarsi Pointe do Drône; ne condivido la sommità con due turisti che si accingono a scendere sul versante Ferret. Mentre vedo che i due tedeschi della Chenalette stanno giusto finendo di aggeggiare ai cordini, mi fermo ad ammirare il panorama. Grazie alle nubi, non si vede sostanzialemente niente, ma da questo niente a guardare bene spuntano fuori dei dettagli molto significativi. Grandioso, fra tutti, il profilo dello Spigolo Walker alle Grandes Jorasses, che sale impressionante da un mare di nubi, dietro la non meno fiera cresta des Hirondelles. Anche qui, come già al Sempione, l'aver letto da poco il libro di Leslie Stephen mi aiuta. Da esso ho appreso che quel nome, il quale mi aveva sempre lasciato con un punto interrogativo, fu scelto dai primi salitori al colle dopo aver trovato delle rondini morte sul ghiacciaio di Leschaux nella marcia di avvicinamento. A parte qualche guglia della famiglia Dolent-Triolet, del gruppo del Bianco le nubi non mi lasciano vedere altro: ma questa non è che una specie di forma di previdenza dell'ambiente, che si nasconde a dovere per costringere l'osservatore a concentrarsi sui dettagli piú significativi. Cinque anni fa al Piccolo San Bernardo mi fu concesso di vedere non dico l'intera cresta di Peuterey, e nemmeno mezza, bensí solo una parte delle Dames Anglaises, che apparvero per cinque minuti in un piccolo riquadro. Quanto al resto, oggi del Gran Paradiso e di altre montagne piú lontane non c'è nemmeno traccia; quello che posso studiare accuratamente è il Gran Combin, la cui cresta del Meitin è rivolta giusto verso di me. Poi c'è il Vélan: è chiaramente visibile il celebrato canalino ripido che mette dalla cima nello scivolo attraverso il quale si può scendere in sci fino a Menouve.

Raggiunti i due della Chenalette, che vinti i cordini si muovono con maggior disinvoltura, trovo un poco da chiacchierare in tedesco. Poi non mi resta che inforcare la bici e perdere quota. Nella conca della Montagna La Baux ammiro un caratteristico dente di roccia che spicca in mezzo all'anfiteatro, dominato dalla mia cima che da qui fa la sua figura. Nel suo complesso lo scenario potrebbe vagamente ricordare la discesa dal Galibier al Lautaret. Passata la cantoniera e le casette di Prà di Arc, arrivo all'imbocco italiano del tunnel; un esploratore fantasioso si sta divertendo a scorrazzare sul tetto di cemento del paravalanghe che conduce a tale imbocco. Piú sotto, mentre la superstrada se ne va a fare un largo tornante da tutt'altra parte, la statale segue da presso il torrente in mezzo a un bel bosco di larici. All'improvviso appaiono i tetti di St. Rhémy; apparizione che mi ricorda molto quella di St. Paul sur Ubaye scendendo dal Col de Vars. Mi fermo a visitare il grazioso paesino, raccolto attorno a un'unica via. Come ricorda Michel Vaucher nel suo impagabile libro sulle Alpi Pennine, i giovani di questo paese furono esonerati dal servizio militare fino agli anni Venti, purché accompagnassero i viaggiatori al valico, anche in inverno. Particolarmente curata la chiesa; all'ingresso c'è una bacheca nella quale il parroco espone con calligrafia impeccabile il programma non solo delle funzioni religiose, ma anche delle escursioni in montagna. Per l'indomani è prevista una messa con successiva polenta ad Arpeyssaou. Avendo studiato per due anni una scialpinistica in Valpelline, che in entrambe le occasioni è andata a monte, prima per il maltempo e poi per l'incidente, ricordo che questo è il nome di un alpeggio sopra il lago di Place Moulin. Quando dentro alla chiesa trovo un corposo volume nel quale tutti i visitatori sono invitati a lasciare qualche traccia, prego di includere nelle intenzioni della messa dell'indomani anche qualche intercessione in mio favore: dicono da noi che la terza volta San Pietro benedice. Cerco un po' se mi riuscisse di conoscere questo parroco-alpinista, ma non trovando nessuno mi riavvio. Il vento è cresciuto ancora, e sotto Etroubles, nonostante una pendenza tutt'altro che nulla, sono costretto a pedalare se voglio andare da qualche parte. Via via che si scende per la valle, la sagoma onnipossente del Gran Combin, avvolta in un velario di foschia, sembra diventare sempre piú trasparente ed irreale. Ad Aosta tento di effettuare qualche visita culturale per farmi perdonare l'omissione di Martigny, ma il centro storico è invaso da una tale fiumana di gente che stento a trascinarmi dietro il mezzo senza schiaffeggiare con qualche borsa le signore che operosamente si additano le vetrine piú chic. I moti convettivi mi spingono verso una piazzetta periferica dove ho la ventura di trovare una meravigliosa rivendita di pizza al taglio che mi tiene impegnato per la successiva mezz'ora. Il baffuto pizzaiolo che mi vede tornare con regolarità è sempre piú meravigliato della mia attitudine famelica. I buoni propositi culturali sono ormai dimenticati. Procedendo un po' per tentativi trovo il Ponte Suaz che mette sul versante destro della Dora, a un paio di km da quel paese di Pollein che verrà mezzo distrutto dall'alluvione di autunno. La strada verso Aymavilles passa piacevolmente a saliscendi su colline dove impera il culto della vite. Incrociata la strada della Valle di Cogne, la provinciale prosegue per toccare un campeggio che sembra appannaggio dei canoisti: sono in molti a barcamenarsi con varia abilità tra i macigni che emergono dalle acque spumeggianti della Dora. Subito dopo segue Villeneuve, annunciato dalla scalinata che conduce alla chiesetta ove piantai la tenda nella mia traversata Aosta-Nizza del 1995. Mi viene in mente il temporale che trovai scendendo dal treno, e per la prima volta mi rendo conto che quest'anno sto avendo una fortuna assolutamente inusitata col tempo.

La salita della Valsavarenche inizia col superamento di slancio dell'autostrada, poi si acquieta. Prima di Introd passo un ponte ove delle indicazioni turistiche mi consigliano caldamente di ammirare l'Orrido di Introd, ma sono talmente pigro che non mi affaccio nemmeno alla protezione laterale. Questo, guarda caso, mi permetterà di arrivare al grazioso riparo che affianca la fontana del paese proprio mentre cadono i primi goccioloni di un violento acquazzone che interrompe per un attimo la mia inusitata fortuna. Approfitto per telefonare a casa, a quelli della SAT, a Pier Marco, onde vedere se tutto è a posto nelle varie sedi per la grande convergenza dell'indomani. Appurato che tutto è a posto, piove ancora. Osservo sull'altro lato della strada una cappella sconsacrata che ospita una mostra di artigianato; chiude alle 21 ma la ragazza che sta lavando il pavimento mi lancia uno sguardo sufficientemente espressivo da dissuadermi dal tentare il passo. Con sollievo suo e mio, il temporale cessa e io mi avvio. Sopra il paese, una successione di ameni prati falciati invoglia a piantare la tenda, ma io nel frattempo ho avuto un'altra idea. Salirò la parte bassa della Valsavarenche stasera, lasciandomi solo il finale per domattina. Quando, finiti i tornanti, mi addentro nella stretta valle, è già buio fatto. Sul versante opposto della Dora, i paesini e i lampioni sembrano salire fino al cielo. Quando credo di aver individuato la luce che sta piú in alto di tutte, eccone spuntare un'altra, fioca ed isolata, un pezzo sopra. E poi un'altra ancora piú in alto, chiarissima - no, poi mi accorgo che quest'ultima è già una stella. Dentro la Valsavaranche, invece, regna il buio piú pesto. Risalendo la vallata l'indomani, avrei collezionato un'altra salita piacevole ed interessante, una fra le tante. Questo insolito percorso notturno, invece, mi riserva un'esperienza affatto nuova. Salire senza vedere sostanzialmente nulla, esercitandosi a intuire l'andamento del fondovalle dal rumore corposo del torrente, dalle timide voci dei suoi affluenti, dagli echi; indovinare la forma dei costoni scrutando le leggere modulazioni del buio nella foschia che li copre; chiedersi fino a quale quota si spinga l'alto salto glaciale, che trancia di netto il cielo stellato, e tentare di convincersi che pure la montagna non finisce lí, ma prosegue nei piú riposati pendii superiori, dei quali di tanto in tanto solo qualche isolato lembo di neve dà notizia. E ancora, lasciare che funghi fosforescenti di nebbia annuncino l'appressarsi dei vari abitati; intuire dal chiarore dei vapori se essi nascondano un vero paese, oppure un semplice gruppuscolo di case. E, in mezzo a tutto ciò, la luce del fanale che, avanzando sempre uguale a se stessa, rosicchia al vuoto centimetro su centimetro, sembra ricordare quanto di fissità, e di maniacale dedizione ci sia in questo voler andare sempre avanti, verso nuove avventure... Quando poi si appressa un chiarore incomparabilmente piú grosso dei precedenti, la ville lumière che vi si nasconde non può essere ceh Vaslsavarenche, il centro principale della valle. Qui mi fermo, anche se le gambe vorrebbero proseguire ancora, in quanto penso che la parte finale della valle, con l'aprirsi della vista sui grandi ghiacciai, si possa piú proficuamente percorrere di giorno.  

Rifugio Vittorio Emanuele (15 km, 1400 m)

Per una volta potrei largheggiare nell'orario, tuttavia scelgo di perseverare nella rigida disciplina della sveglia alle sei. Scuoto dalla tenda quanto piú posso dell'umido che vi si è raccolto, e parto prima che il paese inizi a risvegliarsi. Superato il campeggio di Eau Rousse, una suggestiva strettoia animata da una vivace rapida mi immette sul pianoro di Plan Pessey, base della salita al Rifugio Chabod. Di qui partí la mia precedente ascensione al "Granpa," come lo chiamano qui, nel lontano 1991. Fiducioso che nessuno della nostra combriccola si lascerà ingannare dalla prima segnaletica di stampo montanaro, proseguo verso Pont. Qui incontro il sole, e mi fiondo subito su per la strada del Nivolet, che taglia le rocce soleggiate del versante occidentale. Questo tracciato fu iniziato negli anni Sessanta, ma i due tratti realizzati, quello che scende dal colle del Nivolet ai sottostanti Piani, e quello che dovrebbe salirvi da Pont, non si sono mai incontrati, perché nel frattempo si era deciso che questo quinto accesso alla Valle d'Aosta avrebbe attirato chiassosi motociclisti con grave danno per la fauna del Parco. Compiuta sostanzialmente l'opera, con un larghissimo tunnel, tanto di sbancamenti (alquanto evidenti salendo ai rifugi del Gran Paradiso), e tanto di lapidi a ricordo di chi è morto durante i lavori, si è deciso che l'unica soluzione possibile era lasciarla incompleta. Poco sopra i duemila metri sono costretto a lasciare il mezzo, in quanto ci sono degli scavi in corso; per il resto, il fondo sarebbe tutt'altro che cattivo. Proseguo comunque a piedi, assieme ad altre comitive, nel buio del tunnel e poi fino al tornante dove, quando si è ormai tornati sulla verticale di Plan Pessey, il tracciato si arresta. Ovviamente non mancano il gigantesco terrapieno del tornante e anche qualche decina di metri della successiva galleria. Torno al veicolo e studio la possibilità di fare un bagno nel torrente che scende dai piani dell'Arolley. Poi l'impeto dell'acqua e la quantità di limo che essa tiene in sospensione mi suggeriscono di fare uso di una piú tranquilla gomma che pesca proprio nel torrente.

Estratto il costume da bagno, faccio dunque una doccia con shampoo e e sapone, ritrovando odori che avevo ormai dimenticato. Tiro tardi ad aspettare che tutte le chincaglierie si asciughino, e quando scendo al piazzalone di Pont sento urlare il mio nome... sono i tre di Borgo, Marisa, Giacomo e Flavio, che mi corrono incontro. Hanno seminato per strada quelli di Levico, che comunque dopo una ventina di minuti cominciano ad apparire a loro volta. Manca solo Pier Marco. Noi ci mettiamo presso una chiesetta, al riparo dal vento, per organizzare un pranzo con le varie vivande che mia madre ha mandato. Mentre bolle l'acqua, compare anche Pier Marco che si è trovato una gomma bucata, stamattina, da qualche facinoroso. Mentre quelli di Levico, spinti da un inarrestabile impulso verso le alte quote, si sono già incamminati, noi siamo ancora impegnati con le varie portate. Dopo il dolce, cominciamo a ricomporre i bagagli, il che comporta anche il far entrare la bici nel bagagliaio di Pier Marco, il travaso tra le borse della bici e lo zaino, e via dicendo. Quando arriviamo al rifugio, abbiamo ancora tempo abbondante per aspettare e giocare a carte. La cena è piú da ristorante che da rifugio alpino, e il tempo dà buone garanzie, vista la bassa temperatura; quando esco per fotografare i progessi del tramonto sulla cupula del Ciarforon mi ghiaccio regolarmente le dita. Anche le prospettive per la notte sono positive, in quanto il nuovo rifugio Vittorio Emanuele ha camere quasi d'albergo, e ne troviamo una riservata a noi cinque. Mentre sistemiamo le coperte, stabiliamo la composizione delle cordate e, siccome Giacomo è da tempo un mio sorvegliato speciale per quanto riguarda il latino, e pure Pier Marco è un affezionato latinista, decidiamo di legarci in ossequio a questa nostra affinità. Marisa e Flavio invece, che hanno l'affinità di essere sposati, faranno una cordata da due.  

Gran Paradiso (1300 m)

Alla sveglia delle quattro si scopre che Pier Marco non è riuscito a dormire, ma in compenso ha pensato un bellissimo articolo. Gli altri hanno una faccia piú riposata, e alle cinque il serpentone di lampade frontali è in marcia fra i grossi blocchi della morena. Alle prime nevi dure già bisogna dotarsi di attrezzi, ma non serve legarsi perché la via è tranquilla e priva di crepacci. Con passo tranquillo ma inesorabile il gruppo sale, e guarda inabissarsi gradualemente la caratteristica sagoma del Ciarforon e lo slanciato triangolo della Tresenta. Mentre faccio foto e aspetto gli altri latinisti, riesco a rimediare un bastoncino inutilizzato che passo a Pier Marco. Poi viene la crepaccia terminale, sopra la quale la volta precedente avevevamo avuto delle difficoltà causa l'avventuroso incrocio di numerose cordate sui blocchi sommitali. Ogi però le condizioni della neve sono ottimali e ci siamo quasi solo noi, quindi sembra che tutto debba andare liscio. Mi apparto cosí alla forcella tra la vetta e il Roc, per fotografare il passaggio dei vari componenti della spedizione. Troppo tardi scopro un particolare destinato a causare un po' di maretta nella mezz'ora seguente. Quel che è accaduto è quanto segue. Mentre io, trentenne, ho avuto la premura di procacciare un bastoncino per Pier Marco, cinquantenne, egli si è messo sulle orme di un settantenne il quale, forte di una serie impressionante di quattromila, si è messo come un camoscio a traversare nel punto dove l'ultimo lembo di nevaio va a morire sotto le roccette sommitali. Caso vuole che, mentre il settantenne esce con sicurezza dalle difficoltà, Pier Marco rimane mezzo impigliato sotto un roccione sporgente.

A Viú, placidamente accomodati sopra delle sedie a sdraio, discuteremo con maggior tranquillità a proposito degli aggettivi che sono in uso nalla comunità alpinistica per descrivere questo stato di cose. Quando infatti, in un messaggio di posta elettronica, io usai il termine incrozzato, variante valsuganotta del piú comune incrodato, che ha un sapore piú schiettamente dolomitico, Pier Marco precisò che in ambiente apuano il termine in uso è integghiato. A Viú mi mostrerà anche una lettera di due pagine sull'argomento, vergata da un suo amico americano, esperto dialettologo italiano, con calligrafia non meno impeccabile di quella del parroco-alpinista. Si apprende dalla lettera dell'eminente studioso che integghiato dovrebbe in qualche modo derivare dal latino tegula, probabilmente perché è comune venire bloccati da qualche tetto roccioso. Ma sembra che la questione sia ben lungi dall'essersi risolta in un breve scambio di messaggi.

Era dunque fatale che qualcuno della cordata dei latinisti perisse per cause riconducibili a radici latine. Comunque, hic et nunc, piú che dottrina ed erudizione si rivela utile il primo cordino giallo che riesco a frugare nello zaino. Con esso tiro su l'... insomma, il malcapitato, e possiamo proseguire verso gli ultimi blocchi dove il terzo latinista ha già aiutato ad installare una corda fissa. Pier Marco si rifiuta di traversare sopra l'abisso che precipita verso il Ghiacciaio - nomen omen - della Tribolazione, cosí passo avanti io e dopo di me la corda viene ritirata. Questo impedirà a molti altri di andare a toccare la statuetta della Madonna, comunque io mi provo a calmare gli animi spiegando che, mettendola sul piano della filologia, la vera vetta del Gran Paradiso sarebbe la cuspide nevosa posta piú avanti, e raggiunta solo dai salitori della parete Nord. Ma piú che della filologia mi preoccupo del bastoncino preso a prestito, che è scomparso dalla forcella dove Pier Marco l'aveva lasciato; fra i pensieri elevati suscitati dall'alta quota, s'insinua anche quello che nemmeno quassú si può lasciare un'inezia per cinque minuti incustodita. La situazione si appiana quando ci fermiamo sulla morena a togliere i ramponi. Qui mi accorgo che nel trambusto della vetta ci siamo dimenticati della grappa al mugo che avevo portato per l'occasione. Urge porre rimedio, e richiedo un brindisi al mio primo Quattromila raggiunto interamente senza l'ausilio di mezzi meccanici. Devo dire che l'aspetto ecologico della faccenda passa del tutto inosservato rispetto a quello enologico, ma mentre la bottiglietta passa di bocca in bocca ci sfila davanti un tipo col bastoncino perduto. Quello ci spiega che era suo nobile proposito riportare l'oggetto smarrito al rifugio; ringraziatolo e alleviatolo dall'incomodo, ripartiamo. Al gran piazzale di Pont la compagnia si scioglie; mentre il nucleo levicense pranza al ristorante, noi finiamo di consumare le nostre ingenti scorte con un nuovo lavorio di fornello.

Segue il momento dei saluti. Marisa e Flavio rimarrebbero qui volentieri a collezionare altre cime con noi, ma settembre è vicino e il latino chiama prepotentemente Giacomo. Io e Pier Marco, che siamo attesi da molta meno strada, scendiamo con adeguata flemma, rievocando i momenti della gita. Mai avevo visto una gita a un Quattromila passare cosí liscia, senza uno solo che si lamentasse della quota o della fatica, e questo non solo nel nostro gruppo. Sarà possibile ipotizzare che ci siano delle giornate contraddistinte da una pressione tanto alta da far dimenticare gli incomodi della rarefazione dell'aria? Al ponte di Introd, quello dove io avevo tirato a diritto, Pier Marco richiede una sosta: vuol controllare lo stato della forra la quale, ai tempi che lui veniva in villeggiatura a Introd, era adibita dagli abitanti del luogo a discarica. Al che lui scrisse una lettera da turista indignato al sindaco, e già l'anno dopo trovò il luogo completamente ripulito. Fra caffè, orridi e birre, arriviamo a Viú giusto per l'ora di cena.  

Colle del Colombardo (35 km, 1250 m)

L'indomani, Pier Marco reclama una giornata di riposo, ed approfitta per portare la bici a Lanzo, per far rimettere in sesto un freno. Gli consiglio lo specialista che nel 1998 mi riabilitò un freno che, causa una avventata discesa sotto un forte temporale, si era ridotto al metallo. Quindi mi incammino da solo a metà pomeriggio verso il Colle del Colombardo, che può essere anche fantasiosamente interpretato come via di comunicazione tra le valli di Viú e di Susa. La strada si dirama da Villa, 869 metri, qualche km a monte di Viú. Da sempre Pier Marco mi decanta le virtú di sconnessione del percorso, ed accolgo quindi come dono ricevuto qualche km iniziale su asfalto, che con pendenze seriose mi fa guadagnare rapidamente quota. Poi l'asfalto cede il passo a un ghiaia molto grossa su cui è effettivamente difficile procedere. In corrispondenza dell'abitato di Borgial, 1183 metri, si ha occasione di tirare il fiato su terreno quasi pianeggiante, prima che la strada riprenda a salire a tornanti su un aperto costone. Con sorpresa incontro due signori provenienti da Susa, che si fermano a chiedere se stanno andando bene per Torino. Io confermo e aggiungo che, per quanto mi sforzi, non mi viene in mente altro percorso piú logico per raggiungere Torino da Susa. A metà dei tornanti, lontano da tutti i ripari, arriva un violento acquazzone al quale ho come unico antidoto il telo di alluminio. Quando l'intensità della pioggia cala, ricomincio ad andare, spingendo lo stretto necessario, in due punti di quelli dove, fosse di essere in macchina, probabilmente con un po' di insistenza si brucerebbe la frizione.

Il Colombardo è supposto essere un luogo ventoso, in quanto sembra che il suo nome derivi dal vento Lombardo, ovvero che soffia dalla pianura. Anche se la Guida del CAI-Touring riporta la seguente spiegazione: il nome si connette probabilmente alle famose chiuse costrutte dai Longobardi, le quali è tradizione si estendessero in Valle di Susa dal monte Pirchiriano al vicino Civrari. Longobardi o no, il vento che trovo è bello forte ed è un bene che il santuario abbia su un lato uno stanzone accessibile, dove posso un po' calmare i brividi di freddo che l'inzuppatura mi trasmette. Appena mi sono un po' scaldato, e smette di piovere, comincio a guardarmi in giro, con un occhio di riguardo alla strada che verso nord guadagna ancora quota, aggirando la Tomba di Matolda e puntando in direzione di alcuni alti alpeggi, prima di cominciare la calata sul fianco meridionale. Se un giorno mi troverò a Susa diretto a Torino, di certo me ne ricorderò.  

Monte Civrari (1250 m)

Il Civrari è una montagna di solido impianto trapezoidale; essa è notevole, piú che per per la quota, per la posizione privilegiata al cospetto della città di Torino. Pier Marco, restituito all'Alpe da adeguato riposo, la propone come mèta di giornata. Ci rechiamo in macchina a Niquidetto, uno dei graziosi paesini sulla strada del colle del Lys. Cominciamo a salire per un bosco che ha tutta l'aria di celare dei funghi, ma non siamo in grado di trovare le prove. Dopo qualche ondeggiamente tra pietraie e distese di arbusti, il nostro sentierino si congiunge a un altro segnalato che procede con maggiore sicurezza verso un pittoresco vallone piuttosto roccioso, caratterizzato dal corso d'acqua che scende a delicate cascatelle. Siccome già il sole si fa sentire, alla prima pozza, visto che abbiamo già acquistato quota, propongo un bagno. Piú in alto, dove il vallone immette in una conca chiusa dalle due maggiori creste della montagna, scopriamo il Laghetto del Civrari e ci diciamo contenti, data la sua modestia, di aver già provveduto al bagno altrove. Arriviamo ai 2302 metri della cima, detta anche Punta Imperatoria, direttamente per la parete meridionale. Qui altri due esploratori stanno scrutando lontano con un binocolo che ci prestano volentieri. Bessi invece, il cane della nostra spedizione, è piú interessato alla frutta dei colleghi che non al loro binocolo. Il panorama è assai migliore rispetto alle giornate precedenti: si vede un buon tratto di pianura, Superga, Avigliana, il gruppo dell'Orsiera. Verso il Delfinato ci sono nuvole, ma in direzione delle Levanne e del Gran Paradiso la visibilità ritorna buona. Sotto di noi, quasi a due passi, il Santuario del Colombardo. La mia attenzione è però tutta per una valle che ci si mostra d'infilata: è quella che penetra tra la Torre d'Ovarda e la Lera, in direzione dell'innevata Croce Rossa. Con il binocolo si distingue una grossa cascata, nonché il tracciato della dismessa ferrovia Decauville che sale al Lago dietro la Torre. Scendiamo verso la Bocchetta del Civrari (attraverso la quale sale il sentiero proveniente dal Colombardo), e risaliamo alla Punta della Croce 2234, che è un belvedere piú indicato per quanto riguarda la Valle di Susa. Nel frattempo comincio già a caldeggiare la causa del Lago dietro la Torre, quale meta per l'indomani. Per quanto riguarda l'oggi, invece, dalla Punta della Croce congegno una avventurosa discesa per cresta direttamente sul lago. Ci sono dei passaggini incalpestabili che per fortuna si riescono ad aggirare per ripidi canalini. Mentre io e Pier Marco, che scivoliamo sull'erba, prediligiamo il terreno sassoso, Bessi che lo teme lo evita accuratamente, e deve essere uno strazio per lei l'ultima discesa per un ripido ghiaione che si esaurisce direttamente in riva al laghetto. Ma il dettaglio piú interessante della cresta è dato da un gruppo di capre aggrappate nell'ombra alla parete ripidissima di uno spuntone, che per la prospettiva appare assolutamente verticale. In questo quadretto rupestre si stenta davvero a credere che le macchie bianche e immobili siano animali e non sassi. In fondo al vallone, deviamo verso l'alpeggio Muande Freste 1432 metri, con l'intenzione di seguire in tutta tranquillità la forestale. Poi però ci pentiamo ed optiamo per la modalità che da noi è detta strazabosco - su di essa i dialettologi si devono ancora pronunciare. La scelta è ottima vista la pulizia del bosco di castagni. Avanziamo anche il tempo di improvvisarci, a Colle San Giovanni, soci onorari del Circolo "Amici del Colle," il che ci permette di gustare una birra e l'ultimo sole comodamente seduti nella panoramica postazione riservata appunto ai soci.  

Colle d'Arnas (44 km, 2200 m)

Il mattino seguente scendiamo a Lanzo a ritirare la bici, e troviamo il negozio chiuso. Non rimane che tornare a Viú, ma Pier Marco decide che mi porterà ad Usseglio onde permettermi il cimento con la salita al Lago dietro la Torre. Lui nel frattempo scriverà l'articolo del Gran Paradiso. Verso mezzogiorno attacco la rampa iniziale, ripidissima fino ad un primo gruppo di case. Nel seguito il percorso si addentra piú dolcemente nella valle, di fronte a un panorama maestoso di cortine rocciose e cascate. Lungo i tornanti che seguono, sono incitato da drappelli di suore che sono venute qui a passeggiare accompagnando degli anziani. A un certo punto la strada è sbarrata da una stanga. Sopra i duemila metri comincia lo sterrato, che però non rallenta troppo la progressione; passato un tunnel buio, dopo un'ora e venti di marcia arrivo alla centrale, 2366 metri. Il vicino lago si rivela essere poco piú di una pozza d'acqua; piú interessante dall'altra parte la ferrovia Decauville che con un tratto pianeggiante va ad impegnarsi su una grande parete rocciosa, ove continua con ardito traverso prima di giungere al tratto ripido che veniva superato agganciando i vagoni a una funicolare. Saluto due ciclisti che si stanno rifocillando, e mi avvio sul sentiero del lago della Rossa. Scenografica l'improvvisa 'apparizione del grosso specchio d'acqua, circondato dall'immensa parete che scende per ottocento metri dalla costiera Croce Rossa - Punta d'Arnas. Imbocco il sentiero per il Rifugio Gastaldi, e dopo breve tratto mi trovo in una zona dove le rocce custodiscono degli ampi avvallamenti limacciosi i quali ospitano una tale moltitudine di fiori variopinti, da sembrare piuttosto delle aiuole di un orto botanico. Sempre piú dispiaciuto di non avere una macchina fotografica con me, salgo ancora ed in poco mi appare il lago del Collarin. Davanti a me, gioca con le nuvole la sagoma grandiosa della Ciamarella, particolare per la curiosa inversione tra i ghiacciaio, che sta sotto, e il nudo fianco pietroso che lo sovrasta. Salutato un escursionista che asseconda il sentiero che scende sotto una cortina rocciosa in direzione del rifugio, io mi impegno sui grossi massi di una estesa morena. Dopo un penoso attraversamento, arrivo sotto il Colle d'Arnas, dove in certi tratti mi trovo diviso soltanto da un sottile strato di pietrisco dal sottostante ghiaccio vivo. Guardo il colle che mi sovrasta, e le nubi che trascorrendo velocemente vi creano dei cangianti effetti di luce. A un certo punto sono raggiunto da voci; sono due alpinisti che scendono dal colle; di essi il secondo si ferma a chiacchierare. Mi spiega come siano reduci dalla Bessanese, e mi raccomanda di non cimentarmi mai con quella montagna infida che oggi li ha costretti a mettere e levare i ramponi una decina di volte. Poi ci incamminiamo nelle nostre opposte direzioni.

Giunto in breve al colle, mi si para davanti lo spettacolo magnifico della Vanoise, nella luce magica del pomeriggio, ulteriormente valorizzata dalla favorevole esposizione del sottostante Vallone di Averole. Alla mia sinistra, un appartato ghiacciaio coperto da un consistente strato di neve fresca, che gli toglie quell'aria un po' decaduta che hanno certi ghiacciai d'estate; solo in alto qualche masso rovinato dalla corta fascia rocciosa che difende la vetta della Punta d'Arnas (detta in Francia Ouille d'Arbéron), ne macchia la superficie. Mi siedo comodamente tra due caldi roccioni e, addentando il panino che la sorella di Pier Marco mi ha preparato, mi godo lungamente lo scenario. Medito come sia un peccato che un simile spettacolo rimanga gran parte del tempo inosservato; mi vengono in mente le teorie degli Empiristi i quali, postulando che le cose esistano solo in ragione dell'essere osservate, trovavano dei problemi a spiegare come se la passassero gli oggetti nei momenti che nessuno li controlla.

Finiti il panino e con esso l'intermezzo filosofico, sento ancora un certo impulso a salire. L'unica zona praticabile è una spalla detritica che, dai 3010 metri del passo, arriva fino a 3220 metri, per poi lasciare spazio ad una aguzza cresta che conduce alla Punta Maria, 3302 metri. In poco piú di dieci minuti sono al sommo della spalla, e qui confermo la mia prima impressione: le rocce che seguono sono al di fuori della mia portata. Ne sono convinto anche dopo aver appreso dalla Guida Cai che la scalata è considerata una facile classica, prediletta dagli ospiti del Rifugio Gastaldi. La stessa guida spiega che il nome della vetta ricorda Maria Castellano, direttrice [sic] del rifugio al tempo della prima ascensione. Dopo aver preso atto dei lievi progressi fatti in materia di panorama - in particolare mi è apparso l'isolotto di verde intenso che ospita il Refuge d'Avérole - comincio la discesa, che mi prende il doppio del tempo di salita, per via della disposizione sfavorevole dei massi. In basso evito la grossa morena, passando sotto la fascia rocciosa e scoprendo cosí nuovi, interessanti laghetti. Calpestati a ritroso i nevai del Collarin, mi ritrovo al Lago della Rossa. Ho un gran lavoro a voltarmi indietro, dove le nubi sempre irrequiete nascondono e ripropongono in forme sempre nuove la Ciamarella e la fiera parete della Bessanese. Davanti a me, invece, il sole giunto ormai a metà discesa conferisce alle nevi compatte del ghiaccio pensile della Rossa la lucentezza di uno specchio. Sotto, l'ombra tagliente della grande parete incide i vapori sopra il lago, e si getta decisa nell'acqua a poca distanza dalla riva. Lungo il sentiero sotto la diga, l'attenzione è catturata della spianata sottostante, dove si raccolgono attorno ai meandri del torrente cavalli e mucche pezzate, che sembrano volersi opporre con le loro moli al movimento delle ombre trascorrenti.

Tornato alla centrale, scopro una piccola mancanza nel paesaggio: quella della mia bicicletta. Sarò stato derubato un'altra volta? Ma la risposta è dietro l'angolo: probabilmente qualche mezzo pesante ha dovuto girarsi nel piccolo piazzale, ed è stato necessario sbullonare un tratto della protezione laterale, guarda caso, proprio quella dove era legata la bici, che è stata riposta nel prato sottostante. In discesa mi posso godere il potente effetto di controluce prodotto dal sole bassissimo sulla cima della Lera, prima che a un certo punto la vorace ombra mi inghiotta. Gli ultimi gitanti stanno rientrando alle macchine che hanno lasciato alla stanga; le suore invece sono già rientrate. Giunto a fondovalle resto in dubbio se salire fino al lago di Malciaussia, solo che farei abbastanza tardi da preoccupare Pier Marco e non ci sono telefoni nei dintorni. Ma in fin dei conti la giornata è stata abbastanza fruttousa da potersi considerare conclusa cosí.  

6. Revigliasco - Bossolasco (82 km, 800 m)

L'indomani Pier Marco ha in programma di andare a trovare il suo amico Carlo Ossola, che abita sulla collina torinese. Se mi volessi accodare, potrei partire con l'inclinazione giusta e la direzione giusta alla volta di Viareggio. Arriviamo in sonoro ritardo per il pranzo, e sarebbe saggio che io partissi subito. Ma, come sempre accade in queste circostanze, vengo convinto a rimanere. Siccome il signor Ossola è stato appena nomianto professore al Collège de France, pasteggia a Bordeaux, ma Pier Marco lo punzecchia sostenento che giammai un piemontese dovrebbe far uso di vini d'Oltralpe; per tutta risposta al Bordeaux si aggiunge in tavola un Grignolino. Anche io partecipo alla querelle con un'intemperanza invero poco acconcia a chi debba di lí a poco mettersi a pedalare sotto il sole d'Agosto. Stabilisco comunque un ultimatum alle tre e mezzo, e a quell'ora mi avvio. In strada mi accorgo che, come diceva Compare Turiddu, "quel vino è generoso / e oggi troppi bicchieri ne ho tracannato," ma le gambe sul primo strappo di Pecetto dimostrano di aver parato il colpo. Segue un certo tratto di discesa, che mi porta sulla piatta statale 29, qui chiamata "via Genova" in omaggio alla sua direzione di massima. Passati o meglio aggirati Poirino e Pralormo, superate le indicazioni per il lago e la Madonna della Spina, verso Montà d'Alba la strada s'addentra in un paesaggio che comincia via via a movimentarsi: sono le colline del Roero che mettono nel piccolo bacino della Val Bòrbore. Da non confondere con la Val Borbèra che sta nell'estremo lembo sudorientale del Piemonte, né tanto meno col Barbera. E avevo sempre avuto l'impressione che mi mancasse qualcosa finché non ho conosciuto un pianista piemontese di nome Barboro. Dopo un'altra cortina di colline, appare Alba. Siccome una adeguata visita turistica e gastronomica di questo luogo è del tutto al di fuori delle finalità del presente giro, tiro sostanzialemente a diritto, imboccando il grande rettilineo col quale la statale 29 si dirige verso la collina. Dopo poco svolto a destra in direzione di Diano d'Alba: la salita è molto varia, con panorami pregevoli sulla città e la sua cerchia di mura rossiccie e anche, superato un primo crinale, sulle colline dell'estremo lembo occidentale delle Langhe, circoscritto dall'arco del fiume Tanaro. In tutta questa zona, le indicazioni che si incontrano ai bivi sono oltremodo eloquenti: Barbaresco, Barolo, La Morra, Grinzane Cavour sono alcuni dei nomi che compaiono sui segnali blu... A Diano si entra per un grande arco; in paese comunque non gira un'anima viva e io tiro a diritto. Dopo una breve discesa, la risalita a mezzocosta mi permette di godere con calma la visione del sole che tramonta dietro la collina della Morra. Nella piazza di Montelupo mi fermo a mangiare ed ascoltare un gruppo di monelli che, mentre giocano a pallone, pianificano i danni da fare in serata, qualche specie di messa nera nei boschi. Il sole abbandona ben presto gli ultimi tetti del paese di Rodello, che occupa il sommo della collinetta prospicente, e dopo qualche chilometro infatti incomincia già ad imbrunire. Il paesaggio alterna viti e campi di noccioli, che si distinguono per l'essere tenuti completamente puliti dall'erba. Supero la prima Pedaggera (dopo una ventina di km ne troverò un'altra), indi Serravalle Langhe, e quando entro nel paese di Bossolasco è già notte. Mi fermo a bere una birra, leggere la Stampa e chiedere di un posto per accamparmi. Mi indicano la strada che sale verso la presa dell'acquedotto, e infatti nelle vicinanze trovo un prato ideale, non fosse per due cani che, da una casa sprangata posta a una cinquantina di metri, fanno in mancanza dei padroni una sorveglianza troppo zelante. Prima di chiudere il telo della tenda, devo trattenermi a osservare l'ampiezza del panorama notturno, scandito dalle diverse ondate di luci, al sommo delle colline vicine e lontane. Non a caso fu uno di qui a scrivere di "quelle lunghe sere d'estate, a guardare il cielo e le vigne sempre uguali... Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline lontane mi facevano gridare e rotolarmi perch'ero povero, perch'ero ragazzo, perch'ero niente." Fra tante cose cambiate, il respiro del paesaggio è sempre quello.  

7. Bossolasco - Montallegro (170 km, 2500 m)

La stradina lungo la quale mi sono accampato ha tutta l'aria di proseguire per ricongiungersi alla statale; ma siccome non fidarsi è meglio decido di risalire all'acquedotto e ripassare cosí per il paese. Poco piú avanti, ho l'onore di conoscere le due sentinelle che mi hanno cosí fieramente avversato la sera precedente: cambiata la postazione, all'angolo opposto del recinto, il loro zelo resta immutato. Passata la chiesetta di San Biagio dove effettivamente converge anche la strada dell'acquedotto, trovo il Passo della Bossola: per chi segue il crinale, si tratta di un'insellatura piuttosto che di un passo. Lascio sulla destra Murazzano e poi, alla seconda Pedaggera, anche la strada che scende a Ceva. È forse questo il punto "riassuntivo" della panoramica delle Langhe. In basso, si vede a sprazzi il fondovalle del Tanaro, di là dal quale spiccano le rocce chiare dei primi veri contrafforti alpini: l'Antoroto, le montagne di Prato Nevoso, il Mongioie. La presenza di un ampio preludio di colline non fa che accrescere la maestà di queste cime. Ma anche verso Oriente, dove il grande pallone rosso del sole, ancora appoggiato alle colline, sembra essersi alzato di malavoglia, la leggera nebbiolina che presidia ogni avvallamento aiuta a distinguere la molteplicità dei rilievi. Nei dintorni di Gamellona (Pavese menziona spesso una collina con questo nome, ma credo si tratti soltanto di omonimia) una grande pala da vento a tre bracci domina per lungo tempo il paesaggio. Ed ecco l'ultimo paese, la porta di uscita dalle Langhe: è Montezemolo, dove il tempo sembra essersi fermato fra le casupole dei due nuclei abitati di Villa e di Tetti; il secondo sorge precisamente sul valico attraversato dalla statale del colle di Cadibona e, poco piú in là, anche dall'autostrada Savona-Cuneo. La volata verso Millesimo, rapidissima grazie alla dirittura della nuova variante, richiede attenzione e solo con la coda dell'occhio riesco a scorgere il castello di Roccavignale. A Millesimo mi fermo a fare colazione; mi aspetta una prima risalita, grazie alla quale si passa dal bacino della Bormida di Millesimo a quello della Bormida vera e propria, raggiunta poco a valle del paese di Càrcare e poco a monte della confluenza dei due rami di Pàllare e di Màllare. In tutto questo tratto si ha l'idea di una grande confusione di strade, sia perché si incontrano ortogonalmente i tracciati di fondovalle, sia perché si gioca un po' a gatto e topo con l'autostrada che, per giunta, in certi punti si sdoppia grazie a dei lavori di rettifica in corso. Dopo Càrcare, prossimo è Altare: e dopo Altare, un po' di salita e una brusca svolta portano sotto un forte, che viene attraversato con un tunnel a senso unico alternato. È cosí che avviene l'attraversamento del celebrato colle di Altare o di Cadibona, quello che fin dal sussidiario delle elementari divide ufficialmente le Alpi dall'Appennino. Ma piú che di queste sottigliezze geografiche, discendendo lo stretto solco del Lavanestro si ha sentore di un'altra transizione: qualcosa di nuovo nell'aria fa capire senza errore che la valle porta dritta al mare.

Il veloce percorso richiede prudenza fino all'ultimo (o sono io che soffro la sindrome da furto del casco?), ma alla fine ci si trova quasi all'improvviso in mezzo alla città di Savona. Ritrovo i portici di Via Montenotte, dove tre anni fa fui precettato, insieme ad altri viandanti, da una simpatica anziana signora che aveva problemi di avviamento. Passo Albisola, Celle, Varazze, con l'attenzione divisa tra il mare ed il Beigua che scalai al tempo. Ci sono piú oleandri e palme che non fontane, da queste parti, ma per fortuna una la trovo a Cogoleto, a... soli 35 km da quella che trovai tre anni fa a Varigotti. Nel seguito, per aggirare Capo San Martino l'Aurelia si impegna in una severa salita, con successiva planata su Arenzano. Fatta una abbondante spesa, incrocio le dita per l'avventuroso attraversamento di Genova, un tracciato urbano di trenta km nel quale fra traffico, rotaie del tram e di binari morti che vanno al porto non si ha tanto tempo per guardare in aria. Almeno, memore di esperienze precedenti, riesco ad evitare di finire nei vicoli chiusi tra i containers del porto. Giunto a piazza Caricamento, anziché avere la presenza di spirito di svoltare un po' verso il centro storico, proseguo stupidamente per un pericoloso tunnel che porta verso la Foce. Nonostante i gravi errori arrivo comunque sano e salvo a Corso Europa. Volendo salire al Monte Fasce, comincio a pormi il problema di trovare la strada da solo, visto che per questi vialoni non gira a piedi anima viva. Per fortuna un seguo un ragionamento avventuroso che alla fine si rivela corretto. Ricordando che dietro la collina di San Martino d'Albaro il vialone passa sotto un ponte, esco in direzione mare col proposito di ritrovare quel ponte. Trovatolo, ecco anche una strada che mi porta a mezzacosta nel fondovalle dello Sturla, ormai fuori dal traffico. Ed ecco qui salvifica una sbiadita indicazione per Monte Moro e Monte Fasce. Si sale per una via di nome Monaco Simone, in una zona residenziale in ottima posizione panoramica. Al bivio dove la strada che sale al Monte Fasce si stacca da quella per Monte Moro, che è un suo avancorpo assai meno elevato, sorge una chiesa con un ampio piazzale; qui c'è anche una fontana. Le condizioni sono ideali per il pranzo. Mentre bolle la pasta, converso con un anziano che mi racconta dei suoi passati ciclistici. Torno a bagnarmi la testa ogni cinque minuti; tale infatti è il tempo di asciugatura sotto il sole impietoso del mezzogiorno. La fame era tale che probabilmente la digestione avviene già nell'esofago; appena riassettate le padelle posso dunque ripartire. Il paesaggio cambia: le case si diradano, e il fianco brullo del monte, sormontato da un bosco di pini marittimi sopra il quale troneggiano le gigantesche antenne, in poco tempo guadagna l'esclusiva del panorama. Gli alberi sono ahimè rarissimi, e io che di solito sudo pochissimo sto lasciando dietro di me una scia di goccioline che si staccano con cadenza regolare dal bordo inferiore della maglietta inzuppata. Ma se il sudore che cade dalla maglietta riceve subito pronto ricambio, ancora piú prodigioso è il ricambio che c'è nel nugolo di mosconi e tafani che mi circonda. L'increscioso fenomeno si è prodotto poco dopo la fine delle case; evidentemente la sterpaglia che circonda la strada è un ricettacolo ideale per questi insetti, che si sentono in dovere di accorrere in massa verso l'unico, vulnerabile viandante. Riuscendo ben raramente a toccare la velocità di 10 km all'ora che mette un minimo di scompiglio tra gli inseguitori, non mi resta che tenere sotto controllo la situazione, ed il lavoro che devo fare a dimenare le mani è ben piú defatigante della regolare pedalata. La strada gira un po' dietro la montagna, su un fianco che è quantomeno piú fresco; la salita qui è ancora dura, ma pare che aggirato un altro costone proveniente direttamente dalle antenne, si possa immaginare di essere arrivati. Sfruttando ogni piccolo cedimento della pendenza per mettere in difficoltà gli inseguitori, arrivo al costone, il quale mi disillude lasciandomi scoprire come la salita sia ancora lunga. Per fortuna ho ormai raggiunto una certa coordinazione nel movimento dei quattro arti, della testa e di quant'altro posso muovere per impedire agli insetti di avere la calma necessaria per pungere. L'arrivo all'ampio piazzale sullo spartiacque, poco sotto il monte Bastía (m 848), è comunque salutato come una liberazione, e tale è anche la scoperta di un successivo tratto di strada pianeggiante che mi permetterà di sbarazzarmi anche dei piú irriducibili nemici. Se la filologia imporrebbe di salire anche l'ultima diramazione di strada per le antenne, oggi è l'entomologia ad imporre decisamente il contrario. Va anche detto questo piazzale è con tutta probabilità il migliore punto panoramico, essendo affacciato su entrambi i versanti. Dei quali, quello marino offre un panorama quasi solenne: un unico costone di sterpaglie digrada regolarmente verso il mare, interrotto solo per qualche tratto dai viadotti dell'autostrada. Lo scenario che si apre verso l'interno offre invece, per singolare contrasto, un operoso avvicendarsi di colline, valli, nervature rocciose, paesini, case isolate; il tutto disposto secondo l'unica regola del capriccio.

Il traverso che segue non si scosta mai piú di tanto dalla cresta, la quale rimane costantemente sulla destra. Passato il monte Cordona, si arriva anche con una ulteriore leggera salita al valico presso il monte Becco, contraddistinto da un riparo di pastori; di qui si plana rapidametne su Uscio. Appaiono intanto il monte di Portofino e i rilievi a ridosso di Rapallo. Giungo al Colle del Caprile (m 470) donde potrei scendere sia in direzione della Val Fontanabuona che verso Recco. Il mio proposito però è un altro ancora: informarmi se ci fosse il sistema di arrivare da qui al Santuario di Montallegro, posto sul monte sopra Rapallo. Per favorire le indagini, mi fermo a bere ad un bar, ed il gestore mi schizza una piccola mappa per arrivare al Passo della Spinarola, donde si dipartirebbe un sentiero pianeggiante per i santuari di Caravaggio e di Montallegro. Seguendo le sue indicazioni, anzichè salire a Colonia Arnaldi, scendo alla chiesa e proseguo per una stradina asfaltata che porta al passo con minor possibilità di errore. Il percorso è a tratti molto ripido; il valico è contraddistinto da una passerella sulla quale transita appunto il sentiero in questione. Spingendo la bici su per uno scolo dell'acqua raggiungo il tracciato, ma dopo qualche centinaio di metri passati a spingere la bici su capricciosi lastroni, mi rendo conto che andando di questo passo non arriverei tanto lontano. Impressione che mi viene confermata da un escursionista proveniente dai santuari. Non serve comunque perdersi d'animo, perché dal passo si può effettivamente scendere verso la Fontanabuona: si tratta di una stretta strada di recente asfaltatura, da percorrere con grande prudenza. Il nome della valle sembra derivi dalla qualità della fonte che c'è nella piazza di Favàle di Màlvaro; quel che è certo è che non si applica alle fontane di Cicagna, dove mi fermo per uno spuntino. Fatte anche le necessarie provviste, mi avvio verso il bivio per Corèglia Ligure, dove comincia la salita al Passo della Crocetta.

L'ascesa è fin dal principio molto severa, e questo permette di raggiungere in breve l'inizio del paese. Un po' di impegno in piú è necessario per arrivare alla chiesa, posta almeno 150 metri piú in alto delle prime case. Superato l'abitato e suoi ordinati terrazzamenti, la strada si inoltra in un bosco dal quale mutua la ripidezza; la pendenza infatti sale ancora e credo che si assesti sul dodici per cento. Dalla maglietta ricomincia a gocciolare la rigola, benché il sole sia ormai tramontato: a far sudare è comunque soprattutto l'abnorme umidità dell'aria. Non sgradito arriva quindi il valico della Crocetta, 599 metri, con una piccola edicola sacra; sull'altro lato della strada, sbuca praticamente dai rovi il sentiero che avevo tentato di seguire. Siccome siamo già all'imbrunire, non perdo tempo a scendere verso San Maurizio Monti, dove trovo il bivio per il Santuario di Montallegro, ultima salita della giornata. Dopo la partenza dell'ultimo autobus che ho incontrato poco sotto, la zona del santuario è rimasta totalmente deserta. Spingo la bici su per il viale monumentale che conduce a una scalinata, sopra la quale troneggia la facciata del santuario. Lascio la bici e ceno presso una fontana; il piazzale di marmo antistante la chiesa sarà un ottimo luogo per la nottata, essendo i frati già andati a dormire e i turisti ridiscesi a valle. Prima di stendere il sacco a pelo, però, sono incuriosito da alcune voci che provengono da dietro la chiesa, e vado in esplorazione. Un simpatico viottolo nel bosco conduce a un piazzale ornato da un gran pergolato, e dominato da un grosso edificio, che è detto l'Albergo del Pellegrino. Il barista è anche il proprietario dell'albergo e, mentre gli commissiono una birra, mi spiega che ormai la vita quassú è abbastanza difficile, in quanto i pellegrini latitano. Che siano tutti a Roma? Gli chiedo della funivia, e mi informa che non è stata ancora ripristinata; si era infatti incagliata con grande spavento dei passeggeri, come avevo appreso dal telegiornale, proprio il giorno prima del mio incidente. Mi spiega un po' dei frati e della vita del luogo, poi compero qualche cartolina, e qualche altra me la vuol regalare lui; infine torniamo lui a chiacchierare al tavolo con la sua brigata, e io al mio giaciglio, per il quale ho scelto l'angolo piú panoramico del piazzale. Prima di addormentarmi, indugio lungamente a guardare i disegni di luce del golfo di Rapallo, di Santa Margherita Ligure e del promontorio di Portofino.  

8. Montallegro - Viareggio (170 km, 1700 m)

Dormo ottimamente e mi sveglio di buon'ora. Poco dopo sento cigolare la teleferica che, dal piazzale posto al termine della strada, porta i viveri all'albergo. Di lí a poco cominciano a dare segni di vita anche i frati; viene aperta la chiesa, cosicché riesco a visitare anche l'interno. Quando esco, trovo il gestore dell'albergo che mi sta dando la caccia per salutarmi, prima di scendere in città. Ha cercato un po' dappertutto perché era preoccupato dal fatto di vedere il mezzo ma non il proprietario. Dopo la lunga discesa su Rapallo, l'Aurelia mi ripropone subito una discreta risalita, prendendo quota tra sontuose ville, palme, fiori e giardini: è il tratto di Zoagli. Segue una decisa discesa si Chiàvari, dopodiché un lungo rettilineo accanto alla ferrovia mi conduce attraverso Lavagna e fino a Sestri Levante. Arrivo al bivio dove si diramano le strade per il Bracco, per Deiva Marina e per il colle di Velva, dove vorrei dirigermi per poi passare in Lunigiana attraverso la Foce del Rastello. Mi riservo comunque cinque minuti di pausa per la decisione definitiva sulla strada da imboccare; intanto prenderò un caffé.

Dopo il caffé, l'idea che mi ispira di piú è quella di Deiva Marina, anche perché è da Savona che seguo piú o meno la costa e ormai mi ci sono affezionato. Conto anche che in riva al mare ci siano tafani meno voraci che sulle assolate strade dell'entroterra. Giunto a Riva Trigoso, trovo una sorpresa: una lunghissima colonna di automobili sosta davanti a un semaforo. Appena giungo in prossimità di quest'ultimo, scatta il verde e insieme alla lunga fila di automobili imbocco il primo di una serie di tunnel. All'ingresso dei successivi, ciascuno presidiato da un nuovo semaforo, comincio a capire che i semafori sono sincronizzati, diciotto minuti di rosso per tre di verde. La velocità di sincronizzazione è di quaranta all'ora, un bel pasticcio per me; tuttavia ormai non resta che andare. Le gallerie si fanno via via piú lunghe; lo spazio strettissimo tra gli automobilisti che mi sorpassano e la parete impongono la massima cura nell'evitare il minimo sbilanciamento: se solo toccassi qualcosa con il bagaglio potrei sbandare e sarebbe un grosso guaio. Alla fine di un tunnel di diversi km, un drappello di automobilisti formatosi al seguito di una macchina che non ha osato superarmi, mi strombazza con ferocia coprendomi di improperi non appena riemergiamo alla luce. Mi conforta il fatto che il lungomare di Moneglia è ormai in vista; le gallerie che seguono verso Deiva sono piú ragionevoli. Dopo Deiva, salire verso l'entroterra per una strada normale mi dà un senso di liberazione. A Castagnola devio verso Framura, e in cima a una delle tante, panoramiche salite, incrocio un gruppo di ciclisti fermi a bere ad un bar. Il loro volto è quesi sfigurato dal rossore e dai goccioloni di sudore, e in effetti l'umidità nell'aria è ancora piú atroce della sera precedente. Dopo ulteriori saliscendi, in prossimità di una cava la strada si immette sul percorso che dal Bracco scende a Lèvanto; discesa estremamente divertente e panoramica.

Dopo essermi goduto la vita e la frescura delle strade di Levanto, all'ombra e con solo... trenta gradi, arriva il momento di cimentarmi col colle della Gritta, che i ciclisti del bar mi avevano preannunciato come molto impegnativo. Sotto il sole dell'una di pomeriggio, ora legale, dopo un km la maglietta già scola sudore. Dalla strada asfaltata di fresco si levano vampate di calore che quasi tolgono il respiro; fortunatamente la salita è breve, e dopo il colle di Gritta, si entra nel bosco; con poco sforzo supero il santuario di Soviore e pervengo al bivio dove, dalla strada che prosegue verso Pignone, si diparte sulla destra la stretta panoramica delle Cinque Terre. Il fatto di aver già percorso una volta questo tracciato toglie ben poco al suo interesse. In particolare, trovo splendido il tratto che segue Volastra, dove nella precedente occasione deviai per un'assurda sterrata, privandomi cosí della bellezza dei panorami che si godono sopra Manarola e soprattutto dopo Riomaggiore, all'altezza della Madonna di Montenero. Qui la vista spazia dai "clivi vendemmiati del Mesco" di montaliana memoria alle selvagge pareti rocciose che affondano nel mare verso Portovenere. Non senza rimpianto imbocco il tunnel della Biassa, che mi porterà nel golfo della Spezia, altro mondo. Con sorpresa trovo che anche la discesa sull'altro lato gode di uno splendido panorama. A metà strada mi fermo a un ristorante posto in posizione eletta, dove mi prendo un gelato e mi siedo sulla scalinata a godere lo spettacolo delle case bianche della Spezia, cui fa eco, dietro la striscia verdeggiante delle adiacenti colline, il bianco a tratti concreto, a tratti diafano e quasi immateriale delle lontane Apuane. Mi diverto a guardare i ciclisti che salgono stracarichi sotto il sole, e poi vengo abbordato da un vecchietto che, stufo della stagionata compagnia con cui sta festeggiando delle nozze d'oro, ha voglia di fare due chiacchiere con qualcuno di piú giovane. Le chiacchiere si estendono tanto che attacco un secondo gelato; indi mi congedo e riprendo la lenta discesa. Superati i vialoni della Spezia, e il lungomare verso Lerici, il tunnel sotto Púgliola mi immette nel bacino del Magra. Al ponte sul largo fiume mi fermo ad ammirare il suggestivo spettacolo di quello che non si capisce bene se sia un fiume o un braccio di mare che entra; anche se non c'è piú nessuno che pesca con il rezzaglio come nelle poesie di Vittorio Sereni, il luogo conserva una certa suggestione. Passato il Magra, si tratta solo di fare il conto alla rovescia della strada per Viareggio. Tralascio ovviamente di parlare della sella e delle code dei fiorentini perché tanto, superato il Fosso dell'Abate, al cospetto del cartello "Viareggio," mi sento ormai pronto e quasi rassegnato alla mia prossima metamorfosi in bagnante. Prima di sistemarmi in campeggio, vado a controllare a casa di Pier Marco se sono il primo ad arrivare dal Piemonte, ma trovo che Pier Marco e il figlio, partiti in giornata da Viú, mi hanno preceduto di mezz'ora.  

Passo del Vestito (100 km, 1150 m)

Dopo tre giorni di spiaggia, cominciano ad affiorare sintomi di irrequietezza. Una sera a cena propongo a Pier Marco di organizzare una gita al Passo del Vestito, e nel giro di un minuto l'affare è definito per le sette del mattino seguente. Raggiunta Massa, quando cominciamo a salire, il versante è ancora in ombra. Sui tornanti sotto Pian della Fioba incontriamo quei manipoli di ciclisti che per tutto il resto del viaggio mi ero chiesto che fine avessero fatto. Goduto l'ultimo spettacolare tratto che precede il tunnel, posto al cospetto della maestà delle Apuane massesi, ci fermiamo ad osservare il Monumento allo Stradino d'Italia e lo stemma sopra la galleria, e in un momento siamo sul versante lucchese. Durante la salita ho avuto il tempo di spiegare a Pier Marco la specialissima "ragione in piú" che avevo per tornare al Vestito. Il fatto è questo: in una grigia giornata di dicembre 1994, dopo essere salito a Passo Croce deviai fino alla galleria del Vestito. Tornato verso il Cipollaio, mi fermai a prendere un ponce all'albergo Aronte di Campagrina, ma l'anziana che teneva il banco non trovò da darmi il resto. Rimanemmo che avrei pagato al prossimo passaggio: e questo era il prossimo passaggio. Quanto attraversiamo Campagrina, Pier Marco con la sua agile bici da corsa mi precede di un centinaio di metri e, avendo capito che il mio debito risiedesse ai Tre Fiumi, si ferma soltanto in quel luogo. Dobbiamo dunque rifare la salita per Campagrina; in paese non troviamo nessuno. Incarichiamo un bambino di istituire ricerche di qualche anima viva, e dopo cinque minuti compare una giovane barista. Giunto il momento di pagare, gli spiego i termini della questione e la prego di aggiungere al conto l'importo pregresso. Saldato il debito, mi informo sulle sorti della donna che teneva il bar al tempo, e vengo rassicurato che c'è ancora; tanto di piú non sappiamo. Il modo di conversare di questa ragazza, che risponde sostanzialmente per monosillabi, ma pur nella sua essenzialità non diventa mai burbera, alla fine ci affascina, cosicché riscendendo ai Tre Fiumi ci rammarichiamo di non aver provveduto a lasciare un altro debito per il futuro.

Al Cipollaio mi aspetta una grossa disillusione: la piú buia delle gallerie, quella dove gli autisti provenienti dalla Versilia non disdegnavano di scortare i ciclisti fino al punto dove appare la luce salvifica dell'imbocco opposto, è stata illuminata, se pur molto flebilmente. Questo fa scadere indubbiamente il livello dell'avventura. All'una siamo già a Viareggio, e io sono pronto a ritornare bagnante.  

9. Viareggio - Bràncoli (94 km, 400 m)

Il sabato finisce la settimana di mare. Dopo il bagno del mattino, l'ultima gita a Pisa che mi permette di sbrigare le faccende residue, il bagno di mezzogiorno e il pranzo, viene il momento di rifare i bagagli. Alle 17 ho appuntamento a Lucca, per la consegna del caffè, e tra una cosa e l'altra parto da Viareggio che sono quasi le 16. Confuso da una provvisoria deviazione, comincio a perdermi appena fuori dalla città, tra i laghetti che contornano la strada di Montràmito. Fortuitamente capito anche nel lougo dove, quindici giorni dopo, mi ritroverò per il matrimonio della figlia di Pier Marco. Le buche mi fanno scendere una borsa dal portapacchi, si rompe la cerniera la riparazione di fortuna mi fa accumulare ulteriore ritardo che tuttavia, dopo la salita di Quiesa, uno sfacciato vento a favore mi permette di ridurre. La consegna del caffè e le chiacchiere su Altenburg fanno venire ora di cena; segue l'invito a rimanere e, chiacchiera dopo chiacchiera, mi rimetto in cammino alle undici e mezzo. Per dove? In teoria per Viareggio, visto che non c'è nessun campeggio meno lontano. Poi però la prospettiva di dover rifare quel percorso una seconda volta adesso e una terza domattina mi alletta cosí poco da suggerirmi di prendere la via della Garfagnana, in cerca di fortuna. Superato Ponte a Moriano, devio per la salita di Bràncoli, dove sono speranzoso di trovare una sistemazione tra gli uliveti. La strada sale, ma nella notte buia ho impressione di trovarmi in una gola stretta e umida e comunque in mezzo a una folta vegetazione. Per fortuna dopo qualche km appaiono di incanto i terrazzamrenti e gli uliveti e, pochi metri dopo un bivio ove non saprei assolutamente quale strada scegliere, mi appare un ripiano che sembra fatto apposta per la mia tenda. Altro che camping di Viareggio. Sono quasi le due di notte quando entro nel mio giaciglio. Sotto di me tremolano le luci della popolosa piana lucchese, ma quassú il silenzio è assoluto. Mi addormento nel profumo intenso delle piantine di menta cui la mia tenda ha usurpato il posto.  

10. Bràncoli - San Giovanni in Persiceto (202 km, 2500 m)

Mi sveglio alle sei, e sono già dalle parti di Bagni di Lucca quando incomincio a incrociare le prime anime vive, gitanti della domenica che si dirigono verso l'Abetone. Sotto Cutigliano lascio a destra un mio vecchio percorso verso la Croce Arcana e seguo la statale 12 che, in questa ventina di km a cavallo dell'Abetone, mi è sconosciuta. La salita dalle parti di Pianosinatico e fino alle Regine è dura al punto giusto; poi si rilassa e diventa un po' lungagginosa, in mezzo a boschi folti che escludono un qualsiasi panorama. Sosto presso una fontana per mangiare qualche frutto, e curiosamente si ferma una macchina targata a Lucca a chiedermi indicazioni: dove si può trovare un bel posto nei dintorni? Io consiglio di allontanarsi da qui, e puntare verso le Radici e San Pellegrino. Al valico girano molti turisti in giaca a vento, perché il sole è debole e il vento freddo. Dopo una rapida discesa su Pievepelago, dirigo verso il Ponte di Strettara dove provo la nuova strada rettificata. Quando risalgo verso Vaglio e Lama Mocogno il sole è uscito in tutta forza, ma nonostante il caldo intenso aleggia una ben definita atmosfera autunnale. Non è solo il fatto di dover essere al lavoro l'indomani, è il paesaggio tutto a ricordare in modo inequivocabile che ormai le follie dell'Agosto sono finite. Finiti i veri saliscendi del Frignano, mi fiondo verso la Valle Panaro, e avevo dimenticato che la provinciale di Coscogno impiega ben 48 tornanti, quasi fosse lo Stelvio, per perdere 300 metri di quota. Per strade di pianura, nel caldo soffocante, arrivo infine a San Giovanni in Persiceto dove la mezz'ora che avanzo viene impiegata a cercare invano un biglietto del treno, sul quale passerò un'altra mezz'ora a litigare col capotreno che mi farà pagare ugualmente un sovrapprezzo. A Trento scopro che alla domenica non esiste l'ultimo treno per la Valsugana: mi aspettano quindi altri trenta km di marcia notturna, dopo i quali è veramente tutto finito.

Conclusioni

Il giro nel complesso è stato di 1800 km per 33 mila metri di salita. Riassumo alcune delle indicazioni turistiche che ne sono emerse: